Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
26 feb 2017

Sindrome di Stoccolma o di Brusson?

di Luciano Caveri

E' un modo di dire che ha ormai superato l'ambito scientifico: penso infatti che tutti più o meno sappiano cosa sia la "Sindrome di Stoccolma". La definizione nasce da un fatto di cronaca verificatosi in Svezia il 23 agosto del 1973. La mattina di quel giorno, infatti, due rapinatori entrarono in una Banca di Stoccolma e presero in ostaggio quattro impiegati per cinque giorni. Furono momenti di grande tensione, in cui, mentre la Polizia trattava il rilascio, gli ostaggi e i due malviventi instaurarono un rapporto affettivo sino al punto da familiarizzare moltissimo. Il sentimento d'affetto divenne tale che, alla conclusione della strana vicenda, gli impiegati sequestrati andarono più volte in carcere a far visita ai sequestratori. Una di loro si spinse sino al divorzio dal proprio marito per sposarsi con uno dei due malviventi.

Varie sono state le spiegazioni date a questo fenomeno. Alcuni autori ritengono che questo legame derivi dallo stato di dipendenza concreta che si sviluppa fra il rapito ed i suoi rapitori, visto che sono loro a controllare cibo, aria, acqua e sopravvivenza, elementi essenziali, che giustificherebbero la gratitudine e la riconoscenza che gli ostaggi manifestano nei confronti dei loro carcerieri. Altri autori, la maggioranza a dire il vero, affronta invece il fenomeno da un punto di vista più tipicamente psicoanalitico: in generale, si potrebbe affermare - come ho letto sul Web - che l'Io, nel tentativo di trovare un equilibrio fra le richieste istintive dell'Es ed una realtà angosciosa, non può far altro che mettere in atto meccanismi difensivi. Per dirla più semplice: la "Sindrome di Stoccolma" si manifesta soprattutto quando la vittima percepisce che la sua sopravvivenza è legata al sequestratore. Ci riflettevo di fronte al recente Congrès dell'Union Valdôtaine, dove - a parte un documento finale lungo e ponderoso, ma sostanzialmente scritto per far finta che tutto funzioni a meraviglia in Valle d'Aosta - uno degli espedienti retorici e psicologici è stato quello ormai polveroso di pigliarsela con i traditori che se ne sono andati dal Mouvement. Io l'ho fatto quattro anni fa e non ho seguito neppure chi, come l'Union Valdôtaine Progressiste, è tornato in maggioranza con l'UV ed in Giunta con Augusto Rollandin per poi scoprire - così mi pare che sia andata - che nulla era cambiato in metodi e comportamenti. Che è esattamente quel che io avevo detto sarebbe successo, ma si vede che non avevo capito, per mia colpa, astute strategie politiche in corso. Ma questa è una digressione: quel che conta è che questa ricerca da parte di esponenti unionisti della gogna per chi, in tempi diversi, ha espresso dissenso, non nasconde la realtà. Ad essere coerente è chi se n'è andato non accettando lo svuotamento progressivo di ideali e principi alla base dell'esistenza stessa dell'Union, che è stata presa in ostaggio da Augusto Rollandin, che ne ha fatto un partito personalista, piegato alla sua concezione del potere e all'uso delle Istituzioni per i propri disegni. E' questa una constatazione politica e non un astio personale, che non servirebbe a nulla, se non a rodersi il fegato. Per cui quel che appare tristissimo è la consapevolezza, al di là del "cerchio magico", come si dice oggi dei piccoli gruppi che attorniano un Capo assoluto, di quante persone ci siano ancora che in buona fede si fidano ciecamente del leader maximo e finiscano per essere vittime di quella che - valdostanizzando la "Sindrome di Stoccolma" - potremmo chiamare la "Sindrome di Brusson". Per capirci: c'è chi non muove neppure un sopracciglio, malgrado tutto indichi che il sistema costruito scricchioli sinistramente per problemi interni e spinte esterne e lo schianto sarà scioccante. In più si avvicina la fine di un periodico storico sia per le regole elettorali che limitano i mandati presidenziali sia per logiche anagrafiche. Comunque e per quanto ci siano queste evidenze, restano in tanti - magari anche consci di certe puzze di bruciato - lì indefessi e «avvinti come l'edera», come cantava Nilla Pizzi nel 1958 al "Festival di Sanremo". La canzone "L'edera", pianta della passione nella mitologia greca, la potremmo proprio usare come simbolo di questa situazione che stupisce ancora per la sua persistenza. Vedremo cosa capiterà e se un giorno si scoprirà che gli "eretici", me compreso, avevano ragione. Tornando alle metafore musicali forse, con ironia, a dipingere la situazione è il brano vincente del Festival sanremese di quest'anno, "Occidentali's karma", cantato da Francesco Gabbani: «L’intelligenza è démodé risposte facili, dilemmi inutili AAA cercasi (cerca sì) storie dal gran finale sperasi (spera sì) comunque vada panta rei and singing in the rain».