Il conto alla rovescia

Destra, Sinistra. La scelta di alleanze ha agitato per mesi la politica valdostana per trovare una maggior stabilità, dopo che l’ala più a sinistra della coalizione aveva dato una prima botta alla maggioranza, abbandonandola. Da alleati sono diventati oppositori in men che non si dica con stupefacente naturalezza.
Infine - in un percorso piuttosto zigzagante - la maggioranza è rimasta in piedi con i cambiamenti ben noti attraverso la coalizione autonomista-progressista, come da definizione giornalistica. Non tutto è stato facile e certi toni con scambi d’accuse varie non hanno certo fatto del bene al clima generale. Oltretutto in un momento nel quale ogni tanto si dovrebbe persino uscire dal perimetro maggioranza-opposizione su temi cruciali.
Purtroppo - ormai la constatazione è evidente - sono troppi i politici di tutti i colori che vivono prevalentemente guardando a qualunque questione nella logica di convenienza elettorale. Certo che i voti sono importanti, ma può capitare di dover assumere scelte impopolari e di dover dire di no a richieste che potrebbero avere un positivo impatto clientelare. Chi fa politica dovrebbe avere la capacità di non pensare solo alle elezioni future e a provvedimenti volanti non strutturali.
Il sistema elettorale per il Consiglio Valle attualmente in vigore, con un premio di maggioranza troppo elevato e la logica assassina causata dalla preferenza unica che insanguina la campagna elettorale in ciascuna lista , non garantisce la stabilità successiva di alleanze preelettorali che consentano di avere maggioranze durature sin dalla partenza delle Legislature. Anche perché- essendo vietato per logica norma costituzionale il vincolo di mandato - c’è chi se ne va altrove con facilità, disgregando le compagini per capriccio, per calcolo o per dissensi veri.
Per cui è normale scegliere quando manca una maggioranza autodafé la situazione ritenuta più confacente per governare con altri, guardando a diversi fattori come i programmi da presentare in comune, la qualità degli eletti che devono farsene carico e anche il loro posizionamento nella politica italiana e aggiungerei europea. Lo slogan “ni droite, ni gauche” è troppo rozzo e rientra in categorie troppo schematiche rispetto alla sfida di un grande partito valdostano che sia al centro della scena.
Ben sapendo che un rafforzato partito territoriale di raccolta, come potrebbe essere l’Union Valdôtaine della réunification, deve per essere incisivo essere in grado di rappresentare diverse posizioni che si cementano per la ricerca di soluzione di problemi concreti e per una corale visione della Valle d’Aosta del presente e del futuro. Così era stato nel 1945 all’atto della sua fondazione e chi si era perso negli anni successivi lo aveva fatto per la polarizzazione DC-PCI che aveva marcato il dopoguerra, causando una diaspora dalla comune area autonomista. Si sono poi aggiungi negli anni più recenti “infiltrati” che volevano solo ottenere qualcosa per i loro interessi e le loro ambizioni.
Altri, come me, lasciarono per insanabili incomprensioni e bisogna che si rispettino quelle scelte senza più tornarci sopra. Ora campeggia la necessità che un movimento di raccolta sappia mantenere un sano pluralismo con regole che garantiscano una convivenza civile e un rispetto reciproco. Senza che i leader del momento - perché questi ci vogliono - schiaccino il dibattito interno e non si impegnino in una logica di dibattito interno fruttuoso alla ricerca di soluzione mediate, quando ci siano legittime posizioni divergenti. Naturalmente ci vogliono per questo una buona volontà e la capacità di ascoltare gli altri e anche di accettare le determinazioni di una maggioranza, quando il punto di equilibrio sia stato trovato in un confronto franco e corretto.
So bene che ci vorrà impegno per riuscirci in un quadro culturale federalista, europeista, che sia ancorato ad un’anima valdostana profonda e consapevole, anche dei necessari cambiamenti.

La festa del Papà

Ci sono date più o meno festive sul calendario, cui è legittimo dare o non dare importanza a seconda delle proprie scelte. Alle cosiddette ”feste comandate”, che sono per il cattolicesimo solennità in cui vige l’obbligo di assistere alla messa e di astenersi dai lavori manuali, ormai si sommano molte occasioni. Qualcuno dirà che sono persino troppe, ma in effetti siamo liberi di scegliere le festività che preferiamo e di scansare le altre.
Oggi, per esempio, è la Festa del Papà, strettamente legata alla figura di San Giuseppe, che per l'appunto dal 1479 si ricorda ogni 19 marzo del calendario gregoriano. Si tratta dunque di qualcosa di molto datato, a differenza - lo dico senza sessismo… - della Festa della Mamma.
Ebbene, so che qualcosa si sta muovendo e mi è giunta all’orecchio di una probabile partita di calcio quest’oggi fra padri e figli, che già fa tremare i miei menischi. Aspetto con curiosità e posso sempre mettere a disposizione l’esperienza dell’età per sedere…in panchina come assai improbabile coach.
Queste feste “familiari” ogni tanto creano problemi ai cultori del politicamente corretto, la cui applicazione fattuale spesso genera mostri, perché si sa dove si comincia e non si sa dove si arriva nelle sue estremizzazioni.
Ne scriveva, giorni fa, sulla sua rubrica sul Corriere Massimo Gramellini: “La preside di una scuola elementare di Viareggio ha cancellato la Festa del Papà per non discriminare i bambini privi di papà. Il movente è nobile, l’esito rovesciato: per non far soffrire i bambini senza padre si fanno soffrire quelli che volevano trascorrere qualche ora in classe con i padri. Si obietterà che la sofferenza dei secondi non è paragonabile a quella dei primi. Però, a forza di eliminare ogni cosa che possa anche solo lontanamente far soffrire qualcuno, si finisce per far soffrire un po’ tutti, e per non lasciare in piedi più nulla. Nessuna festa, opera d’arte, memoria storica. Mi spaventa chi pretende di applicare alla vita quel principio di unanimità che ha ridotto all’immobilismo le istituzioni”.
Già certe discussioni sul bene e il male portano alla paralisi e certe cose scompaiono dalle nostre vite nel nome di un principio che non si è ben capito. L’eguaglianza non è trattare tutti nello stesso modo, ma deve trattare in modo uguale situazioni uguali ed in modo diverso situazioni ragionevolmente diverse.
Ancora Gramellini: “Il mondo è cambiato, dice la preside di Viareggio. Ma non è una buona ragione per sterilizzarlo, trasformandolo in un non-luogo privo di spigoli e sapori. La condizione umana è fin dall’infanzia una mescolanza di piaceri e sofferenze che andrebbe spiegata e accompagnata più che rimossa a colpi di divieti. Quando persi mia madre, la maestra strappò da tutti i sussidiari la pagina che parlava di mamme. Aveva agito per proteggermi, e ancora adesso la purezza delle sue intenzioni mi commuove, però la sofferenza mi aspettava comunque all’uscita da scuola, quando mi ritrovavo a essere l’unico senza una madre ad attenderlo. Un bimbo può partecipare alla Festa del Papà anche se non ha un papà: magari in compagnia di un altro adulto a cui vuole bene. Includere significa aggiungere, non abolire”.
E invece, nella logica della non discriminazione, si creano situazioni artificiali e si cancellano date e situazioni, facendo più il male che il bene. Insomma: ci si mette poco, su di una specie di bilancia del buonsenso, a passare in poco tempo dal politicamente corretto al politicamente scorretto.

Il tormentone del Ponte di Messina

Cominciamo con il dire che personalmente ritengo possibile - anche se il tema mi accompagna da quando ero in fasce - dover riflettere sul famoso Ponte di Messina. Con franchezza dubito si possa ritenerla una priorità con le molte emergenze di strade, autostrade e ferrovie che hanno bisogno di lavori profondi in un’Italia che non brilla per la qualità generale delle proprie infrastrutture nel settore dei trasporti.
Tuttavia ne colgo, perché non vivo sulla Luna, l’aspetto simbolico e propagandistico per chi - come Matteo Salvini - aspiri evidentemente a restare nella storia patria, quanto almeno per ora non mi pare sia avvenuto.
Che sia dalla costa calabrese o da quella siciliana, chiunque sia stato sul posto - e io l’ho fatto - nota che in fondo le rive divise da 3,5 Km del braccio di mare non sono gran cosa. Poi tutto può cambiare se si valutano i rischi sismici: mio nonno era sottoprefetto di Palmi nel 1908, quando il maremoto (oggi si dice tsunami) portò alla distruzione completa delle città di Messina e Reggio Calabria e di altri numerosi centri minori, causando la morte di 100 mila persone. La faglia che causò il sisma è sottomarina ed è ancora purtroppo presente.
Tecnicamente non credo che sia problematica la realizzazione.
Personalmente, ad esempio, ho percorso in treno Il ponte di Øresund, che è appunto una tratta sia stradale che ferroviaria di 15,9 km che collega sul mare le città di Copenaghen (Danimarca) e Malmö (Svezia), realizzata tramite tunnel sottomarino e ponte - congiunti in un'isola artificiale appositamente creata - che attraversano l'omonimo stretto (sund).
Il Ponte di Messina avrebbe un solo precedente, ammesso che sia vero. Strabone scrisse: “Lucio Cecilio Metello radunate a Messina un gran numero di botti vuote, le ha fatte disporre in linea sul mare legate a due a due in maniera che non potessero toccarsi o urtarsi. Sulle botti formò un passaggio di tavole coperte da terra e da altre materie e fissò parapetti di legno ai lati affinché gli elefanti non avessero a cascare in mare”.
Era il 251 a.C., in pieno periodo di guerre puniche, e il collegamento con la Calabria aveva uno scopo pratico. Per celebrare la vittoria contro il comandante cartaginese Lucio Cecilio Metello decide di portare a Roma i pachidermi superstiti, e forse, ed è importante specificare “forse”, lo fa costruendo un ponte di barche fra Sicilia e Calabria,
La storia la raccontano sia il geografo greco Strabone, vissuto dal 63 a.C. al 23 d.C., sia Plinio il Vecchio, nato nel 23 d.C. e morto nel 79 durante l’eruzione del Vesuvio. Quindi potrebbe essere un’invenzione propagandistica priva di reale fondamento.
Carlo Magno ci pensò a sua volta, così come i normanni nella persona di Roberto il Guiscardo, ma mancavano in entrambi i casi le capacità tecniche. Dopo il medioevo saranno i Borbone a pensare di unire la Calabria con la Sicilia, ma fu un nulla di fatto.
Dopo i sovrani spagnoli, si passa alla lista quasi infinita dei tentativi italiani a firma del Ministero dei Lavori Pubblici dal 1866 con spreco di tempo e soldi e progetti vari da prendere fra il serio e il faceto.
Ora si parte addirittura con un decreto legge, che deve basarsi per essere legittimo - e viene da ridere - su requisiti di necessità ed urgenza e dopo secoli ci vuole un certo coraggio per sancire queste sue caratteristiche.
Ma, dopo aver visto Beppe Grillo che attraversò a nuoto il Ponte di Messina, temo che tutto sia possibile.
Anche un altro comico - che non è per fortuna sbarcato in politica e cioè Antonio Albanese - se n’è occupato con il suo Cetto La Qualunque. Nella scena finale del film del 2011 Qualunquemente , dove accenna al ponte sullo Stretto durante un comizio tenuto nei pressi della costa calabrese, dice: “... noi costruiremo un ponte di pilu, con otto corsie di pilu e una corsia di peluche per gli amici! … Noi costruiremo un Paese nuovo, dove è possibile anche avere due mogli, anche non pagare le tasse: un Paese di pilu e cemento armato! E se il Ponte non basta, faremo anche il tunnel, perché un buco mette sempre allegria: qualunquemente”.

Una storia di Giustizia…alpina

L’Italia è indubitabilmente il Paese dei Tribunali delle diverse giurisdizioni che incombono sulle vite nostre e della nostra comunità. Giusto in democrazia, ma talvolta…
Pensiamo al Casino di Saint-Vincent e alle vicende penali che hanno nei diversi decenni stroncato carriere e vite e, in certi casi lontani e più recenti, ci sono infine state sentenze assolutorie o all’acqua di rose di Cassazione e persino chiusure tombali sulle accuse assunte della Corte Costituzionale per mettere ordine e ripristinare tardivamente la verità. Sempre per la casa da gioco c’è una causa civile pendente da 30 anni che appare e scompare senza una sentenza definitiva. Alcune vicende - penso ad una causa delle Ferrovie contro la Regione - interessano cifre enormi e chissà come finirà tra qualche anno. Per non dire di sentenze di diritto del lavoro che pesano sulle casse regionali anche quando il contratto è nazionale e Roma si comporta diversamente da come noi dobbiamo fare forzatamente.
Ne possiamo sorridere rassegnati di questa Giustizia spesso a lungo termine, se la questione interessa gli altri e non noi, la nostra esistenza e i nostri interessi personali.
Non scaverò ulteriormente perché tanto sappiamo tutti come funziona e come si rischi grosso se si finisce nella rete di qualche vicenda, che se finisce comunque a lieto fine, intanto ti stronca. C’è chi controlla in maniera così minuta certe vicende amministrative da causare ormai la tentazione del dolce far niente nel settore pubblico per evitare di finire nel tritacarne e con il portafoglio vuoto già solo per difendersi. Io in cause penali in 65 anni di vita ci sono finito due volte, uscendone lindo come un neonato, ma con preoccupazioni evidenti e costi nelle spese legali, che si potevano evitare con un minimo di buonsenso da parte di chi costruì castelli in aria.
Ecco perché oggi per distrarmi parlo di un caso lieve e non greve, che si svolge - per questo mi stuzzica - in alta montagna. Lo riporta con ironia Il Foglio, con un articolo firmato da Alberto Mattioli, ed è una vicenda che si svolge dall’altra parte delle Alpi.
Ecco l’incipit: ”Alla fine il Trentino ha spezzato le reni al Veneto con l’arma decisiva di ogni contenzioso italiano: il Tar del Lazio. I giudici hanno sentenziato che l’intero ghiacciaio della Marmolada, o quel che ne resta dato che per i ghiacciai sono tempi cupi, rimane nel comune di Canazei, quindi in Trentino, tranne le stazioni della funivia di Punta Rocca e Serauta che appartengono al comune di Rocca Pietore, provincia di Belluno, e quindi sono in Veneto”.
Poi si riavvolge il nastro: “La storia è degna dello Strapaese longanesiano, lunghissima e inutilmente complicata. Riassumendo, tutto inizia nel 1973, quando Canazei iniziò a fare dell’irredentismo chiedendo una rettifica del confine in modo da annettersi tutto il ghiacciaio. Nel 1982, il Consiglio di stato diede ragione ai trentini e Sandro Pertini sancì la rettifica con un decreto presidenziale. Seguirono gli immancabili ricorsi e controricorsi, le polemiche, i mandati del ministero dell’interno al Catasto e all’istituto geografico militare per delimitare il confine una volta per tutte, e perfino, nel 2002, un accordo “internazionale” fra il presidente della regione Veneto, Giancarlo Galan, e quello della provincia autonoma di Trento, Lorenzo Dellai, per chiudere amichevolmente la questione. Tutto inutile. Intanto gli immancabili eruditi locali facevano riferimento al verdetto della commissione internazionale che nel 1911 aveva avuto l’incarico di definire il confine fra il Regno d’italia e l’austria-ungheria, lasciati sul vago dopo la guerra del 1866, quando perdendola vincemmo il Veneto. Ma in questa furibonda disputa storicotopografico-amministrativa-campanilista c’era anche chi faceva riferimento ad accordi stipulati fra l’imperatrice e Regina Maria Teresa e la Serenissima Repubblica, giusto per prenderla larga ma senza dover risalire ai tempi del principe vescovo di Trento, dei longobardi, dei romani, dell’uomo delle nevi. Anche Luca Zaia aveva messo le mani nella Marmolada, nel 2018, convocando un Consiglio regionale veneto sul cucuzzolo con gran rinforzo di giornalisti e di bandiere con il leone di San Marco per ribadire che la Marmolada era storicamente veneta e veneta doveva restare (fu comunque una gita divertente, par di ricordare anche con un buon capriolo con la polenta…). E poi la battaglia dei ghiacci è andata ancora avanti, accanitissima e futile. E dire che Voltaire definiva con nonchalance il Canada (tutto quanto, mica una montagna) “pochi arpenti di neve…” “.
Ora l’epilogo: “Adesso la riffa giudiziaria vede vincitore il Trentino, dopo che il Tar ha unificato in un’unica sentenza i due ricorsi opposti che ancora pendevano, quello della Regione Veneto e quello del Comune di Canazei. E ha dato ragione postuma a Pertini, il cui decreto del faustissimo anno 1982, quello di Zoff-gentile-cabrini, sancì i confini che oggi sono confermati. Dalla parte trentina si gode, da quella veneta si piange. Sul Corriere del Veneto, il sindaco di Rocca Pietore, Andrea De Bernardin, protesta tirando in ballo le sacre memorie della Grande guerra, quando ci si batté proprio sulla linea del 1911: “Non mi piace pensare che un decreto, per quanto firmato da un Presidente della Repubblica, abbia più valore del sangue versato su quella frontiera”, e in effetti i trentini allora combattevano dall’altra parte, anche se per la verità furono spediti a farlo in Galizia, contro i russi. Però ai veneti resta il premio di consolazione, le due stazioni della funivia, anche se la pista da sci è del nemico; dunque, si sale in Veneto e si scende in Trentino. Infatti Il Gazzettino patriotticamente titola in prima pagina: “Marmolada, la funivia resta al Veneto”, meglio che niente. E adesso? Posto che un contenzioso che dura da mezzo secolo è durato abbastanza, anche per i tempi biblici della giustizia italiana, e che la sentenza del Tar è definitiva, non resta che l’opzione militare. Ricordate il “tanko” dei serenissimi, la colonna etilica dell’indipendentismo veneto, all’assalto di piazza San Marco? Zaia lo spedisca a occupare la Marmolada, e facciamola finita”.
Si sorride amaro e viene in mente il contenzioso sulla cima del Monte Bianco con la Francia che rivendica quanto indubitabilmente si trova, per antichi trattati, in territorio valdostano. Ma se ne occupano le diplomazie dei rispettivi Paesi, che dormono sonni tranquilli e noi - che consideriamo il Bianco europeo - anche!

La realtà parallela

Non c’è niente di male, anzi è politicamente salutare, occuparsi del radicalismo assoluto e dell’estremismo ideologico. Nel farlo, indosso la corazza, perché quando si trattano certi argomenti vale quel “chi tocca muore”, che campeggia sui pali degli elettrodotti, perché si sa già di irritare chi reagisce normalmente in modo vivace alle critiche, se non sono le sue verso gli altri.
Esiste una Sinistra estrema che scrive e si agita su qualunque argomento, facendosi più grande di quella che è (sia chiaro - lo dico per par condicio - che lo fanno anche all’estrema destra, come se fossero gemelli eterozigoti).
Moltiplicano le truppe in comitati e comitatini vari, come scatole cinesi, per la semplice constatazione che le persone sono sempre le stesse che ruotano, come i famosi aerei di Mussolini che volavano di aeroporto in aeroporto per improbabili prove muscolari. Nulla sfugge al radar polemico, che è sempre acceso e in certi casi con maniacale presenza su certi temi grazie ad ossessioni ideologiche che puntano il bersaglio senza pietà e riposo. Un senso del dovere quasi religioso con una partecipazione attiva e un attivismo politico che è una missione e l’avversario resta sempre un nemico da combattere e, se possibile, da abbattere.
Sia chiaro - visto che rischio comunicato stampa e vignette in cui appaio brutto e cattivo - che è tutto legittimo e lo stile dei vecchi gruppi extraparlamentari fa scuola e non demorde con un movimentismo âgé sempre efficace H24 e con sprezzo del pericolo e spesso del ridicolo.
Quel che è insopportabile è che si sentono sempre i migliori e le loro idee sono inossidabili, considerando gli altri scarsi e stupidotti e perennemente processati da chi - loro e il loro “collettivo” - ne sa di più come fossero avvolti da una sorta di infallibilità papale.
Mi è capitato di discutere, mettendomi di buzzo buono, con qualcuno di loro. Tempo perso: il Verbo è con loro e come dischi rotti tornano sempre sullo stesso punto con invidiabile pervicacia. Vanno per questo persino bene ammirati per la tempra e molti di loro sono davvero militanti di vecchissimo stampo, eppure sempre pronti a sbattersi con impegno e senza temere il peso delle età e talvolta di passaggi politici non del tutto coerenti. Ma la loro miglior difesa resta l’attacco: gli autonomisti sono quelli più nel mirino e sottoposti come tali a processi etici e a lezioncine morali sempre con quello stesso birignao della prof saccente che ti legge la vita più che insegnarti. Credo che si debba sorridere di tanto anacronismo e di queste “certezze” in politica.
Un pensiero di Hannah Arendt: ”Le ideologie ritengono che una sola idea basti a spiegare ogni cosa nello svolgimento dalla premessa, e che nessuna esperienza possa insegnare alcunché dato che tutto è compreso in questo processo coerente di deduzione logica”.
Invece, è proprio il dialogo che serve ad alimentare non le proprie convinzioni, che giustamente fanno parte del proprio patrimonio e nessuno deve discuterle, ma non deve esistere nulla di intangibile di fronte a idee e ad argomentazioni diverse o persino avverse che possano alimentare un confronto ad armi pari.
Per cui, alla fine, questo considerarsi migliori, atteggiarsi a depositari della verità e irridere agli avversari è niente altro che un modo grottesco di affrontare le cose e non porta neppure bene a chi vive in fondo in una realtà parallela tutta sua.
I pifferai in certi casi incantano ancora e chi li segue giocoforza ragiona di conseguenza.

Quanto necessario

In questi giorni si riflette seriamente per capire come rendere unitario e comune il futuro del mondo politico autonomista.
Bisognerà evitare che si tratti di un procedimento a freddo con la facile critica che si faccia una scelta solo ai vertici e non con le “basi”. Sembra l’antico interrogativo se sia nata prima l’uovo o prima la gallina. Contano i fatti e le volontà dall’alto e dal basso senza distinzioni e con quell’oggetto misterioso che è la famosa onestà intellettuale. Ricordo a me stesso che si intende con questa definizione - come base per qualunque discusso, compresa questa - l’atteggiamento di correttezza e lealtà che caratterizza chi riconosce, senza farsi condizionare da pregiudizi soggettivi o di parte, la consistenza reale di un’idea. Così si avanza senza ostacoli con soddisfazione di tutti.
Credo che sia giusto dieci la verità: il vero problema, dato per assodato che bisognerà fare un percorso e non un blitz, è che viviamo in un clima di distacco dalla politica che picchia duro anche in Valle d’Aosta.
Quindi giusto organizzarsi in logiche interne per giungere ad un buon risultato con un primo passaggio il 18 maggio data della morte di Émile Chanoux come omaggio alla sua figura cardine, da cui nacque in seguito l’Union Valdôtaine. Altrettanto necessario è però spiegarne lungo tutto il percorso, compreso quello successivo, le ragioni profonde che non è solo mettersi assieme l’esistente, ma offrire un programma di lavoro e una visione politica per il futuro.
Non si deve essere - come già accennavo - prigionieri del passato e non si può pensare di non adeguare progetti le valori ad una società valdostana in rapida mutazione e bisogna farlo senza rinnegare la storia e anche le personalità che l’hanno costruita.
Questo non significa dunque una
rimozione dei passaggi avvenuti in questi anni nel mondo autonomista, avendo però la consapevolezza che quanto avvenuto dev’essere superato e averne memoria non può significare rinvangare sempre le ragioni degli uni e degli altri.
Guardare avanti non significa smentire sé stessi e le proprie scelte, vuol dire semmai avere coscienza di un interesse superiore, che è quello dell’unità senza rancori e anche senza pregiudizi. Sono stufo di dietrologie, di arrières pensées, di previsioni funeste e tutto l’armamentario di chi vive un processo di riavvicinamento senza serenità e mente aperta. Ed è, invece, quanto necessario.

L’abbraccio, senza esagerare

Durante la pandemia ci si salutava tipo “Augh!”. Avete presente? Si tratta di un noto falso: sarebbe stata la parola di saluto attribuita ai nativi americani del Nord America, in genere accompagnata da un gesto con la mano alzata e il palmo rivolto in avanti. Ciò non corrisponde a una reale abitudine dei nativi, ma se lo sono inventati nei fumetti e nei western.
Oppure i più sviluppati adoperavano un timido e sfiorante pugnetto (nulla a che fare con il suo femminile).
Scappare dalla stretta di mano era di prammatica e le poche volte in cui mi azzardai a farlo fui vittima di ovvie rampogne. Colpiva molto, quando si incontravano persone in Francia e Svizzera, la fine della “bise” (bacetto con abbraccio sulle guance con versione a due o a tre).
Ora, chi segue le mode e l’evoluzione dei costumi, nota un cambio di marcia proprio in Italia dove l’abbraccio e eventuale bacio erano da sfera familiare o poco più.
Come mai? Mah, scovo un articolo sul Foglio che forse offre almeno una delle spiegazioni possibili e cioè l’influenza televisiva sui nostri comportamenti.
Scrivere Stefano Pistolini: “Ma quale austera stretta di mano…! E’ tutto un vieni qua, fatti stringere forte! Italia, terra di generosi abbracciatori. Prima mica era così, eravamo più riservati. Gli abbracci, quelli veri, erano riservati a occasioni straordinarie, un reincontro, un addio, un festeggiamento, perfino un cordoglio, era una cosa più privata, pudica. Invece da qualche tempo pare ci si abbracci come se non ci fosse un domani – ovviamente parliamo della metarealtà nella televisione pop d’ultimo (penultimo) modello, insomma i reality, i talent, i grandi eventi, tutto ciò che è governato dall’occhiuta direzione del famigerato pool di autori, flagellato dal problema di chiudere degnamente i segmenti delle loro torrenziali produzioni. E’ in questa rabberciata gouache delle emozioni italiane, che poco alla volta, irresistibilmente, s’è fatto largo l’abbraccio”.
Una novità che avvenga in maniera così torrentizia. Annota l’autore dell’articolo: “Prima non ci abbracciava mica così tanto davanti alle telecamere, se non a centro campo tornando dal gol, nel volta-pagina trionfale della passione sportiva. Ma l’abbraccio forte, ambosessi, possente, insistito, privo di implicazioni erotiche, quell’esibito bisogno di “sentirsi” non si vedeva mai, era roba da paisà, da carrambata, da melò, un’eccezionalità. Poi qualcuno nelle stanze di scrittura ha capito che il gesto aveva una sua cadenza funzionale, faceva minutaggio e si attagliava al nuovo trend: la cavalleresca competizione praticamente su tutto, ma sempre nel ritrovato orgoglio d’essere italiani prima e sentimentali subito dopo”. Infine: “Morale: l’abbraccio fa scena, ci fa sentire buoni, conferma che mica stiamo perdendo tempo a vedere quella rappresentazione nella quale tutti si commuovono – e io chi sono per restare con gli occhi asciutti? Del resto è di queste ore l’annuncio della scoperta di una fantascientifica pelle elettronica che presto ci permetterà di abbracciarci a distanza, una misteriosa materia morbida in grado di rilevare la tattilità bidirezionale, addirittura tra più utenti (riecco l’abbraccio di gruppo da finalisti del food show). E’ una creazione del dipartimento d’ingegneria biomedica dell’università di Hong Kong grazie al quale le braccia di Gianni Morandi non cingeranno più solo un pari grado, ma si spingeranno magicamente fino a noi, includendoci nella intimità da abbonamento. La frontiera con la celebrità si assottiglierà ancora di più, arriveremo a palpeggiarla, in attesa che il metaverso ci offra valide alternative valide alla squallida realtà quotidiana”.
Possiamo scherzarci, ma suona quasi come una tetra profezia. Ormai mi sono convinto che questi nuovi orizzonti apriranno scenari inquietanti di un modo sempre più smaterializzato. Ha detto lo psichiatra Tonino Cantelmi: “ Siamo sempre più connessi, più informati, più stimolati ma esistenzialmente sempre più soli”. Godiamoci, intanto, gli abbracci in carne ed ossa.

La voce della Corsica

Dovessi fare una sintesi iniziale che suona come una chiosa, allora direi che la Valle d’Aosta, Regione che ha da più di 70 anni una forma di Autonomia, rischia di avere una forma di assuefazione e persino di perdita di coscienza della sua importanza, mentre chi l’Autonomia non ce l’ha - la Corsica di cui parleremo - si batte con vigore e con convinzione per ottenerla, avendo piena consapevolezza della sua importanza.
Così mi sono sentito, ascoltando qualche settimana fa, in occasione della Festa della nostra Autonomia, Marie-Antoinette Maupertuis, Présidente de l'Assemblée de Corse. Esponente del partito autonomista “Femu a Corsica” e professoressa universitaria di economia, partecipa all’attuale discussione con lo Stato francese per l’ottenimento per i corsi di uno Statuto di autonomia, in un periodo in cui la maggioranza della sua Assemblea è composta da forze politiche autonomiste o indipendentiste.
A dimostrazione dell’assunto posto all’inizio vorrei trarre qualche passaggio dell’intervento pronunciato in Valle.
”C'est l'occasion - così nella parte iniziale - de rappeler les Statuts qui prennent compte en Europe les particularismes territoriaux et c'est aussi l’occasion de rappeler notre attachement au principe de subsidiarité européenne et de rendre hommage également à tous les combats politiques menés pour garantir une autonomie législative, fiscale, de gestion pour les territoires qui le nécessitent en Europe, mais aussi pour tous les peuples qui le méritent. Car l'autonomie territoriale, j’en suis convaincue, est un principe fondamental de la démocratie. Elle permet aux populations de prendre des décisions adaptées pour répondre à des enjeux qui les concernent directement, en tenant compte de leur culture, de leur langue, de leur histoire, de leur géographie. Et la Vallée d'Aoste en la matière est un exemple remarquable de l’application d'un tel statut. Cette région montagneuse, magnifique, à la croisée de différents mondes, profondément européenne, mais oh combien spécifique, a su préserver sa langue, sa culture, tout en étant aujourd’hui au cœur des transformations de l’Europe, au cœur des défis que collectivement nous devons relever: le défi énergétique, le défi écologique, mais également les défis géopolitique extérieur, politique intérieur, mais aussi le défi social, car combien de gens évidemment souffrent en Europe des difficultés que je viens de citer”.
Poi un passaggio ancora più politico: ”Face à ces défis, l'enjeu autonomique pour vous qui exercez ce pouvoir depuis 77 ans - 75 ans de Statut - et pour nous corses qui l'espérons depuis 50 ans et que nous ne l'avons pas, cet enjeu n'est pas une fin en soi, ce n'est pas un aboutissement, c'est un combat permanent. L'autonomie est en effet un processus dynamique, c’est un moyen, ce n’est pas une fin, qui doit être mis au service unique de l’intérêt général, qui doit permettre de contribuer au développement de notre société et à la préservation des équilibres économiques, sociaux, politiques et, aujourd’hui, environnementaux. La subsidiarité que j’ai évoquée est donc essentielle pour garantir des politiques publiques adaptées, en rapprochant la décision au plus près des citoyens et en permettant une gestion plus efficace des ressources publiques”.
Poi - tema su cui ho lavorato - la solidarietà e l’interscambio fra le Autonomie in Europa:. ”C’est pourquoi nous nous devons tous ensemble de célébrer ces combats politiques menés ici au Val d’Aoste mais dans d’autres régions d'Europe pour garantir les acquis autonomiques et souhaiter toujours une autonomie plus ambitieuse. Ces combats ont permis non seulement de faire progresser les droits des peuples à disposer d'eux-mêmes, mais aussi à renforcer la cohésion sociale, la cohésion communautaire, la sauvegarde culturelle et la protection, aujourd’hui, des ressources naturelles. Comme vous le savez certainement, en Corse nous sommes en plein processus de discussion avec l'Etat français pour faire aboutir un projet de réforme institutionnelle, vers plus d’autonomie, de plein droit et de plein exercice pour le peuple corse qui a plébiscité ce projet à l'occasion de trois élections - en 2015, en 2017, puis en 2021 - avec désormais une majorité absolue autonomiste au sein de l'Assemblée de Corse. Il y a donc une légitimité démocratique, qui est sortie des urnes à trois reprises avec une majorité absolue et nous avons la ferme conviction qu'aujourd’hui cette évolution institutionnelle est absolument nécessaire pour répondre aux problèmes sociaux, économiques, environnementaux mais aussi de santé et d’éducation auxquels est confronté notre peuple, et pour permettre aussi son épanouissement, l’amélioration de la qualité de vie des résidents”.
Infine parole da incorniciare per chi creda in modelli regionalisti avanzati, guardando al federalismo: “L'autonomie n'est pas un fétiche, l'autonomie n'est pas la lubie d'un groupe d’activistes corses puisqu'il existe en Europe des peuples qui sont autonomes - comme vous depuis plus de 70 ans - et cela n'a jamais remis en cause l'indivisibilité de la république ou de l'Etat auquel ils appartiennent. Cette autonomie est un moyen de rendre la vie des citoyens meilleure en restant fidèle à leurs valeurs d’accueil, de résistance, de solidarité mais aussi, aujourd’hui, d’écologie. C’est pour cette raison que nous prenons exemple, entre autres, sur différentes régions européennes autonomes et en particulier sur le modèle valdôtain. Nous sommes convaincus que cette autonomie renforcée permettra à la Corse de répondre plus efficacement aux aspirations de notre peuple tout en renforçant son identité mais aussi son attractivité. Nous sommes déterminés à mener à bien les négociations que nous avons entamées avec l'Etat - et vendredi nous avons tenu une réunion particulièrement importante avec le Président Macron et le Ministre de l’intérieur à Paris. Nous sommes donc au moment où vous, vous fêtez vos 75 ans de Statut, nous, nous sommes à l'orée d'écrire une nouvelle page institutionnelle de notre peuple”.
Uso a titolo beneaugurante un proverbio corso “Né essa né fà sì, e quant’e à ghjittà sì” (Bisogna fare tutto il necessario per riuscire al meglio).

Acqua!

Sentire tamburellare la pioggia sul tetto di casa suscita i versi dannunziani “Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse”. Quasi lo stupore per qualcosa che ci mancava.
Così Alexis che torna eccitato dall’allenamento e dice: “Finalmente abbiamo sciato in neve fresca!”. Questo avviene per le due stagioni invernali avare di neve naturale quasi dappertutto.
Intanto, anche nel Comune dove abito, l’annuncio di fare attenzione all’uso dell’acqua potabile, mentre in altre zone della Valle sono già in azione le autobotti.
CVA - altro aspetto - annuncia cali significativi nella produzione di energia idroelettrica e anche gli agricoltori seguono con preoccupazione là situazione in vista della bella stagione.
“Siccità” è un prestito dal latino siccĭtas -ātis ‘asciuttezza, aridità’, derivazione ben con comprensibile di sĭccus ‘arido, asciutto’ e naturalmente si declina in modo diverso su ogni Continente e per noi è importante approfondire quanto avviene ed avverrà e ci sono interessanti progetti di fonte europea cui stiamo partecipando per avere dati scientifici di prospettiva che ci consentano le scelte più giuste nella gestione di questa emergenza. Per altro - per essere chiari - questa storia dell’acqua fa parte della nostra storia, come dimostrato dalla costruzione di Ru che attraversano la Valle spostando le acque e anche da cause secolari far Comuni per liti sul loro utilizzo
È ovvio che questa situazione attuale, senza eccessi di allarmismo che non sono mai positivi, si ricollega al cambiamo climatico, di cui ormai si conoscono le cause, ma non del tutto certi meccanismi che hanno come conseguenza questa carenza di pioggia e in quota di neve. Nella speranza che ci siano in questi due inverni elementi di eccezionalità, resta scontato che l’aumento delle temperature (lo zero termine ha raggiunto quote incredibili!) che squaglia e fa arretrare i nostri ghiacciai - vere riserve di acqua - obbliga l’umanità a reazioni politiche rispetto ad arrestare quelle ragioni di cui siamo responsabili nella spinta al climate change.
Sul nostro piano locale diversi progetti sono importanti: la gestione acquedottistica che ha visto nascere un ente specifico e ci vorranno investimenti significativi. Vi è poi la necessità di lavorare in settori specifici come la gestione delle risorse idriche attraverso i consorzi di miglioramento fondiario, che gestiscono la rete di canali che percorrono il nostro territorio. Vi è, in parte collegata, la necessità di costruire bacino di raccolta e già esistono progettualità per un uso più razionale dell’acqua per i suoi diversi usi, compreso l’innevamento artificiale. Ma approfondimenti vanno fatti a tutela delle acque di falda e sulla possibile captazione di acque sotterranee in profondità. Nel settore idroelettrico la modernizzazione degli impianti è importante, così come possibili innovazioni come il pompaggio.
Insomma: una strategia complessa e costosa ma necessaria per contrastare una crisi idrica che può avere gravi conseguenze. Naturalmente bisogna poi dirigere il traffico, sapendo anche del rapporto fra le nostre risorse idriche e il loro uso anche nelle zone di pianura subalpine. Pensiamo all’uso dell’acqua della Dora a valle, ad esempio nel settore della risicoltura vercellese.
Poi ci vuole maggior coscienza personale e familiare nell’uso responsabile dell’acqua e già ci sono state e vanno rafforzare campagne informative anche nelle scuole.
Infine l’acqua, sotto diverse forme, può essere un elemento distruttivo con piogge monsoniche che stravolgono il territorio con allagamenti e frane, per non dire di rischi valanghivi su terreni aridi e bisogna ben comprendere i rischi in alta montagna dello scioglimento del permafrost. Tutte conseguenze che bisogna tenere da conto nella vita quotidiana con una coscienza diffusa di protezione civile e anche di educazione nei confronti dei turisti che frequentano la nostra Valle.
Chiudo con un ultimo rimando a Gabriele d’Annunzio e ad una sua celebre poesia:
Acqua di monte

acqua di fonte

acqua piovana

acqua sovrana

acqua che odo

acqua che lodo
acqua che squilli
a
acqua che brilli
a
acqua che canti e piangi

acqua che ridi e muggi.

Tu sei la vita
e sempre fuggi

Una nuova Dichiarazione per i popoli alpini

Occuparmi di Affari europei e assieme di politiche della montagna è per me fonte di grande soddisfazione. Lo è ormai da tanti anni con diversi ruoli e trovo che avere a che fare con le diverse materie afferenti comporti grandi occasioni di crescita.
Ieri ero, presso la Città metropolitana di Torino, per un evento conclusivo (ma tornerà) del Piter Graies Lab, che riunisce diversi partner piemontesi e savoiardi e naturalmente valdostani.
Per capirci ci sono elementi simbolici che uniscono. Penso al Canavese confinante con la Valle, alle vallate del Gran Paradiso che ci accomuna con il Piemonte, alla Valle di Lanzo dove operò Aymone di Challant, alla Savoia con quel luogo magico e dalla grande profondità storica del Colle del Piccolo San Bernardo. Esiste in questo caso - lo dico con il sorriso - l’unica querelle su dove nacque San Bernardo. Noi sappiamo ormai che le fonti storiche lo fanno aostano, mentre in Savoia di insiste sulla sua nascita a Menthon sul Lago di Annecy, malgrado sia ormai un accertato falso storico.
Ma quel che conta è la filosofia di fondo di questa cooperazione territoriale, che è in questo caso un dato che deriva dall’appartenenza comune e millenaria sotto Casa Savoia con linee confinarie cicatrici della Storia, che andavano ricomposte per cultura e vicinanza, dopo essere state artificialmente create dagli Stati nazionali in una logica di fare delle vallate alpine dei cul de sac.
La cooperazione transfrontaliera è dunque una sorta di piccola politica estera, nel quadro della politica regionale comunitaria (grande intuizione di Jacques Delorsche grazie all’Europa ha superato l’ottusità degli Stati che fino a non molto tempo fa avversavano assurdamente certi legami nel nome della sovranità statale esclusiva. Un vecchio retaggio ormai da considerarsi illogico e anacronistico, ma temo non ancora sepolto del tutto.
A questo si aggiunge un problema di cui si discute su tutte le Alpi ed è il rapporto fra la montagna e la pianura subalpina, dove si trovano le grandi città. C’è chi - penso a Mariano Allocco o ad Annibale Salsa - predica da tempo la necessità di un vero e proprio patto fra questi territori, partendo beninteso da una logica di eguaglianza. Gli strumenti per farlo non sono facili e ci vorrebbe da parte di noi montanari un passo in avanti, una proposta seria, programmatica e assieme piena di ideali e di valori.
Nel prossimo dicembre si celebrerà L’ottantesimo anniversario della Dichiarazione dei popoli alpini di Chivasso, scritta da valdesi e valdostani nell’ormai lontano 1943, in un periodo storico difficile con il giogo nazifascista che imprigionava ancora l’Europa e i montanari lanciarono in clandestinità questo manifesto a vantaggio di tutti i popoli alpini.
Temo sempre le celebrazioni a rischio retorica. Per questo mi piacerebbe - e la Valle d’Aosta è certamente pronta - che l’occasione, come avviene con un vecchio albero che si rinnova nel tempo, servisse a far germogliare una nuova Dichiarazione di Chivasso, mettendo attorno ad un tavolo diversi attori per guardare avanti.
Se nel 1943 i padri della Dichiarazione dettero dimostrazione di essere capaci non solo a guardare al loro presente ma a proiettarsi con preveggenza verso il futuro, allora spetterebbe a noi essere positivamente visionari e capire gli scenari attuali e con grande onestà nel spingerci oltre a certo tran tran che anestetizza le coscienze con proposte che servano per il futuro.
Non ingabbiamoci in logiche convegnistiche e di politique politicienne. Bisognerebbe con grande semplicità ma con forte efficacia e pure con capacità autocritica muoversi con un confronto serio senza troppi fronzoli.
Altrimenti sarebbe davvero un’occasione sprecata, specie guardando alla biografia dei protagonisti della Dichiarazione e a chi, su quelle pagine, ha riflettuto e sgobbato dopo di loro in un solco preciso, provandone ogni volta ad attualizzare i messaggi per evitare di essere anacronistici.
L’esperienza delle Autonomie speciali dell’Arco alpino, pur non essendo lo sperato federalismo, resta un punto di riferimento, che deve accogliere tuttavia un dibattito più vasto, sapendo che c’è un debito storico verso le “altre” montagne che non hanno avuto medesimo destino.
Per cui oggi ragionare sulle montagne alpine e sui popoli che le abitano, lato Sud e lato Nord, vuol dire aggiungere più Europa e tornare a certe radici federaliste, che spetta a noi mantenere vive per contrastare il ritorno a nazionalismi giacobini e centralisti e all’andazzo di chi guarda alla montagna con logica colonialista e con totale incomprensione del ruolo umano nello sviluppo dei territori. L’uso dell’orrendo termine “antropizzazione”, con l’uomo come elemento di inciampo, mostra una visione grottesca della Natura.
Sono temi difficili, ma lancio davvero un appello accorato - e senza intenti strumentali o ambizioni personali - a camminare tutti nella stessa direzione e a scrivere una Dichiarazione condivisa e incisiva, che possa essere degna di quanto si scrisse - a rischio della propria vita (Émile Chanoux venne ucciso pochi mesi dopo dai fascisti) - in quello storico incontro.

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