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23 giu 2021

Quando i "social" inquinano

di Luciano Caveri

Seguo da anni i pensieri, spesso assai originali e ficcanti, del filosofo e scrittore Bernard-Henri Lévy, rappresentante di quella nouvelle philosophie, fondata con altri intellettuali negli anni Settanta e dimostrazione di come la maturazione personale nel tempo consenta di affinare, se non persone di cambiare, le proprie idee. In questi giorni, ripreso in "Italia" da "La Repubblica", si occupa, riprendendo un pensiero del Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron, del rischio di imbarbarimento collettivo ascrivibile al successo dei "social" network. Ed elenca - e lo trovo interessante - cinque punti a confronto di questa tesi, che vorrei qui proporre con brevi annotazioni.

Così Bernard-Henri Lévy: «Il primo è l'istantaneità dei pensieri che vi si esprimono, il fatto che questi non conoscano più un minimo di distacco, di filtro e, letteralmente, di mediazione. Di conseguenza, i pensieri sui "social" sono affini a quel linguaggio troppo crudo, troppo presente a sé stesso, troppo intenso che Hegel considerava tra le cause di violenza e ferocia tra gli uomini». Già capiterà a tutti, anche a me, di trattenersi e, nella mia presenza su "Twitter", di reagire d'istinto, emotivamente. Prosegue: «Il secondo è l'inganno di questi "social" che, lungi dal farci socializzare come starebbe a indicare il loro nome, in verità non fanno altro che de-socializzarci, con la conseguente illusione di presunti amici che ci amano con un click, che smettono di amarci con un altro click e il cui incremento è segno, come per i non-cittadini di Saint-Just, del fatto che non abbiamo davvero più amici... Falsa ricchezza di autentiche parole a vanvera che si misura in "like" e follower che dovrebbero apportare maggior valore alle nostre esistenze e, al contrario, ci confinano in una solitudine senza precedenti. In sintesi, regno di un narcisismo che, con il pretesto della connessione, sottolinea la rottura rispetto a tutto quello che un tempo plasmava le comunità, la solidarietà, la fraternità». Sappiamo poi che i "social" con meccanismi selettivi ci fanno incontrare in Rete solo con coloro che la pensano come noi, isolandoci dalla possibilità di confrontare le nostre convinzioni con chi la pensa diversamente. E ancora: «Terzo: conosciamo la storia del famoso vescovo Dionigi, decapitato dai barbari e che nondimeno attraversò a piedi la collina di Saint-Denis tenendo sottobraccio la sua testa mozzata. Con i meccanismi della Rete, assistiamo a un fenomeno dello stesso tipo, ma su scala planetaria e che interessa tutti gli esseri umani. Oggi non si tratta più della nostra testa, certo, ma della nostra memoria. Non la portiamo più con noi sottobraccio, ma nel palmo delle nostre mani, oppure in fondo a una tasca, considerato che sui nostri smartphone ci alleggeriamo dell'attenzione che consente di risalire consapevolmente a informazioni, situazioni e frammenti di ricordi che dimentichiamo tanto più di buon grado quanto più la tecnologia ci consente di recuperarli a nostro piacimento. In questa dislocazione, in questa esfiltrazione, in questo scaricabarile della nostra facoltà di ricordare affidata alle macchine c'è un fatto antropologico che conduce all'inesorabile atrofizzazione di una facoltà della memoria che, dai tempi di Platone, sappiamo essere uno dei legami più solidi tra gli esseri umani e uno di quelli più adatti a scongiurare il peggio». Una sorta di "falsa cultura" che ci impoverisce, perché sappiamo che la possiamo trarre dal Web e aggiungerei che il tempo spesso trascorso oziosamente navigando ci da trascurare studio e buone letture. Il penultimo punto: «Quarto, la volontà di verità. Anch'essa crea un legame tra gli uomini. Nel riconoscimento di una verità - il cui amore, se non altro, è condiviso - vi è un'altra ragione concreta che impedisce loro di uccidersi a vicenda. E nondimeno, che cosa è un "social network"? E' la sede di uno slittamento progressivo, di cui non si sono quantificate a sufficienza tutte le conseguenze. Si comincia con il dire: "Tutti hanno pari diritto di esprimere ciò in cui credono". Poi si passa a: "Tutte le cose espresse in cui si crede godono del medesimo diritto a essere rispettate nello stesso modo". E poi, ancora: "Se tutte sono rispettabili nello stesso modo, significa che sono tutte valide, importanti e apprezzabili nello stesso modo". Ecco, è così che, a partire dal desiderio di democratizzare il "coraggio della verità" caro a Michel Foucault e pensando di offrire a tutti il mezzo tecnologico per contribuire all'avventura della conoscenza, si è creato un parlottio globale in cui nulla autorizza più a gerarchizzare o a distinguere tra intelligenza e delirio, tra informazione e "fake news", tra ricerca della verità e passione per l'ignoranza. Si tratta di un ritorno, quasi ricalcando l'eleganza greca, di quei celebri sofisti che sostenevano che quella che un tempo chiamavano "la" Verità è un'ombra indistinta in una notte in cui tutte le illusioni sono grigie. E, in questa profusione oscura e assordante in cui si sono trasformati i "social network", la verità di ognuno vale quanto quella del suo vicino e ha diritto a tutti i mezzi - assolutamente tutti, fossero pure violenti e financo feroci - atti a imporre la propria legge». Così, come diceva Umberto Eco: «I "social media" danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. E' l'invasione degli imbecilli». Eccoci giunti all'ultimo punto: «E, infine, quinto. Ricordiamo tutti la struttura panoptica teorizzata per le prigioni dal filosofo utilitarista inglese del XVIII secolo Jeremy Bentham, basata su un osservatorio collocato in una torretta centrale che permetteva alle guardie di osservare senza essere viste e ai detenuti, sistemati in celle individuali poste a raggiera attorno a essa, di vivere sotto il loro sguardo. L'originalità dei social consiste nel fatto che quell'occhio non si chiude mai, sorveglia i corpi e penetra nelle anime, viola la loro interiorità rendendola evidente a chiunque e non è più l'occhio di una guardia, di un superiore, di un padrone, bensì di ciascuno di noi. La novità è che questo progetto consistente nel voler vedere tutto, sapere tutto e penetrare nello spirito e nell'intimità altrui è alla portata di qualsiasi nostro vicino in Rete. Nella misura in cui permette ai superiori di spiare i sottoposti, ma anche ai sottoposti di spiare i superiori, e indifferentemente a tutti di controllare o condannare chiunque altro, questo meccanismo neo-benthamiano crea un regime politico nuovo che non si può definire né seriamente democratico né distintamente autocratico; che si sarebbe tentati di chiamare "scopocratico", in ragione di questa teoria dello sguardo e del voyerismo gaudente a cui esso dà vita; e che viola una delle leggi più antiche della Storia, enunciata dai tempi dei tragici greci a Epidauro e Olimpia: "Uomini, non andate a guardare troppo da vicino - con il rischio di essere accecati o, peggio ancora, imbrattati dal loro sangue - da quel lato dello specchio che è il corpo animale dei vostri simili". I tragici greci non avevano torto. Da questo furore scopocratico, infatti, nasce depredazione. Una rabbia accusatrice osservata di rado nella storia del genere umano. Un clima di giustizia popolare che viaggia alla velocità della luce virale di una Rete che funziona a pieno regime e crea un'umanità assetata, come gli dèi di Anatole France, non di sangue ma di chiacchiericcio. E, al termine di questa mischia - in cui a ogni istante, o quasi, un'altra testa cade nella cesta panoptica dei nuovi corvi - è in corso una guerra di tutti contro tutti, la cui ferocia nessun Hobbes ha mai immaginato». Un realismo condivisibile nella preoccupazione di un progressivo peggioramento. L'ultima frase, che condivido, è un crudo: «Come uscire da questo incubo? Lo ignoro».