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24 set 2021

Il futuro dei partiti

di Luciano Caveri

I partiti e movimenti politici sono organismi viventi, perché composti da esseri umani. Chi ci ha vissuto dentro e ha, come me, assistito come testimone-protagonista per quasi 35 anni al loro vivere e morire credo possa osservare alcune cose. Stare insieme non è facile, perché la politica è fatta, anche nella stessa casa comune, da personalità diverse e da differenti punti di vista. Non mi riferisco dunque - lo dico incidentalmente - a certi gruppuscoli settari che ancora sopravvivono nella politica valdostana a colpi di "social" carognosi. Bisogna nei partiti avere un collante forte per resistere a spinte contrapposte e a dispute comprensibili per emergere. Piangere sul tempo che fu non ha senso: i partiti sono stati importanti e lo sono ancora, ma è vero che la partitocrazia è stato un sistema con grandi storture e la sua dose di malaffare, spesso legate a personaggi troppi invadenti. I leader sono essenziali, ma quando debordano i partiti perdono quel pluralismo che è il sale della democrazia.

Questo discorsetto generale vale anche per la Valle d'Aosta e il sottoscritto ha vissuto tre esperienze nella sua vita: la lunga militanza con l'Union Valdôtaine in diverse cariche elettive, la nascita dell'Union Valdôtaine Progressiste e l'abbandono per scelte contrarie alle ragioni per cui era nata ed infine l'esperienza di MOUV' confluita nella lista "VdA Unie". Sono contento che oggi si debba aprire un cantiere a favore di una riaggregazione del mondo autonomista, che già funzionano nel lavoro in Consiglio Valle e nel Governo regionale. Per farlo ci vogliono impegno, pazienza e buonsenso. Mi ha colpito in questo senso, ma le mie esperienze concordavano su alcune preoccupazioni, quanto scritto da Sabino Cassese sul "Corriere della Sera" con un inizio fulminante: «Erano loro che, come scriveva Benedetto Croce nel 1950, dovevano fare in modo che dalle elezioni uscisse il Parlamento migliore possibile. Ma ormai i partiti vivono solo al tempo delle elezioni. Rappresentano elettori (per di più instabili), non iscritti (questi sono oggi poco più del dieci per cento degli affiliati ai partiti della metà del secolo scorso, nonostante che la popolazione italiana sia aumentata di dieci milioni). Al declino della "membership" corrisponde l'assenza di una vita continua, poca coesione interna (Massimo Adinolfi, scrivendo su "Il Mattino" del 12 marzo 2021, ha sintetizzato la situazione dicendo che vi sono "tante correnti senza nessun partito"), pochissima democrazia interna (il 16 settembre scorso, alla votazione dei membri del Comitato di garanzia del M5S, la forza politica che propugnava la democrazia diretta, hanno partecipato 30mila persone, mentre gli aventi diritto al voto erano 115mila; inoltre, tutte le forze politiche rinviano i loro congressi e cambiano persino nome senza riunirli). I partiti, perduto il loro legame con la società, conservano solo il monopolio dei rapporti con lo Stato. Dovevano, per la Costituzione, essere lo strumento della democrazia, ma essi stessi non sono democratici. Dovrebbero essere incubatori, formatori, interpreti della domanda sociale, si limitano a svolgere il ruolo di piedistallo dei leader. Dovrebbero ascoltare e plasmare gli interessi degli elettori, fare da filtro, proporre programmi, mentre invece non riescono neppure a darsi una identità riconoscibile e parlano molto per dire poco. Dovrebbero essere le scuole per selezionare il personale politico, mentre, quando bisogna preparare le liste elettorali, si rivolgono all'esterno per trovare i candidati. Dovrebbero essere il tramite per la legittimazione del Parlamento e delle politiche pubbliche; invece, hanno essi stessi scarsa legittimazione e un rapporto volatile con il proprio elettorato. Dovrebbero progettare il futuro, sono invece prigionieri dei cicli brevi, della politica istantanea e mutevole, di durata poco più che giornaliera, nella quale contano gli accordi piuttosto che le cose da fare». Questo "j'accuse" dai toni incalzanti ha certamente il pregio di dipingere un quadro crudo e purtroppo assai realistico. Osservazioni che obbligano tutti a capire come si può svoltare. Aggiunge Cassese: «Nei partiti politici fatti di vertici senza apparati, con poche risorse (più che dimezzate negli ultimi anni), sempre all'inseguimento l'uno dell'altro, contano la presenza e la rappresentazione più che il progetto, i leader non vengono dalla "gavetta", nascono "professionisti della politica" (nel senso weberiano), non lo diventano, pur senza avere una professione nella società (se Moro e Fanfani avessero lasciato la politica, avrebbero saputo che mestiere fare; non si può dire lo stesso di molti dei leader di oggi). Si capisce quindi che abbiano bisogno di essere presenti ogni giorno, di apparire, di esternare, di cercare di differenziarsi, pur in assenza di ideologie o programmi. E intanto, nei partiti, le seconde e terze file lottano per avere un po' di visibilità. Il paradosso di questa situazione, caratterizzata da tanti sintomi di malessere della democrazia, è che nella società pullulano le scuole di politica, perché si sente il bisogno di buona politica. Insomma, sembra prevalere l'idea che, se la politica è povera, non per questo bisogna rifuggire da essa e coltivare l'antipolitica, divenuta anch'essa una politica e ben sfruttata. Al contrario, bisogna rimediare alla povertà della selezione della classe politica e della sua cultura, stabilendo nuovi rapporti con la società civile». Già, bisogna avere idee e non si tratta di tornare a chissà quale passato. E' necessario trovare nuove forme partecipative, perché anche i partiti si devono adeguare ad un mondo che cambia e soprattutto ad una democrazia che rischia di essere sempre più indebolita senza forme di rappresentanza efficaci.