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25 mag 2021

Freerider: libertà e rischi

di Luciano Caveri

Mi mandano ed oggi la vedo pubblicata su "La Stampa" una fotografia in cui ci sono cinque sciatori amici per la pelle sorridenti: quattro di loro, in diverse circostanze, sono morti sotto una valanga. Questo è un destino triste in eventi drammatici, che ha colpito specialisti del freerider. Per chi non lo sapesse "Wikipedia" così fotografa il fenomeno : "Nello sci alpino, nello snowboard e nel telemark, con il termine freeride (in italiano "andare liberi") si indica l'attività fuoripista in neve fresca, avente scopo ludico e la ricerca del senso di libertà. Per la risalita si utilizzano gli impianti di risalita e a volte, per brevi tratti, le ciaspole, le pelli di foca oppure l'elicottero. E' considerata una disciplina intermedia tra sci alpino e sci alpinismo avvicinandosi molto, in taluni casi, a quest'ultima per l'attività fuoripista e i rischi connessi".

Per chi volesse saperne di più ci sono centinaia di filmati ed un bellissimo libro di Ettore Personettaz (nella foto l'ultimo a destra) intitolato "Freeride e splitboard in Valle d'Aosta. Racconti, spunti, itinerari...", che mostrano prodezze fatte di discese ardite, salti di roccia, slalom nei boschi e via di questo passo. Quel che conta sono l'estremo e l'adrenalina, fatti di uscite solitarie, di gruppo e persino di competizioni. Esiste un'oggettiva ricerca del brivido e certe performance sono borderline per la componente di pericolosità che fa parte di questo sport che esalta la montagna più selvaggia. Già la montagna ha i suoi pericoli, ma si può scientemente scegliere di aggiungerne qualcuno in più. Non faccio il moralista, ma segnalo solo che se si guarda l'esito in questa primavera con la neve sulle cime sulle Alpi è giusto avere una qual certa inquietudine e porsi qualche domanda. Esiste un libero arbitrio, ma bisogna anche considerare che molti campioni della specialità diventano modelli da imitare anche per chi non abbia le stesse doti e capacità. Inseguire l'ineluttabile comporta anche, nel caso di incidente, mettere in moto costose macchine per i soccorsi e sottoporre i soccorritori ad evidenti rischi in ambiente ostile. Le valanghe non sono una maledizione originata non si sa da dove, ma un fenomeno di cui ormai siamo in grado realisticamente di prevede l'origine e gli sviluppi, che i professionisti della montagna e chi la frequenta con piena consapevolezza conoscono e persino studiano nei corsi di formazione. Basta con questa storia, che piace a molti giornalisti, della «montagna maledetta» o «assassina». Ho già citato in passato uno studio della "Accademia della Montagna" di Trento, all'interno di un progetto pluriennale dedicato al rischio valanghe che ha coinvolto a vario titolo le università di Trento, Padova e Verona, oltre alla "Fondazione Bruno Kessler". Secondo gli esperti ci sono due errori cognitivi rilevabili nel comportamento di quanti decidono di esporsi a situazioni pericolose e ne rimangono vittime: l'overconfidence, cioè la convinzione di sapere più di quanto effettivamente si sappia, e l'attitudine al "risk taking", cioè la propensione a mettere in atto comportamenti rischiosi. Nel primo caso, a detta dei ricercatori, l'errore sarebbe imperniato sull'illusione di poter tenere sotto controllo eventi del tutto accidentali, ed inoltre esisterebbero un eccesso di sicurezza e la pretesa di aver assimilato una conoscenza approfondita dell'ambiente montano come riparo contro le incognite. Nel secondo caso, l'errore sarebbe dovuto alla sottovalutazione della probabilità che si possa incorrere in eventi negativi, ma anche alla propensione individuale a mettere in atto comportamenti a rischio e sappiamo come certe imprese avvengano a favor di telecamere, in primis le "GoPro" con cui rivivere le imprese e condividerle sul Web. Questa miscela crea un eccesso di confidenza, porta ad una voglia di superare i limiti e spinge a questa idea balzana, ma umanissima, del "mai a me", che spinge non solo novellini, ma gente seria e preparata a finire in itinerari bellissimi ma potenzialmente letali. Capita ogni giorno con gli incidenti stradali, figurarsi in un ambiente come quello dell'alta montagna, con insidie in agguato. La storia dell'alpinismo, fratello maggiore degli sport della neve, è piena di storie analoghe di vite stroncate. Esiste un''epica della competente del rischio che si afferma come elemento di nobiltà nella sua versione estrema, che sposta in su l'asticella da superare. Troppi morti fuoripista hanno esteso a nuove frontiere della neve questa medesima filosofia da discutere per i pericoli che ne conseguono e lo vediamo con morti che risultano alla fine banali nella loro dinamica con un pendio da sverginare e una valanga che - con condizioni annunciate dagli appositi bollettini - piomba sugli sciatori e li uccide.