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05 nov 2020

Phubbing e asocialità

di Luciano Caveri

Giuro che mi darò più regole sull'uso del telefonino. Mi riferisco a questo strumento ormai indispensabile, penetrato nella mia vita quando ero trentenne e che piano piano, in modo avvolgente, è diventato un oggetto che porto con me come 5,9 miliardi di persone (giuro!). Sappiamo bene che espleta tante funzioni utili in uno spazio ridotto: oltre al primigenio uso telefonico, è agenda, messaggistica varia, libreria fatta di app che servono a mille usi, tipo coltellino svizzero e soprattutto porta d'accesso all'infinito mondo del Web. Ora come non mai è indispensabile e lo si vede in modo plastico quando ci manca la connessione, muore la batteria o lo smartphone si rompe. Fa specie pensate che saranno apparati legati all'intelligenza artificiale, integrati alla vista o al cervello, a fare le veci rafforzate del vecchio telefonino, che sembrerà tra pochi anni arcaico come i vecchi telefoni di casa o le cabine telefoniche ormai sparite.

Ma, intanto, come dicevo devo darmi una regolata e mi viene da sorridere perché sto scrivendo dal mio fido "iPhone" sul suo "Notes". Ho chiesto a "Siri" se uso troppo il telefonino e lei, in barba ai sistemi Apple che ormai monitorano l'uso dell'apparato, mi risponde soave: «Non c'è problema!». Perché, invece, io mi pongo il problema? Perché trovo su di un giornale la parola inglese "phub­bing". Perché, invece, io mi pongo il problema? Perché trovo su di un giornale la parola inglese ”phub­bing”. Un termine nuovo, nato dalla fusione delle parole "phone" (telefono) e "snubbing" (snobbare), che indica l'ignorare o trascurare il proprio interlocutore concentrandosi sul proprio smartphone. Con orrore ragiono sul fatto che capita anche a me non solo nel vis à vis, ma anche durante riunioni e conferenze, nella speranza, che è un'illusione, di poter prestare la medesima attenzione a due cose assieme. Capita non solo al lavoro, ma anche nelle relazioni sociali tra amici o in famiglia. Tutti insieme fisicamente, ma assorbiti dal flusso incessante del proprio telefonino. Leggo di uno studio condotto dall'Università del Kent, che segnala quanto verifichiamo ogni giorno banalmente in una sala d'attesa e cioè un peggioramento della comunicazione e delle relazioni interpersonali. Facile collegare tutto al famoso termine "Internet addiction", che fu coniato nel 1995 da Ivan Goldberg, che si riferisce all'uso compulsivo di Internet, determinando un vero e proprio disturbo. Leggo dell'esistenza di queste tipologie su cui riflettere e così concludo:

"Information-overload: la ricerca compulsiva di informazioni on-line. Nel 1997 è stata condotta una ricerca basata su un campione di mille persone provenienti da Stati Uniti, Hong Kong, Germania, Singapore e Regno Unito dal titolo: "Glued to the screen: an investigation into information addiction worldwide". Il 54 per cento del campione della ricerca sostiene di esperire una forte eccitazione quando riesce a trovare ciò che stava cercando e il cinquanta per cento passa molto tempo a cercare informazioni in rete. Cybersexual-addiction: l'uso compulsivo di siti pornografici o comunque dedicati al sesso virtuale. E' una delle tipologie più frequenti. Le principali attività sono flirtare e instaurare relazioni amorose, ma non sempre si tramutano in conoscenze e relazioni reali. Computer-addiction: l'utilizzare il computer per giochi virtuali, soprattutto giochi di ruolo, in cui il soggetto può costruirsi un'identità fittizia. Il soggetto può avere un'identità parallela: o esprimersi liberamente per ciò che è, grazie all'anonimato, oppure "indossare", proprio come una maschera, delle nuove identità".