Lo scopo del viaggiare

Probabilmente è per difetto, ma credo di aver preso nella mia vita almeno un migliaio di aerei, molti per l’attività politica vissuta ma anche per turismo, mai abbandonato per scelta da discreto giramondo, cui ho sempre dedicato uno spazio di decompressione.
Molti di questi aerei sono stati per una sorta di pendolarismo da parlamentare, diventato parossistico quando ero stato per un anno a Roma e a Bruxelles in contemporanea. Altri ne ho presi - in altre vesti - per convegnistica di varia fatta e anche, come dicevo, per diletto alla scoperta di luoghi nuovi.
Considero per questo la scoperta dell’aviazione e i suoi sviluppi come una grande chance per muoversi e osservo con curiosità da entomologo chi decide di non prendere l’aereo, rinunciando di fatto a spazi reali della propria libertà di movimento. Già che, purtroppo, per la stupidità umana ci sono Paesi dove non si può più andare per violenze e pericoli.
Ho vissuto estati piuttosto stanziali fra infanzia e giovinezza, poi ho scelto di cambiare, sapendo che ci sono troppi luoghi che vorrei vedere e che, nella brevità della vita, mi sfuggiranno e dunque scandisco la vita con qualche ”fuga”. Finché posso però mi abbevero, conciliando questa spinta con i miei doveri istituzionali e poco importa che qualcuno per questo parossismo di guardarmi in giro usi l’arma spuntata dello sfottò per prendermi in giro per questa abitudine nomade. Io mi sento semmai di dire che viaggiare è un dovere e non solo perché - scusate la banalità - abbiamo gambe e piedi e non radici, ma anche perché ritengo che sia una scelta arricchente, specie - lo sottolineo - per chi fa politica e pure amministrazione e dovrebbe avere la curiosità è saper guardare altrove come regola.
Così, per una serie di casi, ho messo assieme in un periodo relativamente breve due viaggi di famiglia e uno di lavoro in Africa.
L’Egitto è stato molto turistico da Il Cairo verso Luxor e poi Assuan, perché in parte inquadrato in comitiva. In certi Paesi (sul pullman c’era un tizio con il mitra) il ”fai da te” va limitato al massimo. Emerge - dovessi dare un’impressione flash - un Paese che non svolta, avvelenato da un regime dittatoriale e da un islamismo ossessivo, e che in più non sfrutta in modo efficace le risorse storiche di assoluta unicità.
Poi sono stato, organizzato in larga parte in proprio, in Marocco a Marrakech, una città avvincente dove si respira invece, pur con i limiti di tutti i Paesi arabi, un’atmosfera di un qual certo dinamismo. Le donne sembrano coscienti dei propri diritti, quanto paradossalmente non sembra emergere in alcune delle loro comunità emigrate in Europa.
Infine il Camerun con un mordi e fuggi molto istituzionale, inquadrato nell’Association internationale des Régions francophones, che raccoglie espressioni varie della democrazia locale e si nota con evidenza come in tutti i Paesi membri si discuta del decentramento e dell’autonomia. Stare a Yaoundé mostra un’altra Africa, anch’essa sospesa fra passato e futuro con crescite demografiche che raffrontate al nostro calo delle nascite parlano da sole.
Ogni esperienza di questo genere aggiunge un pezzo di conoscenza, fa scoprire lati non considerati, problemi non valutati, sorprese piacevoli o spiacevoli. Apre sempre un piccolo spaccato di come le culture umane sappiamo variare in modo impressionante, ma sempre con la possibilità - se lo si vuole - di conoscersi reciprocamente. Questo non vuol dire un colossale e ipocrita “vogliamoci bene”, perché in molte civiltà umane albergano anche quelle che considero inciviltà. Penso ai diritti civili negati, all’eguaglianza e alla dignità calpestati come cartina di tornasole cui non intendo rinunciare in nome degli eccessi di chi pratica con eccessiva disinvoltura il relativismo culturale. Quando si adopera come giustificazione di usi, costumi, comportamenti - che si vorrebbero disinvoltamente coprire con alibi - quando invece nel violare principi fondamentali del vivere in società con il Diritto come bussola si entra su di un terreno inaccettabile per chi crede nella democrazia.

Fenomenologia del musone

Adoperiamo ogni giorno diverse espressioni facciali e posture del corpo che mostrano il nostro stato d’animo. È quel côté animale che consente di poter evitare o si sovrappone alla nostra capacità verbale.
Ho letto un lungo e interessante articolo di Rebecca Roache sul giornale australiano Aeon, tradotto da Internazionale, su di uno dei nostri comportamenti, che è quello, noto a tutti, di “tenere il broncio” o “essere musoni”.
Così scrive l’autrice, che insegna filosofia alla University of London, nel Regno Unito: “Le persone mettono il broncio quando si sentono offese. A volte hanno davvero subìto un torto, ma altre sono solo amareggiate perché hanno perso”
Certi silenzi e la “faccia da ciabatta”, come la chiamo io sono una duplice scelta: “Una è il desiderio di punire: chi è imbronciato vuole che il suo atteggiamento crei problemi al suo destinatario, cioè alla persona che lo ha offeso.(…) Se non si arreca danno a qualcuno, imbronciarsi non dà nessuna soddisfazione. Non ha senso fare il broncio con qualcuno a cui non interessa comunicare con noi. La seconda condizione necessaria per trasformare una chiusura in broncio è, sorprendentemente, comunicare con il destinatario. Il broncio funziona se facciamo capire a quella persona che siamo arrabbiati, risentiti con lei per averci fatto arrabbiare e che è suo compito rimettere le cose a posto”.
Facile immedesimarsi.
Ma la situazione, secondo la Roache, non è sempre semplice: “Ma dato che i musoni spesso si rifiutano di parlare con gli altri, come fanno a comunicargli qualcosa? Ci riescono perché non si comunica solo con le parole. Anzi, un’enorme quantità di quello che esprimiamo è di tipo non verbale. Pensate a come un semplice “grazie” può risultare sincero o meno, di cuore o sarcastico, a seconda del linguaggio del corpo e dell’espressione facciale di chi parla. Lo stesso vale per il cupo “niente” dell’imbronciato, quando gli si chiede cosa c’è che non va: non ammette esplicitamente che c’è un problema, ma il suo linguaggio del corpo e il suo comportamento esprimono l’esatto contrario. Per comunicare il turbamento in modo non verbale è importante che il destinatario sia in grado d’intuire che l’imbronciato ha qualcosa che non va. Per questo di solito teniamo il muso con persone che ci conoscono bene”.
La spiegazione è in fondo semplice: “Se l’imbronciato volesse comunicare direttamente quello che esprime indirettamente, potrebbe dire qualcosa come: “Sono turbato dal tuo comportamento e mi sentirò meglio solo se risolverai il problema che hai creato e mi consolerai”. Ma questa verbalizzazione comporta alcuni potenziali svantaggi. Uno è che l’imbronciato comunicherebbe (indirettamente) che è disposto a discutere del motivo per cui è arrabbiato, cosa che non intende fare, soprattutto perché l’altro potrebbe mettere in dubbio che il suo comportamento è giustificato e risentirsi a sua volta. Il rifiuto della comunicazione verbale, invece, consente di esprimere indirettamente il proprio turbamento e la mancanza di disponibilità a parlarne. Un broncio riuscito spinge il destinatario a soddisfare le richieste dell’imbronciato senza discutere. Naturalmente, questo presuppone che il primo interpreti correttamente la comunicazione indiretta dei sentimenti e dei bisogni del secondo”. Fra le diverse spiegazioni l’autrice propone anche questo: “Nel suo libro Il corso dell’amore (Guanda 2017) il filosofo britannico Alain de Botton spiega il fascino del broncio in termini di “promessa di tacita comprensione” di cui abbiamo goduto da bambini, quando i nostri bisogni erano anticipati e soddisfatti senza che dovessimo esprimerli.
De Botton scrive: “Questo potrebbe essere il motivo per cui in un rapporto, anche il più eloquente tra noi può istintivamente preferire di non spiegarsi per vedere se il partner sa capirlo. Solo una lettura della mente precisa e senza parole è un vero segno del fatto che è una persona di cui ci si può fidare. Solo quando non dobbiamo spiegarci possiamo sentirci sicuri di essere veramente compresi”.
In fondo è una richiesta d’amore e un test per verificarlo.
Passo alle conclusioni: “Il broncio funziona perché la comunicazione è complessa e la realizzazione dei nostri obiettivi spesso dipende sia da quello che comunichiamo sia da come lo facciamo. Questo non è sempre riconosciuto nelle culture che apprezzano una comunicazione chiara, trasparente, in cui tutto quello che vale la pena di dire va detto esplicitamente. La nostra disapprovazione per il broncio dipende in parte dal fatto che è una strategia indiretta, ma anche dalla posta in gioco, che è molto alta. Dopotutto, le battaglie relazionali sono regolarmente combattute e vinte o perse attraverso il muso lungo.
Come in altre forme indirette di comunicazione, davanti al broncio è difficile capire cosa sta succedendo. Lo riconosciamo quando lo vediamo, ma è difficile definire cos’è, come funziona, perché lo facciamo e così via. La nostra limitata comprensione rende difficile stabilire cosa sia un comportamento corretto in questi casi. Qual è la differenza tra un broncio fastidioso ma genuino e rispettoso, e uno minacciosamente manipolatorio? E come può il destinatario capire che tipo di broncio ha di fronte, dato che l’altro non vuole parlare?
Accettare di essere il destinatario cooperativo di un broncio richiede, oltre a tanta pazienza, la fiducia incondizionata che l’altro sia corretto e non ci stia manipolando. Spesso questo si accompagna al timore che l’imbronciato ci stia solo prendendo per scemi”.
È bene rifletterci!

Berlusconi secondo Gressani

Il valdostano Gilles Gressani in un sapido editoriale su Le Figaro di ieri, in modo brillante e con il volto da notista raffigurato in uno schizzo, si è occupato della morte di Silvio Berlusconi. Ho chiesto all’autore l’autorizzazione di proporre il suo pensiero nel mio Blog, pur con un piccolo taglio all’inizio, perché dedicato ai lettori francesi e alla visione stereotipata del Cavaliere .
Un primo pensiero: “Il y a un style Berlusconi qui a défini et définit toujours une époque. À bien regarder, une bonne partie de la gamme de la politique occidentale contemporaine a ses couleurs. Si le bilan de la période qu’il a fini par marquer n’était pas si médiocre, si son héritage n’était pas si faible, on devrait presque l’étudier comme l’une des figures qui ont marqué par leur action, leur goût, leur intuition des moments charnières et dont l’histoire de France a le secret : de Gaulle, Napoléon, Louis XIV.
Berlusconi a interprété, synthétisé, incarné plus que personne d’autre une politique de « la fin de l’histoire ». Du foot aux médias de masse, de l’immobilier à la communication, toute son action a servi cette ambition : mettre entre parenthèses le conflit, dissimuler la violence, éloigner les années rouges et noires qui avaient ensanglanté l’histoire italienne. Avec lui, la génération 1970 qui s’était engouffrée dans l’intensité de la lutte, du collectif, de l’action directe entre dans un petit salon bien rangé et allume sa télé”.
Io stesso ho vissuto, prima seguendo da giornalista il suo lavoro - aiutato da Bettino Craxi - per spezzare il monopolio radiotelevisivo della Rai e poi dal mio scranno parlamentare vedere la discesa in politica con successi e sconfitte. Con la capacità di rialzarsi quando veniva dato per spacciato, sino al triste declino di questi anni per età e malattie.
Ancora Gressani: “Consommer, jouir dans l’ordre de l’abondance et de la liberté apportées par l’incroyable miracle économique italien devient la raison d’être des classes moyennes qu’il façonne et qu’il sait cibler avec talent. À la fois modèle et démiurge, il crée un mode de vie populaire captivant et accessible, une communauté de consommateurs.
Son intuition au fond était simple mais radicale. Elle peut être résumée en une phrase : par le spectacle, la politique peut sortir du politique.
C’est dans ce grand refoulement que réside la force de sa promesse. Basta, l’asphyxie de l’italian game, la guerre froide et la mafia, les crimes politiques et les crises géopolitiques. Il faut tourner la page des tragédies italiennes. L’assassinat terroriste du président du Conseil et de la Démocratie chrétienne Aldo Moro en 1978, le massacre des magistrats Falcone et Borsellino en 1992 contribuent à l’écroulement de la Première République, définitivement ravagée par la fin de la guerre froide et les enquêtes judiciaires. En 1994, les partis qui avaient gouverné l’italie depuis la fin de la Seconde Guerre mondiale et du régime fasciste disparaissent. Berlusconi est le produit de cette République en ruine de ces arrangements et de ces pactes obscurs, mais il parvient à faire oublier tout cela aussi.
Ce qu’il promet est irrésistible, du moins son immense infrastructure médiatique contribue à le faire croire : l’Italie peut devenir l’une de ses nombreuses entreprises à succès. Par son action il imposera un mode de vie fondé sur un mot qui assume dans sa bouche une puissance populaire inédite : « liberté ». Contre les « communistes » désormais aux portes du pouvoir, il promet une « révolution libérale ». Créer un gouvernement efficace, mais en même temps laisser les gens se débrouiller pour s’enrichir, gouverner avec des socialistes et en même temps avec des postfascistes, avec des partis autonomistes et des partis souverainistes. La politique italienne devient ainsi une émission scriptée par des communicants clinquants, son parti, une boîte précise qui tourne grâce aux meilleurs collaborateurs de son holding financier Fininvest et de son agence Publitalia”.
Una nuova classe politica che ho visto in azione, priva dei fondamenti, malgrado una serie di importanti intellettuali arruolati, ma diventati piano piano comparse di fronte al Cavaliere.
Prosegue l’editoriale: “Il finit par « disrupter » le système. Car pour faire sortir la politique du politique, il ne suffit pas de changer le sens commun, il faut retirer à ses institutions leur espace d’autonomie. À la Constitution, aux rituels byzantins du Parlement, aux traditions poussiéreuses de la politisation républicaine, il faut opposer une professionnalisation technique, la puissance magnétique de l’argent, du spectacle et de la communication.
La trajectoire politique de Berlusconi se confond et se déploie dans cette période d’au moins deux décennies, dans l’élan d’une mondialisation libérale qui commence à s’étioler avec le 11 Septembre et les guerres aux Moyen-orient qu’il soutient dans son atlantisme de fer qui ne l’empêche pas de devenir un ami personnel de Vladimir Poutine. Elle s’arrête au seuil d’une nouvelle guerre étendue, avec la grande crise économique de 2008 qui provoque sa chute en 2011.
On peine à comprendre par quels fils on pourrait relier l’italie de Pasolini, et de la violence de sa mort romaine, aux soirées postmodernes et crépusculaires du « bunga-bunga » dans sa villa d’arcore. Est-ce encore le même pays ?”
Interrogativo ficcante in un’Italia che cambia pelle come i serpenti, dopo un dopoguerra di una partitocrazia consociativa statica, seguita dai bagliori di una Seconda Repubblica oggi finita.
Il commento finale di Gressani è un giudizio, che direi senza pregiudizi: “C’est toute l’impasse de son héritage : car la sortie du politique, la promesse d’un rêve italien de liberté, le spectacle d’une abondance accessible a fini par s’écrouler avec la fin de la croissance. Sous Berlusconi, les classes moyennes italiennes se déclassent. Elles ne maintiennent la consommation qu’en réduisant leur épargne. Sans épargne, elles tombent dans la pauvreté. Sans croissance, sans reconnaissance, la société s’embrase. C’est par-là qu’il reste actuel et que le projet techno-souverainiste de Meloni – une institutionnalisation de la droite radicale qui promet la stabilité – prend tout son sens. L’italie est toujours un laboratoire à étudier pour comprendre le futur de nos systèmes européens de plus en plus intégrés. Comment faire pour trouver une histoire apaisante pour des classes moyennes de plus en plus pauvres de plus en plus endettées, enragées ?
Nous sentons que la parenthèse qui avait mis fin à l’histoire se referme. Avec la guerre, la pandémie, les fractures d’un monde cassé, des forces tectoniques que nous avions refoulées sont de retour. La violence et l’hégémonie ne peuvent plus être tenues à distance de la vieille Europe.
C’est pourquoi il paraissait de plus en plus un homme du passé : dans son soutien au Kremlin, dans ses blagues misogynes. Avec la mort de Berlusconi, s’en va aussi le rêve absurde d’une politique sortie du négatif".
Comunque sia, il tempo ci aiuterà a capire, aspettando per altro le conseguenze su di un Centrodestra senza di lui e anche - visto che è stato finanziatore munifico - senza i suoi soldi.

L’ascia di guerra

L’atto di "seppellire l'ascia di guerra" era un rituale praticato da alcune tribù di nativi americani, che noi chiamiamo, sbagliando, in due modi. Uno è “pellerossa”, espressione coniata dal navigatore Giovanni Caboto nel 1497, per indicare le popolazioni di Terranova, che si dipingevano il volto e il corpo di rosso. Questa parola venne estesa - diventando espressione proverbiale - a tutti gli indigeni dell'America Settentrionale. C’è poi la parola “indiani”, che risale invece a Cristoforo Colombo e alle sue scoperte, derivata dall’errata corrige convinzione del grande navigatore di aver raggiunto le coste dell'India
L'idea di seppellire l'ascia di guerra - torno al punto - era espressione simbolica e rappresentava la fine di un conflitto o di un periodo di guerre tra tribù. Era un gesto di pace e di riconciliazione, una dimostrazione di impegno per porre fine agli scontri e vivere in armonia.
Ci pensavo rispetto alle divisioni e alle separazioni patire nell’area politica autonomista e di cui altri hanno goduto. Vale sempre, in diverse epoche, per i valdostani il rischio dei dissidi interni. Viene in mente il motto latino “divide et impera” (dividi e conquista) con cui si vuole significare di come la divisione, la rivalità, la discordia in seno ai popoli giovino ovviamente solo a chi voglia dominarli.
Siamo vicini ormai ad una soluzione e l’ultima parte del cammino è sempre la più difficile. Bisogna non distrarsi perdendo la
meta e diffidare di chi indica percorsi sbagliati con logica da guastatori e lo fa con la solita e ormai grottesca logica divisiva. Ma soprattutto, come da incipit, bisogna isolare chi l’ascia di guerra, per sue ragioni, la vuole tenere e brandire.
L'unità è da considerarsi una fonte di forza significativa. Quando le persone si uniscono verso un obiettivo comune, possono superare sfide difficili, raggiungere risultati più significativi e creare cambiamenti positivi. L'unità può fornire supporto reciproco, incoraggiamento e solidarietà, e può aiutare a costruire relazioni più solide e durature.
Resto convinto della forza dell’unità. Se gli autonomisti si uniranno, metteranno assieme le loro abilità, le risorse, le energie, per affrontare meglio le sfide, superando le divisioni e lavorando insieme per il bene comune.
Si può essere uniti con diversità di opinioni, cercando punti di equilibrio nelle decisioni da assumere attraverso la comprensione reciproca e il rispetto come regola statuita e ben chiara.
In fondo non è niente altro che la democrazia.

Bambini su ordinazione

Fatevi un giro sui diversi siti che si occupano della maternità surrogata nel mondo o, come più esplicitamente espresso da alcuni, con la dizione da brivido “utero in affitto” e si capisce di più. Roba che non solo impressiona, smontando tutta la retorica sulla generosità delle operazioni di nascite su ordinazione “per affetto”, ma dimostra la tragicità di un mercato, in più solo chi è abbiente.
Leggevo, giorni fa, sul Foglio un’intervista di
Annalisa Chirico
ad Anna Finocchiaro, presidente di Italiadecide, già ministro delle Pari opportunità e dei Rapporti con il Parlamento, che conobbi bene e la cui serietà e l’appartenenza all’area progressista sono fuori discussione.
Dice Finocchiaro: ”Già alcuni anni fa proposi una messa al bando politica di questa pratica, e non certo l’introduzione del cosiddetto reato universale, proposta tanto suggestiva quanto inutile. La mia contrarietà non si fonda solo sull’inaccettabilità dello sfruttamento del corpo di una donna, poiché non si può ignorare che esistano donne che, fuori da condizionamenti economici, sessisti o familiari, decidano liberamente di portare avanti una gravidanza per altri. Io lo trovo inconcepibile, ma accade e avviene sulla base di relazioni personali e fuori dal mercato. La mia ostilità si fonda sul fatto che assai più spesso la maternità surrogata è finalizzata alla produzione di corpi destinati allo scambio commerciale: bambini prodotti da madri surrogate, su commissione, per essere destinati al mercato dei richiedenti, che pagano per questo”.
Chiede poi la giornalista: ”La destra è contro, la sinistra non si sa bene”.
Risponde Finocchiaro: ”Non è proprio così. Nella sinistra è in corso un dibattito aperto. La segretaria Schlein ha espresso la propria opinione personale sul tema ma altre e altri nel partito la pensano diversamente. Preferisco una discussione aperta rispetto a una ipocrita o opportunista. Senza un confronto, non c’è una presa di posizione politica e questa battaglia non può essere oggetto di propaganda ed essere lasciata alla destra”.
E aggiunge: ”Politicamente, come premessa, auspicherei una condanna unanime contro il mercato costituito dalla produzione di esseri umani destinati allo scambio economico, perché mi pare questo il punto della questione. Oggi il mercato esiste in alcuni paesi, dall’Ucraina ad alcuni Stati americani passando per la Grecia: ci saranno pure dei casi di donazione generosa, puramente altruistica, ma il più delle volte si tratta di uno scambio su commissione. Ci sono agenzie, avvocati, medici, assicuratori, pubblicitari… diciamo le cose come stanno”.
La riflessione finale è ancora più profonda: “Oggi non riusciamo più a porci il senso del limite. Lo disconosciamo, lo neghiamo. Io domando: in una società altamente innovativa, dove la tecnologia consente ogni giorno di superare traguardi un tempo giudicati inarrivabili, non è il caso di ripensarlo, e ritrovarlo, un nuovo senso del limite? Guai a fermare la scienza, la ricerca è fondamentale, lei pensi ai progressi nel campo medico, alla rapidità delle connessioni, alle frontiere dell’intelligenza artificiale. Eppure il nostro senso del limite ha bisogno di essere aggiornato in una realtà enormemente mutata. Ci sentiamo quasi travolti dalla marea di innovazioni ma la nostra capacità di adattamento non può prescindere dall’esigenza di preservare l’essenza dell’umano”.
Ha detto il cardinal Matteo Zuppi, vescovo di Bologna e presidente della Cei e serve di certo al dibattito, anche per chi è laico: ”Sull'utero mi dispiace, io non penso che essere contrari all'utero in affitto sia medievale. E non penso che sia modernità far fare il figlio a una donna e poi glielo compri con i soldi. Non trovo niente di moderno in questo. Nella sostanza vuol dire l'arroganza di uno che ha i soldi e compra qualcosa".

Un addio a Berlusconi

Onore delle armi a Silvio Berlusconi, che ha combattuto le malattie con grande coraggio e non ha mai voluto piegarsi all’ineluttabile invecchiamento.
Ne sentiremo di tutti i colori nelle prossime ore: dall’esaltazione delle gesta del Cavaliere a molte cattiverie in un’epoca in cui neppure di fronte alla morte ci si risparmia.
Ho conosciuto Berlusconi sempre in occasioni ufficiali sin dalla sua discesa in campo, che scosse la politica e lo portò a Palazzo Chigi in un lampo. I suoi Governi, che ho conosciuto da deputato, si comportarono sempre in modo istituzionale con noi valdostani e bisogna dare atto alla scelta di Ministri, in posti chiave, anche di elevato livello.
Così come, per chi come me resta un giornalista radiotelevisivo in quella Rai che si trovò a fronteggiare la Fininvest invadente, bisogna riconoscere il suo fiuto imprenditoriale (certo assai appoggiato da certa politica), spezzando un monopolio pubblico fuori dal tempo.
Berlusconi, uomo di studi e di cultura, aveva però quel tratto milanese con eccessi da bauscia e qualche gaffes di troppo nei rapporti internazionali. Certo in molti passaggi è stato Cicero pro domo sua, ma certo una serie di processi subiti hanno dimostrato un certo accanimento. Non era - intendiamoci un’anima candida- e il successo negli affari e in politica dimostrava il suo pelo sullo stomaco e una vera e propria spregiudicatezza. Per questo, in certi passaggi, criticai certe aperture del mondo autonomista.
Ma per il Centrodestra, oggi vincente, ha fatto molto e devono essergli grati. Fu lui a sdoganare la Lega in modo decisivo e a spingerla verso lidi nazionalisti e soprattutto diede spazio - e oggi ancor di più - alla destra nostalgica, che ha ancora virus neofascisti nel suo seno.
Sarà la Storia a giudicarlo per i tratti ancora indeterminati e anche per quello stile, spesso goliardico, che ne ha fatto talora un barzellettiere inopportuno e con quel lato festivo - le cene eleganti - che hanno spesso ridicolizzato l’Italia, anche se ho sempre pensato che in larga parte fossero fatti suoi.
Pensava di campare chissà quanto e ha lottato con il passare degli anni, riuscendo sempre a scamparla. Questa volta non ce l’ha fatta ed è giusto presentare le condoglianze a chi in Valle d’Aosta scelse, chi prima e chi poi, il berlusconismo, fenomeno da libri di sociologia.
Molto senza di lui cambierà e vedremo come.

I “miei” Papi

Penso ogni tanto ai “miei” Papi, nel senso dei Pontefici che mi hanno accompagnato - come eminenti personalità sul palcoscenico pubblico - nel corso della mia vita.
Userei, come strumento, l'elenco dei Papi dal 1958 ad oggi con l'età a cui sono assurti al soglio pontificio e quella della loro morte.
Comincerei con Papa Giovanni XXIII, proclamato Santo: divenne Papa il 28 ottobre 1958 all'età di 76 anni e morì il 3 giugno 1963 all'età di 81 anni.
Non ero ancora nato, quando succedette a Pio XII, ma il “Papa buono” risulta nel ricordo, specie per via della nonna materna assai pia, per quel suo papato così apprezzato. Con quel suo parlare semplice ben visibile nel celebre discorso in piazza San Pietro nel 1962: “Tornando a casa, troverete i bambini; date una carezza ai vostri bambini e dite: “Questa è la carezza del Papa”. Troverete qualche lacrima da asciugare. Fate qualcosa, dite una parola buona. Il Papa è con noi specialmente nelle ore della tristezza e dell'amarezza”.
Seguì Papa Paolo VI, diventato Papa il 21 giugno 1963 all'età di 65 anni e morto il 6 agosto 1978 all'età di 80 anni. Ha scritto Gianandrea Gavazzeni: Figura drammatica. Papa drammatico. Enigmatico, inquietante, importante. Inquietante per il suo complesso ritratto spirituale, come traspariva e come mi arrivava da certi suoi atteggiamenti, dal suo modo di parlare, dalle espressioni del suo viso sofferente”.
Nella mia estate dopo la Maturità, ricordo l’arrivo Papa Giovanni Paolo I: eletto Papa il 26 agosto 1978 all'età di 65 anni, ma morì improvvisamente il 28 settembre 1978, solo 33 giorni dopo la sua elezione. Sarebbe stato nel suo apostolato un Pontefice montanaro, proveniente dall’Agordino, una delle zone della minoranza linguistica ladina. Sulla sua morte inutili misteri e pettegolezzi.
Arriva poi - e divenne Santo con rapidità - Papa Giovanni Paolo II, il Pontefice polacco diventato Papa il 16 ottobre 1978 all'età di 58 anni e che morì il 2 aprile 2005 all'età di 84 anni. Venne in Valle per una visita pastorale nel Settembre del 1986 e seguii quei giorni come cronista Rai e poi fui fra le autorità che lo accolsero per dieci volte in vacanza. Il giudizio storico sul Papato di Karol Wojtyla spetta certo a persone ben più esperte, però a me, oltre all'umanità ed al carisma, colpi la straordinaria accuratezza con cui veniva costruiti i suoi interventi pubblici: nessuna personalità in visita nella nostra Regione autonoma ha mai approfondito con tanto acume nei discorsi la realtà valdostana, dimostrando una grande affezione verso la nostra comunità e le nostre montagne.
Gli succedette Papa Benedetto XVI, diventato Papa il 19 aprile 2005 all'età di 78 anni, che ci lasciò il 31 dicembre del 2022 a 95 anni. Anche lui venne due volte in vacanze in Valle e la prima volta ero Presidente della Regione. Lo trovai gentile e sorridente, assai riservato. Chiese di mettere nello chalet di Les Combes un piccolo pianoforte per suonare al cospetto delle montagne ed essendo bavarese le Alpi le ben conosceva.
Infine Papa Francesco, Papa dal 13 marzo 2013 all'età di 76 anni ed è ancora in carica al momento. È un Pontefice interessante e profondo, anche se - mi si permetta la critica - mi sfugge una certa ambiguità sulla guerra in corso in Ucraina.
Vale per quasi tutti la considerazione, drammatica con Papà Wojtyla, dell’invecchiamento come una delle chiavi di lettura di questi Papi contemporanei. Una specie di luce che illumina il soglio di San Pietro di fronte al problema serio della vecchiaia e dell’invecchiamento, specie in società occidentali nelle quali la vita, con pregi e difetti, si allunga sempre di più.

In piedi o seduto?

Riderne se ne può ridere e lo premetto, visto il tema - come dire? - quantomeno inconsueto, ma nient’affatto estraneo alle orecchie maschili. Mi spiego, prima di citare un articolato reportage di Célia Laborie
sul tema apparso su Le Monde. Il tema per niente aulico è: gli uomini possono continuare a fare la pipì in piedi o devo sedersi sul water, come stavolta suggeriscono le mogli?
L’articolo racconta di un bar di Montreuil dove una scritta nel bagno degli uomini invita a far la pipì seduti
Spiega la giornalista: “Si, en France, ce genre d’inscription peut surprendre, en Allemagne il n’est pas rare de croiser des écriteaux demandant aux hommes de poser leur séant sur la cuvette des toilettes des aéroports, des musées ou des restaurants. Là-bas, il existe même un mot pour désigner quelqu’un qui s’assoit pour soulager sa vessie : Sitzpinkler (« pisseur assis »). Une pratique qui n’a pas cours uniquement au pays de la Fête de la bière. Selon un sondage Panasonic mené en 2020 sur un échantillon réduit (155 répondants), 70 % des hommes japonais affirment uriner assis à leur domicile, contre 51 % cinq ans auparavant. La raison invoquée par ceux qui préfèrent poser leur popotin pour faire pipi est presque toujours la même : la propreté. D’après une étude menée par le chercheur en ingénierie mécanique Tadd Truscott, lorsqu’un homme fait ses besoins debout, les éclaboussures, que les Anglo-Saxons appellent retrosplash, se propagent jusqu’à 3 mètres à la ronde – une distance d’autant plus importante à connaître pour ceux dont la brosse à dents ou la serviette de toilette est installée dans la même pièce que les cabinets”.
La spiegazione è piuttosto ruvida e evoca in più discussioni familiari sui rischi di presenze sgradite sulla tavoletta del wc…
Ancora l’articolo: “Pour garantir la propreté des sanitaires, faut-il imposer à tous le pipi assis ? Ou s’agirait-il d’une énième croisade wokiste contre les libertés masculines ? En 2003 déjà, dans son essai Fausse route (Odile Jacob), consacré à la critique d’un féminisme censé être « obsédé par le procès du sexe masculin », Elisabeth Badinter fustige les mères suédoises qui apprennent aux petits garçons à prendre place sur la lunette des W.-C.. Quand, sur TikTok, Doctor JFK, un étudiant en pharmacie, publie une vidéo pour expliquer que « faire pipi assis permet d’augmenter ton débit urinaire maximal », les internautes alarmés se précipitent pour commenter : « Le mec est fait pour uriner debout ! Regarde les chiens : les mâles et les femelles ne pissent pas non plus de la même façon ! »”.
Non mi paiono spiegazioni nobilissime.
Ma più avanti c’è un passaggio etnografico: “D’après Ben Garrod, chercheur en biologie cité dans le Guardian, le fait d’uriner debout est la pratique la plus courante parmi les nombreuses tribus et communautés que ce Britannique a pu côtoyer à travers le monde. Est-ce là un atout de l’évolution conquis de haute lutte par l’homme, seul mammifère bipède de la planète ? « Je suppose que, si je me lève pendant que je fais pipi, j’ai plus de chances de voir un tigre à dents de sabre courir vers moi (…). Cela pourrait être un ajout au parcours évolutif, mais cela n’a pas conduit à notre évolution en tant qu’espèce », conclut l’enseignant”.
Mah!
C’è chi nel mondo femminile - osserva la Laborie - vorrebbe fare una cosa diversa: “En parallèle de ce débat sur les habitudes masculines, certaines femmes revendiquent désormais le fait de pouvoir faire leurs besoins jambes tendues, pour des raisons pratiques ou symboliques. Des entreprises commercialisent même des « pisse-debout » jetables ou réutilisables pour leur permettre de se soulager plus facilement dans la nature, ou pour éviter les files d’attente à rallonge dans les festivals”.
Insomma: il dibattito - che sia preso o no sul serio - è aperto.

Edicole e librerie in crisi

Le edicole mi sono sempre piaciute. Quando ero pendolare ferroviario da studente, alla stazione del mio paese - Verrès, nella bassa Valle d’Aosta - c’era una bella edicola che stuzzicava la mia curiosità sin da ragazzo. Idem ad Aosta e poi ad Ivrea, destinazioni susseguitesi nel mio pendolarismo, dove trovavo pane per i miei denti, quando era tutta carta e giornali e riviste erano numerosi.
Anche nei primi passi da giornalista e poi da politico tutto era ancora cartaceo e faceva piacere, in parallelo con librerie e libri che sono sorelle maggiori, abbeverarsi nelle notizie e negli approfondimenti per far funzionare il cervello. Interessante quel che osservava Hermann Hesse: “Non dobbiamo leggere per dimenticare noi stessi e la nostra vita quotidiana, ma al contrario, per impossessarci nuovamente, con mano ferma, con maggiore consapevolezza e maturità, della nostra vita”.
Scrivo anzitutto delle edicole, perché nei giorni scorsi - già chiusa da anni l’edicola dentro la stazione ferroviaria di Aosta - è stata letteralmente rimosso quello chalet che di fronte alla stessa stazione fungeva da tantissimo tempo da edicola. Una manifestazione fisica della fine di un’epoca.
Poche settimane fa leggevo su Agi: “L'emorragia delle edicole rallenta, -3,5% lo scorso anno contro il meno 6,3% dell'anno precedente, grazie a misure di sostegno venute dal governo, ma il settore sconta ancora un gap forte, tanto che nel 25% dei Comuni italiani neppure una è in attività, aperta al pubblico. Un grave danno sociale che mette in discussione il ruolo di canale di informazione che esse svolgono in una comunità”.
E ancora: “Emorragia effettivamente rallentata, se si pensa al -13,3% del 2018-2019, con la chiusura di ben 2.027 punti vendita, rallentata grazie anche alle misure di sostegno al settore. Quasi la metà delle edicole svolge ulteriori attività rispetto alla classica vendita di quotidiani e periodici che resta comunque prevalente”.
Il rallentamento è dovuto al fatto che le chiusure sono già state tantissime e basta che ognuno pensi alla geografia delle “sue” edicole. Vero è che si ampliano i prodotti in vendita, ma una cartina di tornasole resta la crisi dei quotidiani. Scriveva giorni fa Vanni Petrelli su il sito il millimetro: “Il boom di internet e dei social, la fuga degli inserzionisti, i giochi politici e di potere e la mancanza di innovazione. Un mix devastante per i quotidiani italiani, alle prese con un crollo verticale delle vendite che va avanti oramai da anni, mai bilanciato dalle edizioni digitali. Negli anni ’80, ad esempio, Repubblica era il primo quotidiano, con una tiratura di oltre mezzo milione di copie, seguito dal Corriere della Sera (circa 450mila). Oggi il quotidiano fondato da Scalfari nel 1976 sta affrontando la crisi più grave dalla sua nascita, visto che le copie vendute si attestano intorno alle 120mila. Il Corriere della Sera invece, viaggia di poco sopra le 230mila, con una forbice tra i due quotidiani che però si allarga sempre di più. Nel panorama nazionale sono davvero in pochi a fare eccezione al calo delle vendite: nelle impietose rilevazioni mensili si affaccia ogni tanto un timido segno più accanto ad Avvenire, Fatto Quotidiano, Libero, Italia Oggi, per citarne alcune. Ma nulla in grado di recuperare la valanga di giornali “scomparsi””.
E le librerie? Esiste anche in questo caso una logica causa-effetto. La crisi del mercato del libro in Italia comporta da tempo pesanti ripercussioni anche in termini di occupazione. Molte librerie sono state chiuse nei paesi e anche nelle città, lasciando un vuoto culturale evidente.
Una sorta di tenaglia edicole/librerie che è segno di profondi cambiamenti. Bisogna in parte prenderne atto - pensiamo come parallelo alla morte irreversibile delle cabine telefoniche- ma questo non impedisce per fortuna e per impegno di studiare operazioni intelligenti di salvataggio e di cambiamento.

Elogio della gentilezza

Anni fa avevo scherzato sulla scelta di avere in qualche Comune valdostano un Assessore alla Gentilezza nel solco di una proposta proveniente da un’Associazione culturale eporediese. Ora vedo che, con altro percorso, Courmayeur ha aderito ad un Manifesto su proposta di altro Movimento - che mi pare legato allo yoga e alle sue pratiche - che lo rende “Comune Gentile”.
Vorrei riflettere sul tema, perché resta sempre interessante . Partirei dalla ”Lettera enciclica fratelli tutti di Papa Francesco sulla fraternità e l'amicizia sociale" si legge con chiarezza cristallina: ”La gentilezza è una liberazione dalla crudeltà che a volte penetra le relazioni umane, dall'ansietà che non ci lascia pensare agli altri, dall'urgenza distratta che ignora che anche gli altri hanno diritto a essere felici. Oggi raramente si trovano tempo ed energie disponibili per soffermarsi a trattare bene gli altri, a dire "permesso", "scusa", "grazie". Eppure ogni tanto si presenta il miracolo di una persona gentile, che mette da parte le sue preoccupazioni e le sue urgenze per prestare attenzione, per regalare un sorriso, per dire una parola di stimolo, per rendere possibile uno spazio di ascolto in mezzo a tanta indifferenza. Questo sforzo, vissuto ogni giorno, è capace di creare quella convivenza sana che vince le incomprensioni e previene i conflitti. La pratica della gentilezza non è un particolare secondario né un atteggiamento superficiale o borghese. Dal momento che presuppone stima e rispetto, quando si fa cultura in una società trasforma profondamente lo stile di vita, i rapporti sociali, il modo di dibattere e di confrontare le idee. Facilita la ricerca di consensi e apre strade là dove l'esasperazione distrugge tutti i ponti”.
È significativo giocare ai sinonimi e contrari, perché in fondo alla gentilezza e alle parole in opposizione ognuno forse dà delle diverse sfumature che ampliano lo spettro. Cominciamo dai sinonimi: affabilità, affettuosità, amabilità, carineria, civiltà, cordialità, cortesia, educazione, fair play, garbo, urbanità. Si contrappongono: cafoneria, inciviltà, inurbanità, maleducazione, scortesia, scostumatezza, sgarbataggine, sgarbatezza, villania”.
Sarebbe interessante discutere a fondo sullo scenario che abbiamo di fronte a noi. Credo che ci siano molte ragioni a questo proposito per manifestare un certo pessimismo, che per altro resta un sentimento che non mi appartiene.
Tuttavia la vita quotidiana ci insegna come in effetti esista un’incapacità di avere in certi momenti quell’insieme di sentimenti che fanno da corona alla gentilezza.
Lo si vede, in modo plastico e fattuale, nei dialoghi sui Social, dove il gradiente della violenza si manifesta come una scelta di imbrattare le comunicazioni. Ci sono professionisti del genere per attitudine personale e ci sono i troll, termine che una volta riguardavano solo, protagonisti nelle leggende scandinave, gli abitanti demoniaci di boschi, montagne, luoghi solitari, transitati oggi, nel gergo di Internet, nella definizione di una categoria di utenti di una comunità virtuale, solitamente anonimi, che intralciano il normale svolgimento di una discussione, inviando messaggi provocatori, irritanti o fuori tema.
Questi ultimi - lo vediamo nella vicenda ucraina - sono organizzati con disegni veri e propri di disinformazione e vanno loro dietro pletore di stupidi e di maleducati a peggiorare la situazione.
Sarà forse severo ma realistico Giovanni Soriano, quando scrive: “I social network non istupidiscono la gente, ma consentono di evidenziarne la stupidità con un’efficacia mai raggiunta dagli altri mezzi di comunicazione. Ciò mi pare ormai assodato. Anzi, uno dei più grandi pregi dei social network è proprio quello di consentire all’osservatore distaccato di esaminare senza neppure sporcarsi le mani − tutt’al più turandosi il naso − le formichine umane quando sono intente a esprimere le loro “non idee”, i loro luoghi comuni, i loro sproloqui. Non bisogna tuttavia tacere anche un aspetto un po’ increscioso, per non dire deprimente, di questo enorme carrozzone virtuale, che è la patetica esposizione di sé stessi, mediante parole e immagini, da parte di milioni di morti viventi, i quali, per il fatto di poter rendere pubblica la propria nullità, si illudono di esistere”.
Gentilezza? Poca.

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