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31 mag 2023

Bermuda e cravatte

di Luciano Caveri

Guardatevi attorno e vi accorgete di come cambi nel tempo il modo di vestirsi e non per sola imposizione della moda, che pure spinge molto a incanalare le tendenze. Fa sorridere pensare alla considerazione sul nostro vestirci di Arthur Schopenhauer: “Mentre tutti gli animali, presentandosi nella forma, nel rivestimento e nel colore naturali, offrono una vista naturale piacevole ed estetica, l'uomo con il suo rivestimento multiforme, spesso assai bizzarro e stravagante, per di più anche spesso misero e straccione, fa tra loro la figura di una caricatura, una figura che non si adatta alla totalità e che non vi appartiene, in quanto non è opera, come tutti gli altri rivestimenti, della natura, bensì di un sarto, e così rappresenta un'impertinente interruzione nell'armonica totalità dell'universo”. Insomma, una specie di invito a girare nudi, che non mi pare del tutto proponibile. Per cui rassegniamoci a vestire, seguendo i tempi. Oggi vorrei proporre due esempi concreti del tempo che passa con certi cambiamenti. Se fosse per lui, mio figlio piccolo (anni 12, si fa per dire…) girerebbe ormai tutto l’anno in - come si diceva una volta - braghe corte. Non mi stupisco. In questi anni raggiungo al mattino il mio ufficio ad Aosta in contemporanea con l’arrivo per le strade del centro dei ragazzi in cammino verso le scuole della città. Un flusso che mi mette di buonumore a vedere insieme tutta questa gioventù in movimento e i loro look, spesso molto molto informali, prevedono per i maschietti- persino in stagioni freddine - il pantalone corto. Immagino che sia un segno di libertà e questo è davvero singolare. Certe bermuda, tuttavia, fanno impressione. Ricordo tra l’altro come questo loro nome derivi dalla loro popolarità nell'arcipelago britannico delle Bermuda, dove viene indossato non soltanto come capo casual, ma anche in occasioni più formali, spesso abbinato anche a giacca e cravatta. Noi babyboomer nella nostra giovinezza non le avremmo mai messe a scuola o in occasioni formali per almeno due ragioni. Certi professori del passato non avrebbero gradito certi modi di vestire (e anche molte ragazze non scherzano, trucchi e pettinature comprese). In secondo luogo da bambini, con calzettoni alti, eravamo costretti da bambini - ho delle foto della mia prima Comunione che lo testimoniano - a mettere i pantaloni corti “all’inglese” con un quale certo imbarazzo. Confesso che ormai, in luoghi caldi, senza ricordare più certi traumi, porto solo pantaloni corti e la considero una mia scelta di costume non derogabile. Per cui, in fondo, ne capisco anche l’uso più diffuso anche alle nostre latitudini. E cosa dire invece della cravatta? Bel problema: per ora mi pare che resista in certi luoghi istituzionali. Ma non so quanto durerà, perché anche in questo caso il suo uso sta cambiando e anche certi leader mondiali in certi momenti istituzionali se ne privano, rompendo una assodata tradizione. Fa sorridere ed è pure istruttivo un passaggio di Paolo Cohelo: “Vedi che cosa ho intorno al collo?
– Una cravatta.
– Giusto. La tua risposta è logica, coerente per una persona assolutamente normale: una cravatta! Un matto, però, direbbe che porto intorno al collo un pezzo di stoffa colorata, ridicolo, inutile, annodato in maniera complicata, che rende difficili i movimenti della testa e richiede uno sforzo maggiore per far entrare l’aria nei polmoni. Se dovessi distrarmi mentre mi trovo vicino ad un ventilatore, potrei morire strangolato da questo pezzo di stoffa.
– Se un matto mi domandasse a cosa serve una cravatta, dovrei rispondere: assolutamente a niente. Non può dirsi utile neanche per abbellirsi, perché oggigiorno è divenuta addirittura il simbolo della schiavitù, del potere, del distacco. La sua unica utilità si manifesta al ritorno a casa, quando una persona può togliersela, provando la sensazione di essersi liberata da qualcosa che non sa neanche che cosa sia. Ma quella sensazione di sollievo giustifica l’esistenza della cravatta? No”. Appunto, forse un giorno sarà così definitivamente.