December 2013

Gli incroci della Storia

Il blasone di Giovanni Federico MadruzzoSu "Il Trentino" l'inizio dell'articolo dell'articolo sui 450 anni del "Concilio di Trento" di Camilla Giovannini comincia così: «La leggenda vuole che il crocifisso del Concilio, quello che è ancora presente nella cappella del Duomo di Trento, al termine dello storico sinodo abbia staccato il braccio dalla croce e rivolto un gesto di benedizione. In un'altra versione si racconta che abbia chinato il capo in segno di approvazione. Di certo sappiamo, attraverso i documenti storici, che il "Concilio di Trento" si è chiuso nei giorni 3 e 4 dicembre 1563 con la recita del "Te Deum" e l'invito "andate in Pace"».
Dall'altra parte delle Alpi, dopo mille tribolazioni e diciotto anni dal suo inizio, si chiuse così una delle pagine importanti della storia della Chiesa e del cattolicesimo, dopo la riforma protestante.
E' curioso pensare che proprio in quegli anni la storia valdostana si incrociò con la storia trentina e non fu un episodio, ma una svolta per il "Duché d'Aoste" e soprattutto per la famiglia Challant.
Lo ricorda bene Federico Bona in un articolo sull'araldica, intitolato "Presenze araldiche portoghesi in Valle d'Aosta" dove si racconta questa vicenda, che vede come protagonista Renato di Challant (Issogne, 1502 - Ambronay, 11 luglio 1565), quinto Conte di Challant: «Torniamo al 1555 e alla ricerca da parte di Renato di un marito per Filiberta. L'attività diplomatica del conte di Challant gli ha fatto conoscere nel tempo il cardinale Cristoforo Madruzzo, della famiglia dei principi vescovi di Trento, in cerca di una moglie per suo nipote Giovanni Federico, conte di Avio e marchese di Soriano nel Cimino, fratello del cardinale Ludovico, nonché fratello naturale del capitano Paolo.
Le ambizioni dei Madruzzo li spingono a cercar di stabilire forti relazioni con la corte del duca di Savoia e a estendere la propria influenza anche nell'Italia nord occidentale. Le nozze di un membro della famiglia con la figlia del conte di Challant, uno dei più influenti personaggi della corte sabauda, consentirebbero inoltre di allargare la presenza anche ai territori detenuti oltralpe dalla famiglia valdostana».
Prosegue l'autore: «Come è noto, uno scandalo manda quasi all'aria il progetto: nella notte prima delle nozze, da celebrare a Milano, la giovane fugge con lo scudiero Lespail, di cui è innamorata.
I reciproci interessi in ballo sono comunque tali che l'alleanza tra le due famiglie viene confermata. A ottobre 1557 Giovanni Federico sposa Isabella, sorella di Filiberta e, alla morte di Renato nel 1565, diventa il sesto conte di Challant»
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Mi fermo qui: la storia - dopo la tragicocomica sostituzione di una sorella con l'altra! - prosegue, appassionante e piena di colpi di scena. La presenza dei Madruzzo in Valle, incrociato al Contado degli Challant, durerà circa un secolo e segnerà una passerella fra Trento e la Valle d'Aosta, di cui si trova ampia documentazione da noi (con due luoghi fra tutti: il castello di Issogne e la Collegiata di Saint-Gilles di Verrès) e da loro.
Segno che queste Alpi - e gli stemmi studiati dall'araldica sono una fronte preziosa cui attingere - sono sempre state terra di incroci e di scambi e le vicende degli Challant sono una spina dorsale della storia valdostana, specie nel Medioevo e nel Rinascimento, fino all'estinzione della famiglia all'inizio dell'Ottocento.

Una personalità: Adriano Olivetti

Adriano OlivettiNel "panthéon" dei propri padri nobili ognuno, legittimamente, mette chi vuole. Per me, a parte alcuni intoccabili, capita, ogni tanto, di dimostrare interessi nuovi per personalità che possono dare spunti - fatta la tara per il tempo trascorso - per il presente.
Dopo un modesto sceneggiato televisivo andato in onda di recente, si è accresciuto l'interesse generale verso quella multiforme personalità che fu Adriano Olivetti, che non era certo il personaggio così come ricostruito con cartoline improbabili nella fiction, che risultavano prive del mordente che la biografia avrebbe permesso con fatti di vita vissuta.
Ho studiato al Liceo classico ad Ivrea e ancora allora risuonava l'eco di quella sperimentazione sociale che fu "Comunità". Qualcosa che arriva dal passato, mentre la città si avviava verso la fine dell'Olivetti, fra lampi di un passato prestigioso e la pioggia fredda di un "gruppo" che usciva di scena, vittima di pescecani della grande finanza, che prima hanno fatto spezzatino delle sue imprese e poi l'hanno svenduto.
In tempi non sospetti, ho letto quanto uscito su Adriano Olivetti, sperando di capirne di più e formarmi un'opinione compiuta. Ho esitato a scriverne, perché ancora oggi la sua personalità mi sfugge.
Rispetto alla Valle d'Aosta, il dato più conosciuto risale al 1936, quando avviò un immaginifico studio preparatorio per un piano regolatore della Valle d’Aosta (in quegli anni Ivrea faceva parte della "Provincia di Aosta", voluta dal fascismo nel 1927). Certamente Olivetti seguì ancora le vicende valdostane fra Resistenza e dopoguerra per le ricadute sul Canavese. In seguito le sue imprese industriali hanno avuto un'evidente conseguenza sulla Valle per chi scese a lavorare nelle fabbriche o rilevò aziende agricole nell'eporediese, sostituendo agricoltori che divennero operai. Ma ci furono poi una serie di aziende targate "Olivetti" che, specie nell'ultima fase, quando Adriano non c'era più (morì nel 1960 a soli 59 anni), vennero in Valle per i vantaggi derivanti dall'installazione di imprese. Con la chiusura dello stabilimento d'Arnad la storia è finita, com'era avvenuto per gli stabilimenti che si occupavano di parte dell'indotto.
Il punto che più mi interessa è in campo politico, anzitutto con la nascita, nel 1948, del celebre "Movimento di Comunità", per il quale Adriano Olivetti fu eletto deputato nella terza legislatura della Repubblica (1958), la stessa in cui c'era alla Camera mio zio, Séverin Caveri, di cui mi sfuggono i rapporti personali e politici con l'Ingegnere. Sicuramente li univa l'attenzione per il modello federalista e una visione europeista.
Su Olivetti trovo interessante un piccolo libro del noto sociologo, Franco Ferrarotti, che gli subentrò quasi subito alla Camera, intitolato "La concreta utopia di Adriano Olivetti".
Vorrei dirvi che cosa ho capito:
a) sbaglia chi riduce Olivetti ad una "fotogenica caricatura";
b) il suo non è stato un "paternalismo padronale", era semmai un "autentico riformatore";
c) ha capito la forza della comunità e della "piccola patria", pur nella più vasta comunità umana;
d) la sua spinta politica era basata sull'importanza assai concreta della cultura e non su sogni utopisti;
e) Olivetti ha previsto con fiuto che la grande speculazione finanziaria avrebbe fatto grandi danni;
f) la visione federalista evita l'"angustia municipalistica" o il "paternalismo strapaesano";
g) si deve ad Olivetti il primo uso del termine "partitocrazia";
h) capisce fra i primi come il parlamentarismo tradizionale vada in crisi in una società complessa;
i) "tutto il potere alle comunità!" è la risposta al centralismo dello Stato;
l) memore del dramma del nazifascismo e delle dittature comuniste, immagina un insieme di comunità umane basate su valori e non sulla logica "sangue e suolo";
m) la comunità naturale è il locus originario della libertà;
n) la rivitalizzazione dell'iniziativa dal basso è la condizione essenziale per lo sviluppo della comunità;
o) è interessante il suo cattolicesimo, frutto anche di un padre ebreo e una madre valdese.
Mi fermo qui, con lo stupido rimpianto che ogni tanto ci prende per qualcuno che ci ha preceduti, quello di non averlo conosciuto. Il suo ufficio era sempre aperto e chiunque volesse poteva parlargli.
E io, se fosse possibile oggi, lo avrei fatto volentieri.

La sentenza della Consulta su piro e dintorni

Una scheda del referendumE' stata depositata oggi la sentenza 285 della Corte Costituzionale sulla vicenda della legge che ha seguito in Valle d'Aosta il referendum che ha bocciato il pirogassificatore.
Dando una rapida occhiata e usando brani della sentenza, cerchiamo di capire che cosa dice la Consulta.
Il punto di partenza: "Il Presidente del Consiglio dei ministri, (...) ha impugnato l’articolo unico della legge della Regione autonoma Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste 23 novembre 2012, n. 33 (Modificazione alla legge regionale 3 dicembre 2007, n. 31 – Nuove disposizioni in materia di gestione dei rifiuti).
La disposizione impugnata riguarda la gestione dei rifiuti e, in particolare, la realizzazione e utilizzazione di impianti di trattamento a caldo per il loro smaltimento. Ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, tale disposizione contrasterebbe, in primo luogo, con l'art. 15, secondo comma, della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d’Aosta), in relazione all'art. 7, comma 1, lettera a), della legge della Regione autonoma Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste 25 giugno 2003, n. 19 (Disciplina dell’iniziativa legislativa popolare, del referendum propositivo, abrogativo e consultivo, ai sensi dell’articolo 15, secondo comma, dello Statuto speciale), perché sarebbe stata adottata sulla base di un referendum propositivo che «non doveva essere dichiarato ammissibile».
In secondo luogo, la norma impugnata sarebbe riconducibile alla materia della tutela dell'ambiente di competenza esclusiva statale, con conseguente violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. La disposizione regionale si porrebbe in contrasto con le norme del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), in particolare con l’art. 195, comma 1, lettere f) e p) e con l'art. 196, comma 1, lettere n) e o), che individuano le competenze amministrative statali (art. 195) e quelle regionali (art. 196) nella gestione dei rifiuti"
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Sulla prima questione sollevata dal Governo "viene dichiarata l'inammissibilità della censura riferita all'art. 15, secondo comma, dello statuto speciale per la Valle D'Aosta/Vallée d'Aoste.
Il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che la disposizione impugnata contrasti con l'art. 7, comma 1, lettera a), della legge reg. n. 19 del 2003, da cui discenderebbe la violazione del parametro statutario richiamato, perché la disposizione sarebbe stata adottata sulla base di un referendum propositivo che «non doveva essere dichiarato ammissibile». In particolare, la Commissione regionale per i procedimenti referendari e di iniziativa popolare, tenuta a pronunciarsi in merito «alla competenza regionale nella materia oggetto della proposta di legge», secondo quanto stabilito dal predetto art. 7, comma 1, lettera a), avrebbe «erroneamente ricondotto la proposta di legge regionale in esame alla materia della tutela della salute».
Il Presidente del Consiglio dei ministri non contesta, dunque, la violazione di una norma da parte della Regione, ma le modalità con cui è stato esercitato il potere della Commissione regionale per i procedimenti referendari. Non è questa però la sede idonea per poter valutare tale doglianza, non essendo stato richiesto dal ricorrente un "giudizio sulle leggi". Il Presidente del Consiglio dei ministri, quindi, ha compiuto una «impropria utilizzazione» dello strumento del giudizio di costituzionalità della legge «per un fine a esso estraneo», con conseguente inammissibilità della relativa censura"
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Restava, insomma da decidere se la Regione potesse legiferare sui rifiuti e la Corte si occupa in modo dettagliato della sua giurisprudenza sul tema e del quadro normativo per dire che la questione proposta dal Governo è fondata e i poteri principali sono dello Stato per una serie di "interessi nazionali".
Dice la Corte Costituzionale: "Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, la norma censurata è riconducibile alla materia della tutela dell'ambiente di competenza esclusiva statale ed è in contrasto con l'art. 195, comma 1, lettere f) e p) e con l'art. 196, comma 1, lettere n) e o), del d.lgs. n. 152 del 2006.
La norma regionale dispone, con riferimento al ciclo integrato dei rifiuti solidi urbani e dei rifiuti speciali non pericolosi, un divieto generale di realizzazione e utilizzazione sull'intero territorio regionale di impianti di trattamento a caldo per lo smaltimento dei rifiuti (quali incenerimento, termovalorizzazione, pirolisi o gassificazione).
La norma eccede la competenza regionale. Infatti, la disciplina della gestione dei rifiuti, come già osservato, rientra nella materia «tutela dell’ambiente e dell'ecosistema» riservata, in base all'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., alla competenza esclusiva dello Stato (ex multis, sentenze n. 54 del 2012, n. 244 e n. 33 del 2011, n. 331 e n. 278 del 2010, n. 61 e n. 10 del 2009).
Esercitando tale competenza, lo Stato ha regolato, con l'art. 195, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 152 del 2006, il potere di localizzare gli impianti di recupero e smaltimento dei rifiuti di preminente interesse nazionale.
La norma regionale preclude allo Stato, con procedure difformi da quelle disposte dalla norma statale, di individuare impianti di preminente interesse nazionale con la tecnica del trattamento a caldo dei rifiuti nell'intera Regione autonoma Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste. Tale divieto impedisce la realizzazione delle finalità di riequilibrio socio-economico fra le aree del territorio nazionale, indicate dalla norma statale.
Questa Corte ha rilevato che «la comprensibile spinta, spesso presente a livello locale, ad ostacolare insediamenti che gravino il rispettivo territorio degli oneri connessi (secondo il noto detto "not in my back-yard"), non può tradursi in un impedimento insormontabile alla realizzazione di impianti necessari per una corretta gestione del territorio e degli insediamenti al servizio di interessi di rilievo ultraregionale» (sentenza n. 62 del 2005).
La disposizione impugnata contrasta con la lettera p), comma 1, art. 195 e con le lettere n) e o), comma 1, dell’art. 196, del d.lgs. n. 152 del 2006.
Secondo queste disposizioni, spetta allo Stato «l'indicazione dei criteri generali relativi alle caratteristiche delle aree non idonee alla localizzazione degli impianti di smaltimento dei rifiuti» (articolo 195, comma 1, lettera p); nel rispetto di tali criteri generali, la Regione definisce i «criteri per l’individuazione, da parte delle province, delle aree non idonee alla localizzazione degli impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti» (art. 196, comma 1, lettera n); inoltre, la Regione determina i «criteri per l'individuazione dei luoghi o impianti idonei allo smaltimento […]» (art. 196, comma 1, lettera o), dovendo rispettare «i principi previsti dalla normativa vigente e dalla parte quarta del presente decreto, ivi compresi quelli di cui all'articolo 195 […]», sulla base di quanto indicato nella parte iniziale dello stesso art. 196, comma 1.
La disposizione impugnata, imponendo un divieto generale di realizzazione e utilizzo di determinati impianti su tutto il territorio regionale, non contiene un "criterio" né di localizzazione, né di idoneità degli impianti. Si tratta di un limite assoluto, che si traduce in una aprioristica determinazione dell'inidoneità di tutte le aree della Regione a ospitare i predetti impianti. Questa Corte, in altre materie come quella della localizzazione di impianti energetici, ha affermato il principio generale per cui la Regione «non può introdurre "limitazioni alla localizzazione", ben può somministrare "criteri di localizzazione", quand'anche formulati "in negativo", ovvero per mezzo della delimitazione di aree ben identificate, ove emergano interessi particolarmente pregnanti affidati alle cure del legislatore regionale, e purché ciò non determini l'impossibilità di una localizzazione alternativa» (sentenza n. 278 del 2010); del resto, «la generale esclusione di tutto il territorio […] esime dalla individuazione della ratio che presiede alla dichiarazione di inidoneità di specifiche tipologie di aree» (sentenza n. 224 del 2012); pertanto, alla Regione non può essere consentito, anche nelle more della definizione dei criteri statali, di porre limiti assoluti di edificabilità degli impianti (sentenza n. 192 del 2011).
Va quindi dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo unico della legge reg. Valle d'Aosta n. 33 del 2012, perché in contrasto con gli artt. 195, comma 1, lettere f) e p), e 196, comma 1, lettere n) e o), del d.lgs. n. 152 del 2006, con conseguente violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost."
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Non ho sfoltito i troppi riferimenti legislativi, ma credo che fosse utile per capire, visto che il "giuridichese" della Consulta non è troppo spinto.
Resta il fatto politico e cioè la determinazione maggioritaria dei valdostani attraverso lo strumento del referendum e questo, al di là di tutto, resta in tutta la sua validità e nessuno può giocare su questo per tornare su trattamenti a caldo.

Primarie al calor bianco

Cuperlo, Renzi e CivatiIl 2013 resterà nella storia della politica italiana come un anno di cambiamenti: basti pensare alle vicende del Centrodestra con il Popolo della Libertà trasformato in due partiti e l'uscita dal Senato di Silvio Berlusconi ed al dibattito interno nel Partito Democratico, che fra poche ore sortirà un nuovo segretario, dopo la sfortunata esperienza di Pierluigi Bersani.
In queste ore, seguo con interesse quel che sta capitando nel PD e che culminerà l'8 dicembre con il voto popolare per la scelta del nuovo segretario, con le evidenti implicazioni di una nuova guida per il Centrosinistra, che porterà il partito al voto per le politiche e alla successiva leadership del Governo, in caso di vittoria.
Leggo - e non mi stupisce - che ci potrebbe essere questa volta una certa stanchezza che potrebbe ridurre il numero dei votanti. Spiace dirlo, ma la logica delle "grandi intese", qualunque sia la chiave di lettura della sua nascita, del suo funzionamento e della sua fine, con l'uscita recente di Forza Italia dalla maggioranza, ha allontanato ulteriormente dalla politica. Io penso che il messaggio emergenziale, a giustificazione dei cani e dei gatti che si alleano, non sia passato e dunque un altro pezzettino di opinione pubblica si sia stufato. Per altro lo svolgimento delle "campagne elettorali" per le "Primarie" hanno una durata logorante in un'epoca in cui la rapidità conta.
Lo dico con l'interesse e la simpatia di chi per anni lavorato fianco a fianco, specie a Roma e Bruxelles, con pezzi che oggi compongono il PD.
Devo dire che, preso appunto atto delle "Primarie", come dato ormai acquisito e segnalato il coraggio del democratici nell'infilarsi di nuovo in questa storia, spiace ribadire che l'importazione in Italia dell'antica tradizione americana delle "Primarie" non mi ha mai convinto. Non si può prendere un pezzo di una diversa storia democratica e inserirla, come se nulla fosse, in un'Italia che avrebbe bisogno di una riforma complessiva delle istituzioni, compresi i partiti. Questa parzialità rende il meccanismo partecipativo imperfetto e lo si vede.
Ammiro - e ci pensavo guardando il dibattito di "Sky", ennesima sconfitta del servizio pubblico televisivo che non "osa" fare i confronti - la foga dei tre competitori: Matteo Renzi, Pippo Civati e Gianni Cuperlo (l'unico che conosco). Ma basta seguire i social media per vedere come questa competizione, che i tre si giocano con competenza e aplomb, scateni delle tifoserie assai partecipative e che guerreggiano non poco le une contro le altre con grande "vis polemica" e anche al limite del colpo basso. L'impressione, infatti, è che spesso la soglia del calor bianco venga superata e certe ferite resteranno chiunque vinca, perché è bene non raccontarsi balle sulla storia «poi, da domani, si lavorerà tutti assieme», dopo che sono volati insulti.
Le divisioni non agiscono, infatti, come nei sistemi americano e inglese su partiti che hanno una loro solidità e compattezza, ma anche il PD paga il prezzo di mettere assieme dei pezzi di un puzzle che - a differenza di tante aspettative - non si sono incastrati troppo bene e le "componenti" sono uscite con forza allo scoperto.
Vedremo cosa capiterà e se i rischi di divisione, di "fuoco amico" e di vendette saranno prevalenti o contenuti. Quest'ultimo caso, più che tanta retorica sulle grandi intese, sarebbe già un segno di stabilità.
E la stabilità, assieme ad un'azione di governo vera e coordinata (se penso ai pasticci sulla fiscalità mi monta la carogna), resta un bene prezioso, ma la stabilità reale non è un simulacro, come troppo spesso è avvenuto in questi mesi.

Geografi o costituzionalisti in erba?

Un dettaglio della cartina del riordino territorialeLa "Società Geografica italiana" continua nel suo giochino del "piccolo costituzionalista" e traccia, nei suoi studi, compreso quello più recente per il Governo Letta, nuovi scenari. Addirittura giungendo sino ad una relazione di una proposta di legge costituzionale (e l'articolato dov'è?) con diversi livelli di governo, che dovrebbero essere - speriamo mai! - propedeutica alla "Grande Riforma".
La partenza era lo studio del 1999, riutilizzato l'estate scorsa, quando la Valle d’Aosta risultava tout court soppressa a beneficio della nascita di una "Regione nuova" con un bizzarro accorpamento con le Province di Vercelli e Novara (si erano dimenticati che c'era - di mezzo - la Provincia di Biella, avendo forse una vecchia… carta geografica). Sfuggiva poi dove sarebbe stato il capoluogo, "centro di gravità permanente" di questa stranezza.
Ora la novità - dopo le vivaci reazioni dei valdostani - è che la Regione resta e questa è la buona notizia. Così viene motivata la scelta: «Seppure di debole armatura urbana, la morfologia, i caratteri culturali e linguistici, le potenzialità di ulteriore valorizzazione turistica ne sostengono l'identità. La regione costituisce un bacino naturale omogeneo e unitario sotto molteplici punti di vista e, nonostante una popolazione di poco superiore ai 120.000 abitanti e l'ipotesi di saldatura con la regione torinese, con la quale è connessa da un sistema infrastrutturale e gravitazionale, la sua già consolidata vocazione come importante "area libera" per la valorizzazione turistica e ambientale, consigliano di tenerla ai margini dagli assi portanti dei sistemi confinanti. Si tratta, infatti, di funzioni di interesse prioritario a livello nazionale».
Fantastica - avete letto? - la motivazione: restiamo Regione perché siamo «un interesse prioritario a livello nazionale». Verrebbe da dire che sfugge il valore storico e fondante della nostra autonomia e di quel termine "particolarismo", cui noi diamo una valenza positiva.
La cattiva notizia è una strana relazione, annessa allo studio, denominata appunto: "Revisione del Titolo V, Parte seconda della Costituzione" .
Cito qualche passaggio: "sul piano dell'assetto territoriale del Paese, risulta indispensabile ridisegnare gli attuali confini regionali, ripartendo il territorio repubblicano in 36 nuove regioni, individuate secondo criteri geografici, demografici, culturali, infrastrutturali e sociali. Si tratta di territori omogenei e pensati prescindendo dalle consolidate suddivisioni amministrative provinciali e regionali, idonei a diventare i centri propulsori di una nuova gestione amministrativa della cosa pubblica, oltre che strumenti per l'edificazione di un rinnovato patto di cittadinanza. Competitività,
sostenibilità ambientale e innovazione socio-culturale rappresentano i nuovi asset strategici su cui si fonda la proposta di riorganizzazione territoriale"
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E ora tenetevi forte: "Sotto altro versante, si vuole abolire ogni forma di specialità regionale, con la conseguente abrogazione dell'art. 116 della Costituzione. Le Regioni a Statuto speciale sono sorte infatti in ragione di particolari contingenze storiche e socio-culturali che oggi si ritengono oramai superate, non essendo più giustificabile una così diversa e privilegiata distribuzione delle risorse rispetto a quella che caratterizza le Regioni a Statuto ordinario".
Insomma, tutti uguali al ribasso, ma non basta. Eccoci ad altre proposte per fare "carne di porco" del regionalismo: "Ulteriore necessario intervento riguarda la distribuzione delle competenze legislative tra lo Stato e le Regioni. Sin dalla riforma realizzata con l. cost. n. 3 del 2001, la giurisprudenza costituzionale ha reso evidente lo scollamento esistente tra il testo costituzionale e la realtà concreta, come dimostra l'interpretazione fornita negli ultimi dieci anni all'art. 117 della Costituzione: questa norma, infatti, raffigura un insieme multiforme di materie dai confini incerti, quasi sempre allocate in capo allo Stato, con pochi e secondari ambiti di residualità riservati alle Regioni. Sì che la clausola da Stato federale - in un sistema che federale non è - contenuta nell'art. 117, co. 4, della Costituzione, è rimasta sostanzialmente un contenitore vuoto. Indubbiamente, già il testo della riforma del 2001 si mostrava di per sé carente: prova ne è che il giudice delle leggi abbia dovuto supplire alle lacune in esso presenti, invocando - quando in modo espresso, quando implicitamente (si pensi, ad esempio, alle competenze trasversali o alla chiamata in sussidiarietà) - quel limite di merito identificato con l'interesse nazionale, che era stato colpevolmente dimenticato dal legislatore costituzionale del 2001. In tale ottica, al fine di ridurre il contenzioso costituzionale e restituire coerenza al sistema, si è ritenuto opportuno rovesciare nuovamente il criterio della residualità, individuando - come accadeva nel previgente Titolo V - un insieme di materie di competenze concorrenti (sia pure più corposo che nel passato) e devolvendo le restanti materie alla competenza statale, fatta salva la possibilità di delega alle Regioni da parte dello Stato.
Accogliendo la nota "dottrina delle norme cedevoli", si è pensato di demandare alle leggi cornice statali la determinazione, oltre che dei principi fondamentali delle materie, anche della relativa normativa di dettaglio: i primi restano inderogabili dalle norme regionali; la seconda è invece cedevole e, pertanto, spiega la propria efficacia sino al momento in cui le Regioni non decidano di esercitare le proprie attribuzioni. In questo modo si intende risolvere l'annosa questione dei possibili vuoti normativi nei tessuti regionali, vuoti che si creerebbero qualora lo Stato si limitasse a fissare i principi fondamentali delle materie e le Regioni fossero inerti rispetto alla
predisposizione della necessaria normativa di dettaglio.
Si è poi ridefinito l'istituto del potere sostitutivo di cui all'articolo 120, secondo comma, della Costituzione…"
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Basta, basta, per favore! Raramente ho visto un concentrato così evidente di banalità, che poi nascondono un solo disegno: mortificare le autonomie regionali a vantaggio dello Stato imperante.
Lo si poteva dire in una frasetta e senza far lavorare apprendisti stregoni, costituzionalisti in erba.

Il "patriottismo costituzionale"

"Autonomia speciale valore comune". In un'espressione del genere mi riconosco. Da tempo sostengo la tesi del "patriottismo costituzionale" alla Jürgen Habermas.
La sostanza è questa: ci sono molte ragioni che possono portare a riconoscersi nelle idee e nei valori che fondano la comunità valdostana, intesi - se si vuole - come elementi prepolitici che creano il carattere specifico di una comunità. E il termine "Comunità" è oggi molto discusso, visto che spesso si parla del pensiero federalista e riformistico di Adriano Olivetti, sviluppatosi a due passi da noi, ad Ivrea.
Olivetti diceva e io ci vedo proprio la nostra Valle: «La nostra comunità dovrà essere concreta, visibile, tangibile, una comunità né troppo grande né troppo piccola, territorialmente definita, dotata di vasti poteri, che dia a tutte le attività quell'indispensabile coordinamento, quell'efficienza, quel rispetto della personalità umana, della cultura e dell'arte che la civiltà dell'uomo ha realizzato nei suoi luoghi migliori. Una comunità troppo piccola è incapace di permettere uno sviluppo sufficiente dell'uomo e della comunità stessa; all'opposto, le grandi metropoli nelle forme concentrate e monopolistiche atomizzano l'uomo e lo depersonalizzano: fra le due si trova l'optimum».

Il cortocircuito

Fili ingarbugliatiE' la prima volta, dopo 25 anni, che non mi trovo a che fare - pur nei diversi ruoli che ho ricoperto e dunque con differenti livelli di responsabilità e complessità - con una manovra finanziaria di cui occuparmi. Ne ho seguite a Roma, a Bruxelles e naturalmente ad Aosta e, pur se ci sono sempre state delle diversità tecniche e politiche, alla fine ci sono anche molte somiglianze.
Anche chi, come me, per vocazione culturale non è mai impazzito per cifre e tabelle, ha finito poi per appassionarsi. Ricordo come, con le prime vecchie Finanziarie statali, la lettura e la comprensione fossero una mostruosità, poi - entrato nei meccanismi - ero diventato svelto nel trovare i punti d'interesse e sapevo cosa fare. Avevo capito che il segreto era esserci: mai a Roma, in sessione finanziaria, mi sono allontanato dalla Commissione Bilancio, pur non essendone membro. Sia che la logica fosse difensiva, per evitare qualche sgambetto, sia che l'impegno fosse quello di aggiungere qualche norma utile. E' in alcune logoranti sedute notturne a Montecitorio che ho cominciato a bere il caffè che non avevo mai bevuto prima! A Bruxelles era tutto più felpato, mentre da Presidente, ad Aosta, avevo capito come montare e rimontare la Finanziaria regionale: esercizio istruttivo, specie se davvero basato sul confronto con Assessori e dirigenti.
Direi, però, che sin dall'inizio della mia esperienza e cioè la Finanziaria dello Stato del 1988, quando in apparenza le vacche erano "grasse", si era già in una fase in cui non mancava di certo la consapevolezza che l'espansione della spesa pubblica avrebbe creato dei mostri e che il peso crescente della fiscalità avrebbe ucciso contribuenti e economia.
Ma chi è al potere - e io ho combattuto l'andazzo quando ho avuto responsabilità - troppo spesso associava "finanza allegra" con consensi elettorali. E c'è sempre stato chi - e sono i peggiori - alla "manica larga" (Cicero pro domo sua, in vista del voto) aggiungeva una fame di denaro per una potenziale vocazione corruttiva.
"Tangentopoli" aveva scoperchiato la pentola per un momento, poi il coperchio è stato rimesso e certi maneggioni - sentendosi impuniti - sono tornati nel giro, contando sulla smemoratezza degli elettori e su tempi biblici della Giustizia, talvolta bendata come la dea Fortuna.
Con onestà bisogna dire che, nel tempo trascorso, chiudere bilanci pubblici non è stato facile e anzi, mano a mano, il ridursi delle entrate ha obbligato - per non dire della crisi che dura ormai da cinque anni - a metter mano alle forbici. Ma, come in tutto, c'è modo e modo.
La crisi presuppone non un consociativismo illogico, ma un gioco d'equilibri fra maggioranza e opposizione che consenta di trovare alcuni grandi temi da condividere. Ma questo dev'essere fattibile e in questo momento - nel caso valdostano - non è possibile, perché la solitudine di chi decide in proprio impedisce ogni forma di corresponsabilità già nella maggioranza di governo, figurarsi con l'opposizione.
Ma si tratta di una miopia, fondata oltretutto su di un'ambiguità di partenza, che finisce anche per essere il punto di arrivo: far credere che si è aperti alla discussione e non farlo realmente finisce per creare un clima di sfiducia e di "muro contro muro". E' una forma di antipolitica da parte della politica stessa.
Insomma: un cortocircuito.

Gli interrogativi sul teleriscaldamento

Il 'rendering' della centrale del teleriscaldamentoAosta, con la spinta decisiva e partecipe della Regione, punta sul teleriscaldamento. Era una questione di cui si parlava sin dai tempi in cui la fabbrica siderurgica "Cogne" aveva dimensioni ben più vaste. Da sempre un cavallo di battaglia del consigliere regionale Fidèle Borre, che citava, per sostenere il progetto, il caso di città - se ricordo bene Brescia - dove si otteneva un virtuoso riuso del calore prodotto per fabbricare l'acciaio.
Ricordo poi di aver sentito parlare in Europa di giganteschi impianti di teleriscaldamento in città dei Paesi ex comunisti, dove tutto era pianificato dal pubblico, che faceva e disfaceva a proprio piacimento. Ricordo anche, riguardo ad un Paese Baltico, la disperazione di una mia collega al "Comitato delle Regioni", che raccontava di come la privatizzazione degli impianti della sua grande città avesse creato un regime di monopolio, prezzi folli e una situazione di disagio con lo spegnimento degli impianti per le famiglie povere morose.
Ad Aosta della questione se ne parlava già ai miei tempi e confesso che non avevo avuto tempo di studiare il dossier, che mi ha in seguito - ai tempi attuali - incuriosito per la formula societaria prescelta con un matrimonio fra privati e pubblico, senza alcuna gara fatta dal Comune di Aosta per l'individuazione del soggetto. Mi è stato detto che non ci sono problemi procedurali e non si è avuta nessuna violazione del principio di concorrenza, che come noto riguarda anche il delicato capitolo degli aiuti di Stato (pubblici) diretti o indiretti. L'altro dubbio riguarda la centralità, come combustibile, del metano nell'operazione. Questo tipo di gas, che certo non va nel senso di un utilizzo di fonti di energia locali, ha avuto nel tempo un costo crescente e sappiamo che pesa sempre qualche rischio di approvvigionamento, visto che il grosso arriva dall'Algeria e dalla Russia e possono esserci turbolenze politiche o situazioni delicate nei rapporti internazionali che obblighino a riduzioni nell'uso e, in casi estremi potrebbero portare ad uno stop delle forniture. Questo vale non solo per questo nuovo impianto, ma per tutti quelli che adoperano il metanodotto.
Oggi il teleriscaldamento, che aveva avuto una certa notorietà, quando sembrava che si volesse realizzare una piccola metropolitana i cui cunicoli dovevano servire anche per i tubi del teleriscaldamento e quando uno stop dell'opera c'era stato per problemi di ricerca di finanziamenti, è ripartito di corsa. Anche se è venuto meno il possibile legame con il pirogassificatore, "bocciato" dai valdostani con referendum.
Se ho ben capito, ma spero di essere smentito, per ora a buttarsi a favore dell'operazione sono in particolare le tante utenze pubbliche sottoscritte, segno che il progetto piace e convince gli amministratori più che i cittadini. Se si guarda a molti casi in Italia per temo si sopiscano certi entusiasmi e non a caso l'Antitrust italiana si è occupata del settore del teleriscaldamento per capire se esistano o no rendite di posizione sui prezzi e se si verifichi il rischio di assenza di concorrenza.
Speriamo, dunque, che non sia un'operazione temeraria e che tra qualche anno non si scopra, per chi ha aderito con contratti, che i costi peseranno parecchio e che la via per tornare ad altri sistemi non sarebbe così banale. In più - memorizzate la circostanza - l'utente finale del sistema, una volta effettuato l'allacciamento, non ha di fatto la facoltà di cambiare fornitore, come capita, invece, in altri settore dell'energia, ma anche delle telecomunicazioni.
La scelta della Regione, "motore dell'economia" in Valle, anche - in questo caso - attraverso forme contrattualistiche, oltreché con partenariato con sue società, crea non poche perplessità in un'epoca di difficoltà economiche. Sarebbe stato non male tenere il profilo basso e usare le risorse energetiche del proprio territorio.
Il tempo, che è galantuomo, ci dirà - in attesa che il sistema complessivo del teleriscaldamento venga sottoposto a norme, per ora assenti in Italia, che diano maggiori certezze - se certe preoccupazioni, che sono diffuse e alimentate da persone ben più competenti di me (fra una settimana l'associazione "Energaia" propone una serata apposita), sono o no sbagliate.

La pernacchia presidenziale

Giorgio Napolitano durante lo scorso messaggio di fine annoSe fossi Giorgio Napolitano, che continuo personalmente a stimare anche se certi passaggi mi appaiono ostici da capire e temo siano avvenuti nel nome della scivolosa "ragion di Stato", terrei supersegreto il messaggio di fine anno, trasmesso di consueto dallo studio del Quirinale. Un palazzo che ho avuto l'onore di vedere in diverse circostanze e che ha sale e saloni che lasciano stupefatti. Da residenza papalina a residenza reale e poi infine - portandosi dietro una fama di Palazzo menagramo - sede della Presidenza della Repubblica.
Penso che, seduto alla sua bella scrivania, il nostro presidente ottantenne (tra poco saranno 89) dovrebbe scegliere due strade. La prima mi piacerebbe molto, ma so essere impossibile per quel suo tratto signorile e anglosassone. Si trarrebbe di una napoletanissima, come lui, pernacchia in diretta televisiva. Secondo lo "Zanichelli" di questo si tratta: "rumore volgare che esprime disprezzo e derisione, eseguito con la bocca o anche premendo le mani sulla bocca: fare una pernacchia a qualcuno; prendere qualcuno a pernacchie". Spiega il dizionario etimologico: "Il latino vernacŭli (pl.) è attestato col valore di "buffoni" nel latino di epoca imperiale, mentre la forma vernàcchio (oggi pernàcchio) è citata dal D'Ambra (394) da un testo napoletano del secolo XVI; per p- in luogo di v- Maccarrone cita alcuni esempi paralleli, ma in questo caso si può invocare l'accostamento al napoletano pérete scorreggia".
Forse la più famosa è la pernacchia di Totò nel film "I due marescialli", dove si esplicita questo tipo di sberleffo come il punto massimo di una contestazione rumorosa e non violenta.
Un'applicazione di questa definizione la ritroviamo nel film "L'oro di Napoli", nell'episodio conosciuto come "Il Professore". C'è Eduardo De Filippo che propone un distinguo tra pernacchia e pernacchio: il vero strumento di offesa sarebbe proprio il pernacchio; la prima, la pernacchia, sarebbe, invece, una forma decadente e di scarsa qualità, un parente povero del grande pernacchio, distinguibile in "di petto" e "di testa" ed Eduardo ne dà dimostrazione.
Ma questo, come dicevo, non avverrà. Allora c'è un "piano B", la seconda strada della premessa: che il Presidente Napolitano dica tutto, con la sua prosa asciutta e magari buttando via i fogli, visto che sa andare perfettamente "a braccio". Dica che in questa storia di farsi rieleggere alla Presidenza, in nome della "Stabilità", c'era stato un ampio consenso e tanti accordi pian piano traditi come lo sfogliare una margherita petalo dopo petalo. Alla fine, il Capo dello Stato ha dovuto - troppe volte - metterci la faccia e far pesare la sua credibilità, che ha perso inevitabilmente per strada dei pezzi. Oggi è venuto il momento, senza pietà, di dire nomi e cognomi di chi ha fatto cose diverse da quelle concordate e sbatta la porta, andandosene dal Quirinale, lasciando una breve comunicazione: «Accà nisciuno è fesso», accompagnata dal decreto di scioglimento delle Camere.

La fine di Bossi

Umberto Bossi e Matteo SalviniMatteo Salvini, classe 1973, da ieri è il nuovo segretario della Lega. Sconfigge, con un risultato nettissimo (l'82 per cento dei voti), il vecchio leader Umberto Bossi, che esce di scena malamente, pieno di rabbia e rancori, mentre la Magistratura sta chiudendo il cerchio sulle ruberie in cui in primo piano ci sono, tra gli altri, i due figli più grandi del Senatùr.
Posso dire di aver visto larga parte della parabola della vita politica di quest'uomo: dalla sua rapida ascesa nell'agone della politica italiana sino a questa sua vertiginosa caduta, che segna una fine ingloriosa.
Quando Salvini nasceva, Bossi era un trentenne che militava nell'estrema sinistra e si arrabattava con diversi lavori. Nel 1979, anno delle prime elezioni europee a suffragio universale, incontrò per caso l'esponente unionista, Bruno Salvadori, più giovane di lui di un solo anno e che era in quel momento consigliere regionale dell'Union Valdôtaine. Salvadori, che morirà prematuramente un anno dopo in un incidente stradale, era un autonomista di nuova generazione, che aveva aperto un filone di pensiero originale nel Mouvement. In quel momento era impegnato nel difficile cammino, non avendo avuto la Valle d'Aosta un seggio garantito al Parlamento europeo, di unire sotto la bandiera del suo movimento politico partiti alleati in tutta Italia per ottenere l'ultimo resto. Nasce un'amicizia e per Bossi scatta un'idea: portare in Lombardia le idee federaliste.
Da lì inizia il suo cammino. Io conosco Bossi nel 1987 in Parlamento, quando, unico eletto della Lega Lombarda al Senato, diventa per tutti il Senatùr. Ruspante e rampante, gigione e furbo, svelto e tattico, "sfonda", negli anni successivi, con il suo movimento, e inizia anche la sua ascesa personale di leader unico.
Io mantengo per anni rapporti cordiali, partecipando anche a manifestazioni della Lega, visto questo legame con l'UV nel ricordo del ruolo di Salvadori. Poi la Lega arriva, inattesa anche, in Valle d'Aosta, rompendo un tabù e Bossi mi ha sempre detto che questo avvenne malgrado la sua opposizione. Nel frattempo si monta la testa e si esaurisce la sua vena innovativa. L'abbraccio mortale con l'odiato e amato Silvio Berlusconi fa della Lega un partito, in contraddizione, perché cerca l'equilibrio impossibile di essere in contemporanea di lotta e di governo, allontanando pian piano l'entusiasta base elettorale e mostrando come il decantato federalismo fosse solo una bolla di sapone. "Roma ladrona" diventa - in negativo - "Roma doma", come dimostra un imbarazzante "poltronismo" nei gangli del sottogoverno. Lo aveva capito il grande politologo Gianfranco Miglio, che conobbi bene ai tempi della Bicamerale, consapevole come la Lega avesse tradito il sogno federalista e per questo - uno dei segni di un'involuzione autoritaria della leadership bossiana - fu insultato e umiliato proprio dal leader con quella volgarità ormai segno distintivo.
Nel 2004 un ictus, su cui si sono fatti molti pettegolezzi, lascia Bossi gravemente offeso con un'emiparesi. Poi, botta conclusiva, la vicenda giudiziaria, cui accennavo, sulle spese folli della sua famiglia.
Bossi esce di scena, questa volta per scelta dei leghisti stessi. E' un viale del tramonto drammatico, che colpisce sotto il profilo umano, ma purtroppo sul piano politico è un giudizio senza appello.
Arriva Salvini e vedremo cosa farà. Cavalca un antieuropeismo confuso e un populismo ad effetto, che si allontana ancora di più - con una netta virata verso destra - dal filone federalista, ormai esaurito da tempo, che avrebbe dovuto essere percorso per coerenza con le origini.
Vedremo come questo si concilierà con il lavoro dei presidenti di Regione di Lombardia, Veneto e Piemonte, ultima roccaforte del leghismo in crisi.

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