Il vallone delle stelle

Fra i pochi privilegi dell’invecchiare è che hai ricordi delle cose vissute e naturalmente delle persone. Questo consente di avere la possibilità di raccontare ad altri delle onnessioni mentali altrimenti per loro non percorribili.
Ci pensavo in queste ore mentre ero semisteso su di una poltrona con il naso in su verso lo schermo del planetario di Saint-Barthélemy, che è una frazione montana del Comune di Nus in Valle d’Aosta. Il luogo è suggestivo, perché è un vallone e non una vallata, quindi una specie di incompiuta rispetto all’orografia della mia Regione.
Steso com’ero, in occasione del ventennale dell’Osservatorio astronomico che si trova a pochi metri, vedevo scorrere i misteri del cosmo fra galassie, pianeti, stelle e buchi neri e pensavo con i piedi più a terra al genius loci del posto.
L’avevo raccontato poco prima ai presenti in uno di quei discorsetti di circostanza in cui mi sforzo, quando ci riesco, di dire qualcosa che non annoi l’uditorio. Così il primo pensiero era al fatto singolare che in quel piccolo paesino per anni - e ne ero testimone diretto nei miei esordi radiofonici in RAI - esisteva una piccola stazione meteorologica gestita da Clément Fillietroz, cui ora è intitolato la Fondazione che gestisce lassù l’attività scientifica. La Voix de la Vallée, il Gazzettino radiofonico regionale, si concludeva con i bollettini meteo elaborato lassù da questo appassionato montanaro.
Cambio scenario. Da giovane deputato vengo chiamato a Ivrea da un amico a fare da moderatore a una serata con il famoso fisico Tullio Regge. È lui, a fine serata, a chiedermi se fosse stato o realizzazione un osservatorio astronomico a Saint-Barthélemy. La risposta mia fu che non ne sapevo niente e Regge mi spiegò che quella nostra località montana era stata candidata per un osservatorio europeo, poi costruito alle Canarie e la scelta era dovuta alla posizione e alla mancanza di inquinamento luminoso. L’indomani chiedo spiegazioni al mio segretario particolare di allora, David Mortara, consigliere comunale di Nus e scopro che pure lui ignorava della candidatura. Partiamo entrambi in tromba e poniamo il seme che poi ha sortito l’esito finale di un luogo utile per il turismo e anche per la ricerca scientifica.
Ma ci sono altre sue connessioni. La prima significativa per chi, come me, si dagli esordi si è occupato dei progetti Interreg e cioè quel programma europeo che si occupa dall’inizio degli anni Novanta della cooperazione transfrontaliera. E essenziale per i primi passi del progetto di cui parlo un accordo con la Savoia grazie ad un amico, il politico di lungo corso Michel Bouvard. Un inizio che ha poi portato ad avere soldi europei per Saint-Barthélemy.
Il secondo filone è stato il ruolo essenziale della guida allo sviluppo del sito di un valdostano d’adozione, Enzo Bertolini, nato a Verona il 4 maggio 1932, si era laureato in Ingegneria industriale elettrotecnica a Padova nel 1958, specializzandosi in Fisica nucleare applicata, per poi lavorare, studiare e insegnare, girando il mondo: dall'Europa (al Cern di Ginevra) agli Stati Uniti (professore all’University of California), passando per la Corea del Sud. Fu lui a scegliere fecondi percorsi di ricerca scientifica, presi in mano successivamente dal vulcanico Jean Marc Christille, che ha dato ulteriore impulso ad un’eccellenza valdostana che attira ricercatori per nuove scoperte e anche turisti interessati dalla scienza e dal cielo stellato.
Tanti ricordi e tanti momenti di vita vissuta.

La Storia per guardare avanti

Un lungo dibattito nel Consiglio regionale della Valle d’Aosta su di un tema politico fa sempre bene. Avviene abbastanza di rado, perché ormai i lavori sono spesso troppo concentrati su domande e risposte attraverso interrogazioni e interpellanze che simulano fra maggioranza e opposizione una specie di lotta a due, tipo wrestling, lo sport-spettacolo nel quale si combina l'esibizione atletica con quella teatrale.
Per cui una leggina sull’Ottantesimo dell’Autonomia ha invece sviluppato una mattina di tenzone verbale. L’anniversario è legato a quel periodo fra guerra e dopoguerra in cui si sono sviluppate una serie di vicende ormai storicizzare, ma ancora da indagare che hanno portato all’attuale ordinamento autonomo della Valle d’Aosta. Gli anniversari di questo tipo servono per ricordare e celebrare il passato e fanno parte del dovere della memoria, troppo spesso corta nei popoli come nelle persone.
Nel caso in esame non bisogna solo pensare agli aspetti positivi che portarono all’attuale Regione autonoma, ma al male e al dolore da cui sortì questa stagione autonomistica che stiamo ancora vivendo.
“Quelli che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo”.
Questa frase si trova incisa in trenta lingue su un monumento nel campo di sterminio di Dachau. Uno dei luoghi utili per evocare in un batter d’occhio uno dei tanti orrori del Novecento.
Anche io, in quindici minuti di intervento, che ormai sono tempo giusto di fronte a qualunque uditorio per la drastica riduzione dei tempi di attenzione, ho espresso i miei pensieri, di cui - senza ripetere il medesimo discorso - vorrei rievocare qui il senso. Nella convinzione della bontà della scelta di chi come me ha scelto la pericolosa esperienza di andare a braccio nell’oralità, sapendo però che lo scritto ha un suo valore complementare. Scrivere ha una sua intrinseca lentezza che permette di meglio congelare i propri pensieri.
Vorrei anzitutto sostenere la bontà della Storia e del suo studio e considero. per chi crede dell’identità valdostana, un dovere conoscerne elementi di base per capire chi siamo oggi e chi eravamo, come comunità, in quei travagliati anni Quaranta del secolo scorso. Per capire perché si affermò anche da noi il Fascismo e come mai un piccolo gruppo di persone non si piegò al regime e consentì quella successiva Resistenza con una marca originale rispetto agli altri territori. Per cui alle rivendicazioni democratiche valide per tutti si aggiunse la richiesta di una libertà per i valdostani e come conseguenza di una forma di autogoverno. Quanto si ottenne al ribasso rispetto al pensiero federalista dei padri fondatori che si rifacevano al pensiero del martire valdostano, Émile Chanoux, ucciso dai fascisti nel maggio del 1944.
Altro dovere: capire le ragioni ancora più antiche di questo desidero di autonomia e l’importanza della propria cultura in un lembo di terra di confine e del ruolo del particolarismo linguistico che ne consegue. La montagna, i suoi ritmi e le sue tradizioni, sono lo scenario oggi come allora da cogliere anch’esso nella sua singolarità.
La trasmissione generazionale è in questo senso essenziale e se le celebrazioni sono indispensabili per mantenere vivi fatti e ricordi non devono essere imbevute di retorica e di prosopopea. Bisogna scegliere modalità semplici ma efficaci con una comunicazione che crei ponti con giovani distratti da mille cose e purtroppo distanti dall’impegno politico che fu il motore del riscatto degli anni che intendiamo rievocare.
In più - e questa è la parte più difficile - per la Politica valdostana sarebbe ora di guardare con attenzione agli scenari futuri, crescendo gli elementi comuni per evitare l’addormentamento delle coscienze e per mettere a fuoco le sfide per evitare che l’autonomia speciale declini pericolosamente. Il confronto con Roma e con l’Europa è un esercizio indispensabile e non ci si deve chiudere in sé stessi e cedere alla tentazione di onorare doverosamente il passato senza adoperare l’occasione per guardare avanti.

Lanzichenecchi no, maleducati sì

Ho seguito la discussione scaturita da un articolo su La Repubblica, oggi in mano - come altri giornali - al Gruppo GEDI e cioè agli eredi Agnelli.
Si è trattato - lo dico per chi non ha seguito il caso e penso siano in pochi - di un articolo strano dai tratti letterari al limite dell’elzeviro ma con riflessioni sociali e con punte un pelo narcisistiche del protagonista.
Quanto non stupisce nell’eclettico giornalista e scrittore Alain Elkann, cittadino americano nato a New York nel 1950. Figlio di un banchiere, industriale e rabbino, marito di Margherita Agnelli e padre di John, oggi al vertice della rete societaria ex Fiat, e Lapo, personaggio da cronache mondane ben conosciuto.
Cos’ha scritto Elkan sul giornale di cui la sua stessa famiglia è editrice?
Cito l’inizio di questo racconto ambientato su di un treno: ”Non pensavo che si potesse ancora adoperare la parola “lanzichenecchi” eppure mi sbagliavo. Qualche giorno fa, dovendo andare da Roma a Foggia, sono salito su una carrozza di prima classe di un treno Italo. Il mio posto assegnato era accanto al finestrino e vicino a me sedeva un ragazzo che avrà avuto 16 o 17 anni.
T-shirt bianca con una scritta colorata, pantaloncini corti neri, scarpe da ginnastica di marca Nike, capelli biondi tagliati corti, uno zainetto verde. E l’iPhone con cuffia per ascoltare musica. Intorno a noi, nelle file dietro e in quelle davanti, sedevano altri ragazzi della stessa età, vestiti più o meno allo stesso modo: tutti con un iPhone in mano”.
A questa compagnia di giro si contrappone un compassato e direi alieno all’ambiente ed è lo stesso Elkan, che si descrive così: ”Io indossavo, malgrado il caldo, un vestito molto stazzonato di lino blu e una camicia leggera. Avevo una cartella di cuoio marrone dalla quale ho estratto i giornali: il Financial Times del weekend, New York Times e Robinson, il supplemento culturale di Repubblica. Stavo anche finendo di leggere il secondo volume della Recherche du temps perdu di Proust e in particolare il capitolo “Sodoma e Gomorra”. Ho estratto anche un quaderno su cui scrivo il diario con la mia penna stilografica”.
Facile capire quanto questo insieme che puzzava di evidente snobismo, già nei brani sommariamente citati, abbia sortito un putiferio di prese in giro, di pesante sarcasmo, di prese di distanza.
Trovo molto giusto che ci sia stata una reazione ad un articolo-narrazione sfortunato e non giustificabile nei toni e nei contenuti.
Ho letto abbastanza stranito l’articolo e molte delle cose scritte in seguito e vorrei osservare che si è gonfiato il caso al di là probabilmente del dovuto, come ormai capita nel caravanserraglio dei Social.
Dell’articolo, tuttavia, resta uno sfondo di cui bisogna riflettere ed sono la rozzezza e la maleducazione al limitare della violenza che si manifestano nella società e che Elkan in fondo affronta con una sorta di candore che stride e che ha creato per quel suo tono acido il mare di polemiche.
Dette le stesse cose in altro modo e senza puzza sotto il naso dal sapore classista forse Elkan non sarebbe stato processato e portato al patibolo. Direi che se l’è cercato e immagino che difficilmente cadrà di nuovo in una trappola che si è costruito da solo. Un autodafé su cui dovrà di certo riflettere Elkan, evitando forse di salire su di un treno…
Resta e si staglia il rischio di un degrado. Ha scritto Karl Popper: “E in che cosa consiste fondamentalmente un modo civilizzato di comportarsi? Consiste nel ridurre la violenza. È questa la funzione principale della civilizzazione ed è questo lo scopo dei nostri tentativi di migliorare il livello di civiltà delle nostre società”.
Anche su di un treno.

Il declino del giornalismo

Siamo letteralmente bombardati di informazioni dal mattino alla sera e verrebbe da dire anche di notte, se non ci fosse la sana abitudine di silenziare il telefonino.
Tutto è cambiato rispetto al passato, ma da vecchio giornalista che non ha mai perso la passione, facendo viaggiare in parallelo la politica e il giornalismo, non posso non segnalare con sconcerto la crisi dei giornali cartacei e il terribile conformismo dei telegiornali.
Ci sono giornali che leggo da una vita che mi annoiano mortalmente e leggo per dovere civico. Vedo telegiornali che lasciano basiti per la povertà di notizie scovate senza originalità: tutto sembra trito e ritrito. Mancano squilli sulla carta e in TV!
Per questo ho letto. sul singolare sito di nicchia professionereporter.eu, pensieri di un vecchio giornalista come me, Stefano Brusadelli, dalla cui ricca biografia emerge una vita spesa in quello che diceva Albert Camus e cioè ”Il giornalista è lo storico dell’istante”.
Segnalo prima di citarlo che credo che quel che scrive, come già accennato, valga per i grandi telegiornali della sera, forse con l’eccezione della 7 con il mio amico Enrico Mentana.
Scrive Brusadelli: ”Che la stampa quotidiana italiana (e non solo) sia in crisi nera è una realtà fotografata impietosamente dai numeri Ads. E una sorte ancora peggiore è quella che tocca – all’interno dei dati complessivi di diffusione – alle copie di carta. Le cause di tale declino sono state ampiamente esplorate, e non ci sono dubbi che quella primaria è l’abitudine ormai diffusa non solo tra le giovani generazioni di servirsi quasi esclusivamente di fonti elettroniche per tenersi informati”.
Proprio da qui vorrei partire per offrire un piccolo e ulteriore contributo al dibattito. Con una riflessione che è la seguente: in un mercato fatto da utenti che passano le giornate consultando ossessivamente i propri smartphone e che appena rientrati a casa sintonizzano la tv su uno dei tanti canali all news, quale attrazione possono esercitare quotidiani che per lo più ripropongono con un giorno di ritardo i fatti già noti all’utente dal giorno prima?”.
E ancora: ”Le obiezioni, ovviamente, ci sono, e sono anche ben fondate: il quotidiano di carta filtra, approfondisce, ha una funzione insostituibile nel frastuono informativo dove le fake news sono sempre in agguato. Giusto; ma a parte che tra social, blog e tv di opinioni in giro ce ne sono fin troppe, la propensione all’approfondimento, ci piaccia o no, è tra le vittime della contrazione della soglia d’attenzione che affligge il nostro tempo. Approfondire è un lusso che ormai si concedono in pochi, e sempre meno; come appunto sono sempre meno sono i lettori della carta. E quindi i quotidiani che si vendono in edicola, se non vogliono rassegnarsi all’irrilevanza, bisognerà che provino a inventarsi qualcosa”.
Concordo del tutto sulle proposte: ”Magari iniziando col ricordare che la vita di un Paese non si esaurisce nel suo dibattito politico, peraltro di qualità sempre più modesta, nell’andamento della sua economia, nelle cronache nere o giudiziarie, e tantomeno nelle vicende delle sue “celebrities”. Ciò che è davvero nuovo, ciò che anticipa il futuro, quello che ti fa dire “oh, questo sì che è interessante“, ossia ciò per cui vale la pena pagare al giornalaio il prezzo della copia, esiste ancora, ma se ne sta un po’ nascosto, come tutte le cose preziose. Bisogna cercarlo nella nostra vasta ed effervescente provincia, nelle periferie, nelle università, nelle parrocchie, nelle piccole case editrici, nei centri studi, forse persino nei bar. Sono quelle le miniere di storie, di personaggi, di futuro. Certo, lavorare lì dentro è più incerto e faticoso che ricucinare con spezie e salse varie le breaking news del giorno prima, o monitorare i social alla ricerca dell’ultima dichiarazione sulla quale costruire una polemica, o telefonare ad un ufficio stampa, o spulciare carte giudiziarie e poliziesche, o fare un’intervista. E so quanto sia difficile scardinare abitudini professionali, rigidità contrattuali, spartizioni feudali della foliazione. Tanto più in un momento in cui in molte redazioni il morale è basso e le retribuzioni per i nuovi arrivati sono scandalosamente inadeguate”.
Già la precarizzazione e lo svilimento della professione giornalistica su stagliano come una triste realtà e la reazione proposta da Brusadelli è saggezza: ”Ma ad ogni crisi occorre rispondere con il cambiamento. E sommessamente credo che l’unico cambiamento oggi possibile dinanzi all’agonia della carta stampata sia aumentare fortemente il tasso di originalità dei quotidiani. E quindi, il tasso di curiosità di chi li fa. Offrendo, già dalla costruzione della prima pagina, contenuti che non siano (soprattutto) la “messa in bella copia“ di eventi già noti. Una prima pagina originale, che sorprenda davvero, e senza dover ricorrere al banale additivo del gossip da tv e da social (basta!)”.
Questo vale - lo ripeto - anche come contrasto alla sciatteria dell’informazione televisiva.
Certo bisogna riformare la professione giornalistica. Che sparisca la figura del pubblicista e si concentri tutto sul giornalista professionista per piantarla con certe ambiguità e si rifletta sull’Ordine, dando ad esso un reale ruolo.

L’addio all’uccellino blu

Confesso la mia tragica pigrizia sul tema. Da tempo dovrei chiudere il mio vecchio Sito, palesemente vintage, ma esiste una affezione evidente e nostalgica e quindi - pur arrivato alla direttrice finale per una cambio - ho poi lasciato lì. Giuro che dopo l’estate lo farò.
Scrivo da anni ogni giorno dei miei pensieri: un vero cimento, che faccio come se fosse una ginnastica mentale e mi fa piacere di avere qualche apprezzamento. In più ogni giorno, a beneficio dei miei contatti telefonici, pubblico su Whatsapp temporaneo una fotografia o un GIF a carattere prettamente scherzoso o, se il caso, molto serio.
L’articolo quotidiano viene rimbalzato, con una breve cappello, da qualche giorno anche su LinkedIn e da anni questo avviene - con altri post vari - su Twitter, Social che mi è sempre piaciuto per la sua freschezza e anche per la grande rapidità nel dare notizie fresche.
Ora non so bene che fine farà questo mio Social, scosso in certe sue fondamenta dopo l’acquisto del geniale ma bizzarro miliardario Elon Musk, il cui intento futuro risulta poco chiaro. Da una parte ha di fatto limitato l’uso del Social per chi non paghi la spunta blu (io l’ho fatto) e poi ha scelto di far fuori il logo classico con l’uccellino blu a favore di un’inquietante X (io per adesso ho ancora il volatile…).
Leggo su Le Monde, a firma di Damien Leloup, una serie di pensieri sul tema che mi vedono concorde.
Ecco il primo: “Quand Elon Musk rachète Twitter, en octobre 2022, le multimilliardaire affirme qu’il va non seulement redresser la barre économiquement, mais qu’il entend aussi en faire de nouveau un grand réseau social, sur lequel règne la liberté d’expression, avec des choses amusantes et des personnes intéressantes.
Neuf mois plus tard, le résultat est tout autre : malgré des plans d’économie draconiens et une transition à marche forcée vers un modèle payant, dans lequel les utilisateurs gratuits n’ont accès qu’à un service dégradé, l’entreprise reste au bord du dépôt de bilan. Le réseau social semble pris dans un chaos permanent, au gré des annonces de nouvelles fonctionnalités, de changements de règles et de problèmes techniques. Au point que l’influence de la plate-forme semble aujourd’hui menacée par le lancement, le 5 juillet, de Threads, un clone développé par Meta, qui a accumulé plus de 100 millions d’inscriptions en quelques jours”.
Threads in Europa non c’è ancora. Il motivo è legato alla normativa sulla privacy che in Unione Europea è molto più stringente che negli Stati Uniti e quindi almeno per ora i cittadini dell’Unione devono rinunciare all’accesso.
Quel che diverte è che si tratti di una creatura di Mark Zuckerberg, avversario così feroce di Musk, che si ipotizza persino che i due si ritrovino a picchiarsi con una sfida all’O.K. Corral e questo potrebbe avvenire - si dice - dentro il Colosseo. Mancano solo i leoni…
Quel che è certo è che Twitter è stato come la Rosa dei venti e cioè si sono incrociati post di diversissima origine in una Agorà che aveva un suo interesse, pur con tutti i limiti dei Social e la criticità principale sta negli algoritmi che tendono a farti incontrare solo chi la pensa come te.
Osserva Leloup: “Twitter n’est techniquement pas une « bulle de filtre », puisque tout y est ouvert ; mais, en pratique, l’utilisateur s’y retrouve facilement enfermé dans une bulle, surtout depuis que le réseau social affiche automatiquement par défaut des messages et comptes « recommandés », fondés sur les centres d’intérêt supposés de ses utilisateurs”.
Ma quel che colpisce sono le continue capriole: “En réalité, en quelques mois à peine, M. Musk a fait la démonstration que sa conception de la liberté d’expression était tout sauf absolue, changeant en permanence les règles, cédant aux demandes de censure de gouvernements, et « l’horizontalité » promise est devenue une agora censitaire, dans laquelle les utilisateurs qui ne souscrivent pas un abonnement payant Twitter Blue sont moins visibles que les autres. Une double trahison des principes fondateurs de l’application”.
Insomma: chissà che fine farà Twitter e chissà che non finisca per essere, per chi ne è stato utilizzatore, solo e mestamente un ricordo piacevole del tempo che fu.

Accelerare con le Rinnovabili

Il recente Forum sulle di Saint-Vincent sulle energie rinnovabili, voluto da CVA e ovviamente ben accolto dalla nostra Regione, è stato l'occasione per presentare il Position Paper ACCELERARE IL DISPIEGAMENTO DELLE RINNOVABILI COME LEVA STRATEGICA DI SVILUPPO PER IL PAESE , redatto da Ambrosetti in collaborazione con CVA ed Elettricità Futura, nel quale è stata presentata qualche riflessione scientifica sull’argomento.
Segnalo qualche passaggio, che ritengo utile: “La decarbonizzazione è sempre più al centro delle policy europee. Già alla fine del 2022, gli Stati Membri si sono promessi di adottare il programma “Fit for 55”, che pone obiettivi ambiziosi circa l'uso di energie rinnovabili per l'efficienza energetica. Inoltre, a febbraio 2023, è avvenuta la presentazione del Green Deal Industrial Plan, che si propone di sostenere l'industria europea nel favorire una transizione a emissioni zero e accelerare la decarbonizzazione.
Anche a livello italiano si stanno introducendo azioni al fine di rimanere in linea con gli obbiettivi europei. La prima versione dell’aggiornamento del PNIEC (Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima) ha fissato per il 2030 nuovi obbiettivi al rialzo, soprattutto sul fronte delle rinnovabili elettriche. Inoltre, Elettricità Futura, con la pubblicazione del “Piano 2030 del Settore Elettrico: importante opportunità per l’Italia”, ha convertito gli obiettivi posti in essere del REPowerEu per l’Italia circa la quota di fonti di energia rinnovabile sui consumi finali lordi e la quota di consumi di energia elettrica coperti da fonti FER, rispettivamente pari al 84% e 75%”
Se si scava ci sono criticità: “La capacità installata di FER3 in Italia è aumentata di 10,5 punti percentuali nell’ultimo decennio, arrivando a coprire quasi il 50% della capacità installata totale. Ad un aumento della capacità installata non corrisponde tuttavia un aumento della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, che negli ultimi 10 anni dipende ancora, in media, per il 67,1% da fonte fossile, e per il 32,9% da FER (vs. una media europea del 28,3% nello stesso periodo)”.
Ci sono poi confronti implacabili: “Facendo ora una un confronto della corrente situazione italiana rispetto ai benchmark europei considerati, quali Francia, Germania e Spagna, ne emerge come l’Italia proceda più lentamente sia in termini di nuova capacità eolica che fotovoltaica. Andando a considerare più nel dettaglio la fonte solare, l’Italia riporta una crescita di GW installati tra il 2015 e il 2022 pari a circa il 33%. Nello stesso periodo, la Spagna ha registrato una crescita del 287%. Discorso simile per la capacità installata eolica, che tra il 2015 e il 2022 è cresciuta del 29% in Italia, un ritmo decisamente inferiore a quello francese, che ne riporta una crescita del 105%”.
In più in Italia certi nuovi impianti nelle Rinnovabili sono spesso di piccola taglia, che fanno numero ma non incrementano la produzione in modo reale.
Sull’idroelettrico, che ci interessa: “Guardando alla produzione di oggi, nel 2022 la produzione idroelettrica italiana è stata di 28 TWh, circa la metà della media storica (48,4 TWh) dato preoccupante e dettato dalla crisi siccitosa. Tra il 2021 e il 2022, i GW/h prodotti sono passati da 45.388 nel 2021 a 28.402 nel 2022 (-37%). Va infatti sottolineato come, a fronte di una capacità installata che nel decennio passato si aggirava intorno al 4,3%, gli ultimi 3 anni hanno registrato una diminuzione della produzione di energia elettrica da fonti idroelettriche pari al 40,2%. Nonostante la forte contrazione, l’idroelettrico rimane una delle principali FER in Italia, insieme al fotovoltaico coprono il 56,8% della produzione di energia elettrica da fonti FER (28,6% fotovoltaico e 28% eolico)”.
Rispetto a CVA e alla scelta di restare leader delle rinnovabili si evince dallo studio qualche pista utile. Da una parte l’dea di avere un piano serio di revamping delle vecchie centrali resta fondamentale, seguendo possibilità tecnologiche come il pompaggio per il riutilizzo delle acque, l’uso di batterie per accumulo come possibilità, ma soprattutto la grande chance dell’idrogeno verde. E’ bene seguire in Valle altri tre filoni: il risparmio energetico sugli immobili attraverso l’efficientamento, lo sviluppo di iniziative valide nel campo delle comunità energetiche e la modernizzazione delle reti di trasporto dell’energia.
CVA, con investimenti esterni, dovrà controbilanciare il possibile calo della produzione idroelettrica per via del cambiamento climatico. Per questo bisogna immaginare nuovi investimenti fuori Valle, come già previsto, nel fotovoltaico, nell’agrivoltaico e nell’eolico per avere un portafoglio vario nel settore delle rinnovabili.
Ma per l’idroelettrico la garanzia per investimenti forti resta legata all’azzardo possibile delle gare per le concessioni, che avrebbe come conseguenza un impoverimento della sovranità energetica italiana, se finisse nelle mani sbagliate. Dice bene il documento: “Riassegnare le concessioni idroelettriche definendo un sistema equo di rinnovo, per sbloccare fin da subito gli investimenti e garantire la tutela degli impianti idroelettrici, asset strategici per la sicurezza, l'autonomia e la decarbonizzazione del sistema energetico”.
Aggiungerei anche il ruolo di gestione intelligente dell’acqua in periodo di carenza idrica a beneficio dei plurimi utilizzi in zona montana, ricordando come in caso di black out elettrico in Italia si riparte grazie alla potenzialità delle nostre dighe.
E per le altre fonti decisiva è una semplificazione delle procedure, altrimenti gli investimenti – tutti garantiti dal privato – non decolleranno a vantaggio di chi, in Europa, ha creato quadri normativi più flessibili. Ci sono altre criticità: un ambientalismo che non capisce le potenzialità, ad esempio dell’eolico offshore e cioè sul mare a distanza dalla costa su apposite piattaforme, un’industria europea che non investe in tecnologie oggi in mano cinese come i pannelli solari, normative inadatte come il recente decreto sulle “aree idonee” per le Rinnovabili.
Un quadro complesso da capire per fare le scelte giuste.

Ora e sempre i libri

Ogni tanto nel paese dove abito incontro un signore anziano che conosceva mio papà e frequentava casa mia quand’ero bambino. E ogni volta mi dice: “Di te ricordo che avevi sempre un libro in mano”.
Sono stato fortunato in questo per almeno tre ragioni. La prima è che a casa mia c’erano e nella casa di famiglia ci sono ancora un sacco di libri, in parte persino antichi, appartenuti a nonno e bisnonno e in parte acquisti fatti da mio papà. E - seconda fortuna - spinto sempre da mio padre - sono sempre stato incoraggiato a comprare dei libri senza limitazioni di sorta, perché considerati soldi ben spesi su cui non lesinare. La terza fortuna è che da ragazzino c’era la biblioteca di Verrès ben fornita è più avanti quella del Liceo classico di Ivrea. Poi, raggiunta una mia indipendenza economica, andar per libri, curiosando nelle librerie, mi è sempre piaciuto. Ricordo la bella libreria davanti a Montecitorio, quand’ero deputato.
Oggi, in effetti, leggo meno per colpa di queste diavolerie digitali che tendono a ipnotizzarti. Non che non si legga, naturalmente, ma è un soltabeccare che certo è arricchente, ma viene rubato un sacco di spazio e ne risente anche il rapporto con i libri.
Il vantaggio di certe tecnologie, a detrimento dei librai resistenti che ammiro, è che riesci sul Kindle a cercare i libri più vari e ad ottenerli in un batter di ciglia. Naturalmente non abbandono le librerie e ho una certa predilezione per quelle degli aeroporti e ce ne sono di bellissime e ben rifornite.
Mi ha molto divertito seguire il caso dell’attuale grottesco ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, che al premio Strega - abilmente intervistato da Geppi Cucciari - ha candidamente ammesso di non avere letto, limitandosi a sfogliarli i libri votati. Ho visto il filmato di questo passaggio e Sangiuliano si è costruito la fossa da solo, seguendo in diretta tv il filo di una sua vanità (terribile avversario per chi fa politica) con evidente prosopopea sino alla gaffe che lo ha inchiodato.
Giorni fa sull’incidente è tornato, dall’alto della sua cultura mostruosa e di una capacità rara di trasmetterla, Corrado Augias su la Repubblica.
Colpisce nelle sue riflessioni l’uso di una frase che va riletta più volte per capirne bene il significato. È di Marcel Proust: “Non esistono forse giorni della nostra infanzia che abbiamo vissuto intensamente quanto quelli che crediamo di aver perduto senza viverli, i giorni trascorsi in compagnia di un libro molto caro”.
Più avanti cita, invece, Franz Kafka: “Se il libro che stiamo leggendo non ci colpisce come un soffio di vento nel cranio, perché annoiarsi leggendolo? … Un libro dev’essere l’ascia che spezza il mare ghiacciato dentro di noi”.
Viatico per una scelta che mi appartiene: se il libro non mi “prende” merita l’abbandono, che lo rende tristemente un oggetto inanimato.
Nel tempo - anche per questa sorta di triage fra buoni e cattivi nella scelta ovviamente soggettiva - sono stato agevolato da una tecnica di lettura che ho imparato da solo e senza alcun merito personale. È una lettura veloce di visione dell’intera pagina, che consente anche maggior rapidità non solo per i libri, ma anche per i documenti di lavoro. Ricordo con divertimento lo scetticismo dei miei due figli più grandi che, scettici su questa mia rapidità senza meriti, mi interrogavano sui passaggi dei libri ed era in fondo una possibilità indotta per spingerli alla lettura.

Defunti digitali

Il culto dei morti, in qualunque posto del mondo si finisca, ha avuto un ruolo capitale per tutte le civiltà umane. Così visitiamo templi e piramidi, chiese e cimiteri e ogni altra testimonianza che lega noi vivi con chi non c’è più.
Noto una crescente dematerializzazione o smaterializzazione che contraddice la tradizione con chi non solo inizia a scegliere di essere cremato, ma chiede poi che le sue ceneri vengano sparse chissà dove, rinunciando anche ad una tomba su cui comparire.
Leggevo in queste ore un articolo del sociologo Gérald Bonner, scritto per L’Express, che ci apre ad un nuovo approccio. Tutto si digitalizza e perché non il rapporto con i defunti?
Cita all’inizio una sua disavventura: aver fatto gli auguri su Facebook a un suo follower per essere poi avvertito che era morto e prosegue sul tema: “Une étude réalisée par Carl Ohman et David Watson de l’université d’Oxford, Facebook comptera plus de profils de personnes décédées que d’utilisateurs vivants à l’horizon de 2070. Sans qu’on s’en aperçoive, les nouvelles technologies inaugurent un rapport inédit entre le monde des morts et des vivants. Dans toutes les cultures, on trouve des rituels, généralement annuels, pour honorer les défunts. Chez les chrétiens, la Toussaint est le moment idoine pour rendre hommage à ceux qui ont disparu. Par les fleurs que nous leur offrons et les paroles que nous leur chuchotons, nous les faisons revivre un peu”.
Già ma ora irrompono le tecnologie, facendo - mi si consenta - il verso a chi in passato e temo anche nel presente finisce vittima dei ciarlatani che con sedute spiritiche evocano chi finisce nell’Aldilà.
Osserva l’autore: “Le monde contemporain et ses excroissances technologiques nous offrent de multiples façons de faire revenir les morts. En février 2022, un couple d’Indiens a décidé de se marier dans le métavers. Parmi les 2 500 invités qui ont festoyé dans le décor du Poudlard de Harry Potter, il y avait le père de la mariée. Rien d’étonnant, à ceci près que l’individu était décédé l’année d’avant. Le marié a voulu honorer sa femme en ressuscitant son père sous la forme d’un avatar. Cette situation n’est qu’une de celles qui vont nous conduire à explorer une nouvelle forme de coexistence entre les vivants et ceux qui nous ont quittés.
Ainsi, plusieurs applications d’intelligence artificielle permettent de recréer de façon quasi indiscernable la voix de personnes disparues. On a pu entendre Steve Jobs, décédé en 2011, déclarer que la pandémie de Covid-19 avait été l’événement le plus considérable de l’année 2020. Plusieurs entreprises se sont lancées dans ce « spiritisme » technologique qui va permettre de parler avec les morts. Les sociétés Forever Voices ou Somnium Space offrent déjà de recevoir des messages vocaux de proches disparus, à condition que l’on ait conservé des enregistrements de ceux-ci”.
Roba da infarto, se non avvertiti.
Ma altro ci attende: “L’étape suivante est presque là : non seulement les entendre, mais encore les voir. (…) Il ne restera plus qu’une étape à franchir, donner un corps à cet avatar, pour que le trouble soit total”.
Altro che la piccola fotografia, spesso inquietante, sulla tomba o la vecchia scritta con data di nascita e di morte. Altro che il potere evocatore dei morti delle belle poesie di Lee Masters.
Ancora un’osservazione si Bonner: “Si cette opportunité technologique se développe, les questions attenantes seront immenses, comme la possibilité même de faire son deuil. Elle conduira les sociétés humaines à redéfinir le rapport entre le monde des morts et celui des vivants. Il existe, partout dans le monde, des processions annuelles où l’on mime le retour des défunts parmi nous. Que ce soit par la fête d’Halloween ou par les traditions multiples du carnaval, les disparus reviennent le temps d’un instant visiter le monde de la vie. Certains anthropologues y voient des rituels essentiels à la revitalisation du lien social et du monde en général, notamment parce qu’ils s’organisent fréquemment autour des solstices. Quelque interprétation qu’on leur donne, ils sont traditionnellement contingentés par les calendriers ancestraux, qui ont la sagesse d’appeler à un temps limité du souvenir. La technologie nous fait prendre le risque de désorganiser le marché des rituels car elle fait une offre nouvelle qui perturbera la régulation du calendrier traditionnel. Sommes-nous à l’aube d’un temps social qui sera celui d’un carnaval permanent?”.
Giusto interrogativo.

L’addio ai 7 nani

L’Ansa l’ha spiegata così e alla lettura non sapevo se ridere o piangere: “Biancaneve ispanica, senza principe e senza nani. Il nuovo film della Disney firmato dalla sceneggiatrice e regista del momento, Greta Gerwig, uscirà solo nel 2024 ma ha già scatenato un acceso dibattito tra chi lo accusa di aver snaturato la fiaba del 1937 in nome del "politically correct" e chi lo saluta come la necessaria attualizzazione di una storia datata. A creare il clamore e scatenare i social media è stata una foto pubblicata dal tabloid britannico Daily Mail delle riprese del film in Bedfordshire, Inghilterra. Nell'immagine si vede Biancaneve con il suo caratteristico mantello rosso sopra l'abito giallo e blu seguita da un gruppo di creature magiche d'ogni genere, dimensioni ed etnia. "GoWoke or GoBroke", ha scritto un utente di Twitter accusando l'industria cinematografica negli Stati Uniti di essere "succube" della cosiddetta "cultura woke", ovvero anti-razzista, pur di vendere i propri prodotti”.
Non è la prima volta in cui il politicamente corretto e il cancel culture si mischiano alla “cultura woke”. Woke, letteralmente "sveglio", è un aggettivo della lingua inglese con il quale ci si riferisce allo "stare all'erta", "stare svegli" nei confronti delle ingiustizie sociali o razziali. Tutto bene quando non si cade nel ridicolo, come con questa rivisitazione, che può essere usata - tanto per fare un esempio - per tutto l’insieme di favole e fiabe. Ricordo come la favola sia di regola scritta da un autore, ha per protagonisti animali e alla fine contiene una morale con la quale si vuole insegnare un comportamento o condannare un vizio umano. La fiaba invece ha origini popolari antichissime, risale addirittura alla preistoria, e non ha una morale.
Mi ha molto divertito il sarcasmo da equilibrista sul tema dell’ottimo Gianluca Nicoletti su La Stampa: “Davvero non mi spiego il piagnucolare diffuso delle vedove del Principe Azzurro di Biancaneve. Ancora meno riesco a capacitarmi per l’horror vacui che ha provocato la scomparsa dalla vita di quella fanciulla di sette coattoni, buzzurri, violenti, misogini e soprattutto avidi trafficanti di diamanti.
Davvero esistono ancora donne capaci di rimpiangere quel giovane farlocco figlio di papà, che si sente un fico andando in giro con una mantellina ridicola che appena gli copre il sedere, con uno spadino di misura imbarazzante, con un taglio di capelli da locandina di antico barbiere di paese?
Iniziamo a vederci chiaro sulle figure ambigue dei Sette Nani, ne dedurremo quanto non sia possibile per persone civilizzate lamentare la messa al bando di quella cosca di malavitosi”.
E aggiunge più avanti in modo graffiante: “È fuori di dubbio che il periodo che Biancaneve passa a casa dei nani sia assimilabile a un regime di schiavitù: la obbligano alle mansioni più umili senza ombra di compenso, lei è costretta a lavare i loro pedalini zozzi, le loro mutande incrostate, pulire casa, cucinare. Oltre che provvedere di persona alla loro animalesca igiene intima. Tutto senza nemmeno applicarle il contratto nazionale per le colf e badanti che prevede equo salario, riposo settimanale, ferie e Tfr?
Lo sfruttamento da parte dei nani papponi della sventurata Biancaneve non si ferma neppure con la sua morte. Continuano ad abusare di lei persino quando la ragazza fatalmente collassa, nell’apoteosi della disperazione, pone fine alle sue sofferenze dopo essersi incautamente affidata a una vecchia pusher, con l’illusione di poter evadere dalla sua angoscia ricorrendo a sostanze psicotrope”.
Ovviamente si riferisce alla terribile mela e poi Nicoletti sfotte lo stucchevole lieto fine. Per altro avevo letto che i censori del politicamente corretto avevano stigmatizzato il famoso bacio del Principe Azzurro, perché dato - senza il suo consenso - ad una Biancaneve dormiente!
Su Twitter tale “Estrema riluttanza” ha raccontato una storia che apre uno squarcio ancora diverso: “Fu proprio "#Biancaneve" a impedire la cessione dei diritti degli scritti di #Tolkien a #Disney.
"Biancaneve e i sette nani" uscì 3 mesi dopo "Lo Hobbit" e Tolkien andò a vederlo con l'amico C.S.Lewis, il padre del ciclo di Narnia.
Tolkien ne fu disgustato. I nani della "Ne riconosco il talento, ma mi è sempre sembrato irrimediabilmente corrotto. Sebbene nella maggior parte delle creazioni dei suoi studi ci siano passaggi ammirevoli o affascinanti, il loro effetto su di me è di disgusto."
L'anno dopo scrisse una lettera esplicita ai suoi editori "finché sarà possibile… porremo il veto a qualsiasi cosa che abbia a che fare con gli studi Disney (per i cui lavori ho un sincero disgusto)."
Fu la pietra tombale sui tentativi Disney di acquisire i diritti sugli scritti di Tolkien”.
Aggiungo solo che ovviamente in Disney l’intento sui nani (lancerà difficoltà è ricordarne i nomi di tutti e sette) era quello non di sfottere chi affetto da nanismo, ma di creare personaggi buffi che si rifacevano ad una favola famosa di origini popolari, resa mondiale nella stesura da parte dei Fratelli Grimm. Per altro - e chissà come la possono giudicare i censori del film - questa fiaba del 1812 è profondamente diversa da quella che tutti noi conosciamo. La matrigna è in realtà la madre di Biancaneve, che ha soltanto sette anni, e la vuol fare uccidere per mangiarle fegato e polmoni con sale e pepe. Il principe la conosce nella bara di vetro in un momento imprecisato dell’età della ragazza, che non viene risvegliata dal veleno della mela né da un bacio dell’uomo, ma dagli strattonamenti dei servi, stanchi di vedere il principe iracondo a causa dell’amore necrofilo per il cadavere della ragazza.
Roba più horror delle simpatiche canzoncine dei sette nani e di Biancaneve.

Questione di pelo

Ci sono molti modi di dire sul pelo. Ne ricordo alcuni: avere il pelo sullo stomaco, cercare il pelo nell'uovo, di primo pelo, essere a un pelo da qualcosa, fare il pelo e il contropelo, lasciarci il pelo, lisciare il pelo, non avere peli sulla lingua.
Mi fermo qui e vengo al punto e cioè a qualche passaggio di un articolo su Le Monde dedicato - scusate la semplificazione - alla depilazione, la cui trattazione è molto seria.
Così inizia Claire Legros, rifacendosi all’attualità: ”Ce fut l’un des enseignements inattendus des confinements imposés par la pandémie de Covid-19. Pendant quelques mois, un vent de liberté a soufflé sur les duvets et les toisons. Nombreuses sont celles, notamment parmi les plus jeunes, qui ont délaissé rasoir et épilateur. Selon l’institut de sondage IFOP, plus d’un tiers des femmes de moins de 25 ans déclaraient en 2021 s’épiler « moins souvent qu’avant le premier confinement ». Avec soulagement, si l’on en croit les réactions recueillies par le collectif Liberté, pilosité, sororité créé en 2018 pour dénoncer la «norme du glabre» : «une sacrée liberté!»  ; «un gain de temps et d’argent!» ; « la fin des douleurs » ; «une réappropriation de mon corps », témoignent celles qui ont franchi le pas”.
Già ma più avanti entra nel merito: ”Le poil féminin dérange, il insupporte, il hérisse. Si le sujet déchaîne les passions, c’est qu’arborer sa pilosité est perçu, chez la femme, comme une transgression qui « heurte les traditions, mais aussi les normes contemporaines », rappelle l’historienne Christine Bard, professeure d’histoire contemporaine, dans son livre Féminisme. 150 ans d’idées reçues (Le Cavalier bleu, 2020). Affiché comme un acte militant, le geste en dit long sur l’époque. Car le poil n’est pas qu’une affaire de mode ou d’esthétique, il est aussi « un révélateur subtil de l’état d’une société, de l’idée qu’elle se fait d’elle-même et des traumatismes qu’elle a subis », explique l’historienne Marie-France Auzépy, qui a codirigé une magistrale Histoire du poil (Belin, 2011, réédité en 2017)”.
La Storia, in un altro passaggio, aiuta e così annota la Legros: ”En grec ancien, le mot thrix désigne autant le poil que le cheveu, puisqu’ils ont la même origine biologique. La plupart des langues, d’ailleurs, ne les distinguent pas comme le fait le français. Qu’on le raille sur les jambes des filles ou qu’on l’exhibe sur les mentons des garçons, qu’on le rase sur le crâne des moines ou qu’on le voile sur la tête des femmes, il participe à la construction des apparences, « ce labeur exténuant accompli sur les corps pour les faire ressembler aux mots et aux images qui prétendent les façonner », selon les mots de l’historien Alain Corbin”.
Ma non tutti hanno la medesima pelosità: “La pilosité n’est pas uniformément partagée sur la planète. « On l’oublie souvent, mais il existe une géographie du poil, rappelle Christian Bromberger. A de rares exceptions près, seules les populations européennes et du pourtour méditerranéen, ainsi que celles du Moyen-Orient, développent une pilosité naturellement abondante. » En dehors de cette « ceinture velue » − la formule est du romancier américain Jeffrey Eugenides dans Middlesex (2002) − qui s’étend à peu près du Portugal et du Maroc à l’Afghanistan, une majorité des populations de la planète sont naturellement glabres”.
E prosegue l’autrice: “Il n’existe, jusqu’à la seconde moitié du XXe siècle, que de très rares témoignages directs sur l’épilation féminine. Dans la Grèce antique, les sculptures des déesses affichent un corps imberbe, y compris le pubis, et de nombreuses traces témoignent de pratiques dépilatoires féminines. Plusieurs coupes peintes, dont la plus ancienne date du Ve siècle avant notre ère, montrent une servante à genoux en train d’épiler le corps nu de sa maîtresse. Le poète grec Aristophane évoque différentes techniques dont l’usage d’une lampe à huile pour brûler les poils pubiens des femmes”.
E ancora: “Au cours des siècles, les religions vont renforcer les injonctions pilaires. La peau glabre est un symbole de pureté dans les cultures hébraïque, chrétienne, islamique et les religions extrême-orientales. Les premières représentations d’Eve la dévoilent imberbe alors même qu’elle est censée évoluer dans sa naturalité originelle, tandis qu’Adam est souvent montré barbu. Au-delà de l’iconographie, les divergences pilaires entre les religions sont nombreuses. Le christianisme prône le respect de la nature, œuvre de Dieu. « On ne doit pas supprimer les poils, mais les passions », écrit au IIIe siècle Clément d’Alexandrie, l’un des Pères de l’Eglise. Pour les sociétés islamiques, au contraire, l’épilation du pubis et des aisselles est la norme pour les deux sexes”.
Ma la depilazione, ricorda la Legros, si declina ormai molto al maschile: ”Cet hygiénisme qui semble vouloir échapper aux contingences du corps touche également les jeunes hommes, de plus en plus nombreux à bannir eux aussi toute trace de pilosité. La tendance témoigne sans doute de la fluidité de genre qui traverse l’époque. Elle ne doit cependant pas faire oublier que les injonctions restent beaucoup plus fortes pour les femmes. Ainsi le malaise suscité par la vue de poils reste quatre fois plus important pour des aisselles féminines (57 %) que masculines (15 %), selon un sondage de l’IFOP”.
È con le femministe negli Settanta che emerge una prima ribellione contro la depilazione, ma resta un’incompiuta, ora in movimento: “Quarante ans plus tard, c’est à la faveur du mouvement Metoo, au tournant des années 2010, que le poil féminin revient dans le débat, alors qu’« enfle le tsunami de la réappropriation par les femmes de leur corps dans ses dimensions les plus intimes », souligne la philosophe dans Le Corps des femmes. La bataille de l’intime (Philosophie Magazine Editeur, 2018). (…) Renversant l’idée d’une libération des corps dénudés sur les plages, les militantes d’aujourd’hui dénoncent l’obsession du lisse comme un mythe aliénant, un nouveau support de contrôle social qui maintient les femmes dans un état d’insécurité et de subordination, première étape d’un continuum de violences. « Les féminismes des années 2010 défendent plus que jamais des corps libérés et affirment que les poils, le gras, les rides ou encore les règles sont politiques », souligne l’historienne du féminisme Christine Bard”.
Insomma il mondo cambia, come le mode e i costumi. In fondo niente di nuovo sotto il Sole.

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