December 2013

La vittoria di Renzi nel PD

Matteo RenziIl Partito Democratico ha vinto la sfida delle Primarie e vince anche Matteo Renzi, dimostrazione che la politica può essere dinamica.
Il sindaco di Firenze "scala" in modo netto la Segreteria del partito, pensando già, come è giusto che sia, alla Presidenza del Consiglio. Su questo è inutile fare le verginelle e fare distinguo, perché il ferro va battuto sinché è caldo. E dunque - proprio per questo - direi che si avvicinano le elezioni politiche e tra qualche giorno la prospettiva sarà chiara. Resta naturalmente su questo il babau del semestre italiano della Presidenza europea e bisognerà capire anche a che gioco vorrà giocare Enrico Letta.
Ma riprendiamo da capo: la partecipazione al voto è stata molto elevata, direi persino inattesa, ma anche il segno, da una parte, di una "voglia di Renzi", ma anche, all'opposto, esito di una lotta interna fra i candidati che ha scaldato (talvolta surriscaldato) la competizione con un secondo posto per Gianni Cuperlo e un terzo per Pippo Civati.
In Valle d'Aosta, dove la gran parte del gruppo dirigente del PD e la stessa visibilità locale sul Web era tutta per i supporter di Civati, ha stravinto Renzi, dimostrazione che chi vince sui social media non vince, almeno per ora, nella realtà.
Si tratta per il PD e per l'Italia di una svolta questo è chiaro, anche se i sondaggi - per quel che valgono - avevano sinora mostrato una tenuta di Silvio Berlusconi e di Forza Italia e una soglia di sopravvivenza parlamentare per il nuovo partito di Angelino Alfano.
Nei giorni a venire si vedrà.

Messaggi dal passato

Il libretto di zio Séverin del 1954Ho sempre avuto un rapporto di collaborazione con il "Savt - Syndicat autonome travailleurs valdôtains", di cui ho seguito anche alla fine degli anni Ottanta il riconoscimento giuridico, con norma di attuazione dello Statuto (articolo 6 del Decreto legislativo 28 dicembre 1989, numero 430), ma poi l'applicazione è stata osteggiata, periodicamente, da qualche apparato dello Stato. Aggiungo che, per amicizia, ho prestato per anni la mia firma come direttore responsabile del loro giornale.
Ora il sindacato valdostano ha pubblicato il secondo numero di un quaderno di approfondimenti, riportante in questa occasione delle riflessioni sul federalismo. Nel testo viene riportata la copia anastatica di una piccola pubblicazione del 1954 di mio zio Séverin Caveri, allora 46enne e leader indiscusso dell'Union Valdôtaine. All'epoca, senza radio, televisione e social media venivano editati questi libriccini per diffondere i discorsi pronunciati. In questo caso. si trattava di un intervento pronunciato in occasione della Festa del Lavoro e pieno di riferimenti all'incandescente vita politica di quegli anni, che vedeva protagonisti di elevato livello di una politica che, in parte, non era ossessionata dalla ricerca del consenso elettorale, considerava l'onestà personale un valore e godeva di un bagaglio culturale invidiabile.
Qualche passaggio torna da quel passato con una freschezza utile per la situazione attuale. Penso alla discussione sul ruolo delle Assemblee elettive, oggi vituperate nel nome del "solista", laddove il mio rimpianto zio scriveva: «Bisogna fare in modo che la democrazia politica sia sempre più irrobustita, bisogna rafforzare sempre più gli organi della volontà popolare: il Parlamento, i Consigli Regionali, i Consigli comunali. Bisogna che questa democrazia politica non sia soltanto un "décor de théâtre", uno scenario, non sia soltanto un nome vano, una forma, bisogna che sia sempre più concreta, sempre più efficace, sempre più positiva».
Poi, in un altro passaggio Séverin esamina i problemi dell'azienda siderurgica "Cogne" e fa venire i brividi per certe assonanze con la situazione odierna e la stesso vale per la crisi dell'agricoltura. Ammoniva Caveri: «Nous ne voulons pas que les travailleurs valdôtains doivent reprendre leurs baluchons et traverser la frontière, à la recherche d'un morceau de pain, nous voulons qu'il trouvent leur pain, une vie digne et libre dans leur pays, dans leur Vallée». Oggi, per chi ha un curriculum di studi particolarmente valido, questa emigrazione, non per scelta ma per necessità, rischia di diventare la regola.
Si alternano nell'intervento richiami concreti ai problemi amministrativi, forti polemiche politiche, ma anche lo spessore culturale, profondo e competente, di chi - e questo è un bel distinguo in politica - non ha bisogno di "spin doctor" (chi cura l'immagine e la comunicazione di un personaggio pubblico) o di "ghost writer" (chi scrive interventi o articoli per conto di un'altra persona).
E' interessante concludere con un richiamo alla democrazia comunale, oggi minacciata da chi in Valle - nel nome di quella stessa logica di tagli che fa gridare contro Roma! - vorrebbe profittare della circostanza per ridurre ad una dozzina i Comuni della Valle, mantenendo gli altri - senza poteri - solo come lapidi alla memoria di un cimitero.
Séverin Caveri affermava: «Se sia accetta che il nostro popolo sia capace di governarsi da sé, non si può dissentire da tutti i vecchi scrittori, di cento anni or sono ed anche più oltre, che vedevano nel governo dell'ente locale la grande scuola di democrazia, la formazione della classe politica, la via per trarre il popolo ad appassionarsi della cosa pubblica, cominciando a guardare a ciò che seguiva alla porta di casa per guardare sempre più lontano».
Anche questo è spirito federalista. Peccato che Séverin sia stato dimenticato ingiustamente, pur essendo stato un protagonista e una pietra angolare della storia dell'autonomia.

Il conto alla rovescia per il Natale

Giuro che non mi farò troppo assorbire dalle vicende natalizie per non compartecipare ad una montagna di retorica e soprattutto di bulimia commerciale che rischia già di schiacciarci, come ben dimostrabile accendendo a casaccio la televisione.
Ma non si può neanche far finta di niente e fare di ogni erba un fascio con una logica di fronda al Natale, che sarebbe uno snobismo fuori luogo.
In questi giorni, poche storie, siamo all'ultimo chilometro e parlare del Natale vuol dire solo guardarsi attorno e prendere atto della sua forza attrattiva.

I ... di sospensione

Beppe SevergniniLeggo sempre volentieri il giornalista e scrittore Beppe Severgnini, che tra l'altro scrive molto bene e, tempo fa, si era intrattenuto sulla punteggiatura e la sua importanza e il suo degrado nell'uso corrente. Trovo eccellente la sua analisi sul dilagare dei punti di sospensione, usati senza attenersi alle elementari regole della grammatica.
Leggiamo il suo pensiero: «Chi sono, i Puntinisti? Donne e uomini pigri, che non hanno la costanza e il coraggio di finire un ragionamento. Le loro frasi galleggiano nell'acqua come le ninfee di Monet ("Caro Severgnini... come dirlo? Mio marito Puccio la detesta... Lei ha troppi capelli! Ieri... non ci crederà... ha tirato un suo libro al nostro vicino, lamentandosi che non fosse... un'edizione rilegata..."). Raramente questa overdose di puntini esprime un pensiero compiuto. Accompagna invece mezze ammissioni, spunti, sospetti, accenni, piccole vigliaccherie (non ho il coraggio di dire qualcosa, e alludo).
Credo che la moderna mania puntinista - un morbillo, ormai - abbia una doppia origine: biografica (per i figli degli '50 e '60) e tecnologica (per chi è nato dopo)»
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Il primo caso, secondo Severgnini, riguarda la mia generazione, che scriveva ancora le lettere, talvolta con velleità letterarie degne di miglior causa e già in queste - per un'idea di un romanticismo languido - abusava dei puntini di sospensione.
E i giovani? Dice Severgnini: «I connazionali più giovani, invece, sono stati traviati dalla tastiera del computer. Basta tener pigiato il tasto del punto (.) e i puntini partono come una raffica di mitragliatrice (................). Sono tanti, facili, rapidi, pericolosi: bisogna schivarli, o si rischia. Quando ricevo una email iperpunteggiata, so che l'ha scritta un ventenne ("Egregio dott. Beppe...... ho aspettato tanto a scriverLe.... Avrei.... desiderio... di intraprendere.... come dire..... la carriera giornalistica, ma al momento mi dedico soprattutto...... alla collezione di tappi di bottiglia."). Che dovrei rispondere? Di continuare coi tappi, probabilmente. Sono più colorati e meno pericolosi dei puntini. E nelle email, per adesso, non entrano (neppure come allegati)».
Mi inchino, condivido e ricordo, da "Treccani": "I puntini di sospensione si usano per segnalare che il discorso viene sospeso, in genere per imbarazzo, per titubanza o per allusività: Non dovrei essere io a dirtelo, però secondo me… Poi è arrivato Andrea e… lasciamo perdere… Rosso di sera, bel tempo…
Devono essere sempre tre e, nella maggior parte dei casi, si attaccano alla parola che li precede e sono seguiti da uno spazio, a meno che il carattere successivo non sia una parentesi di chiusura o un punto interrogativo. Quando sono in fine di frase, la frase successiva inizia con la lettera maiuscola.
Sono utilizzati anche: per riprodurre l’andamento spezzato e ricco di pause della lingua parlata: Io… ecco… vorrei dire due parole; per dare l'idea di un discorso che riprende un discorso precedente (in questo caso precedono l’inizio del testo) o che è destinato a continuare (in questo caso seguono la fine del testo): Amore perdonami… ho visto solo ora la tua chiamata. Ultimamente ho problemi con la linea telefonica. Se posso fare qualche cosa… Bacio grande (testo di un sms); per preparare chi legge a una battuta o a un gioco di parole: quando si parla di metano, le riserve sotto terra contano ma conta di più la capacità di estrarle e portarle ai paesi consumatori, impresa non facile dal momento che il gas è… gassoso ("Corriere della Sera"); per segnalare, inoltre, l'abbreviazione di parole che, pronunciate per intero, risulterebbero volgari. In questo caso i puntini precedono o seguono una parte della parola censurata: Cioè hai capito io gli ho detto se mi stai a fare il c… vaff… se no non ti chiamo più ("La Repubblica", trascrizione di una intercettazione); nelle citazioni dei testi, per segnalare l’omissione di una o più parti. In questi casi, vengono di solito posti tra parentesi quadre: Tra le cose più preziose possedute da Andrea Sperelli era una coperta di seta fina, d’un colore azzurro disfatto, intorno a cui giravano i dodici segni dello Zodiaco in ricamo, con le denominazioni […] a caratteri gotici (Gabriele D'Annunzio, Il piacere)"
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Nulla da aggiungere...

Essere montagna

Il logo della 'Giornata internazionale della montagna'Capisco che le giornate internazionali ed europee sono diventate come il prezzemolo, anche se periodicamente le metto lo stesso nei miei Tweet qui a fianco, perché fanno pensare per un attimo ad un certo argomento.
Ma oggi, un po' più per esteso, non posso non occuparmi dell'odierna "Giornata internazionale della montagna", nata nel filone di quanto deciso nel 1992, quando ci fu l'adozione del capitolo 13 dell'Agenda 21 "Managing fragile ecosystems: Sustainable mountain development", in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite sull'ambiente e lo sviluppo, pietra miliare nell'attenzione per le montagne del mondo.
E' stata poi l'Assemblea generale delle Nazioni Unite a dichiarare il 2002 "Anno internazionale delle montagne", quando ebbi l'onore di presiedere il Comitato italiano. In quell'anno l’Assemblea generale dell'ONU aveva designato l'11 dicembre di ogni anno, a partire dal 2003, quale "Giornata internazionale della montagna".
Mi fa piacere ricordarlo con gioia e con mestizia. La gioia sta nel riflettere sul fatto che la Valle d'Aosta è una Regione di montagna per conformazione geografica, evidente nella sua orografia. Questa è una caratteristica esemplare che si è riflessa in tutta la storia della nostra comunità e nella stratificazione culturale conseguente. E' naturale, dunque, che le nostre istituzioni e il patrimonio giuridico proprio siano il riflesso della montagna in cui siamo immersi. E' una dimensione che ci pone in connessione con diversi livelli. Il primo è la prossimità con i territori montani attigui, cui la profondità di comunanza non può essere scalfita dalle frontiere rigide per un certo periodo di tempo, destinate sempre più ad ammorbidirsi fino all'agognata scomparsa definitiva. Il secondo è il vasto territorio alpino, di cui siamo una porzione, in una logica di forte continuità e grandi somiglianze. Vi è poi il ponte evidente, in una logica statuale, con le altre montagne italiane e la dimensione europea, specie pensando al peso crescente della legislazione comunitaria. Infine vi è il mondo e tutti i popoli di montagna, che compongono un interessante mosaico e dovrebbero essere i primi protagonisti della giornata a loro dedicata.
La mestizia: per alcuni anni la Valle d'Aosta è stata compartecipe al dibattito in Italia e in Europa sull'argomento, dando un contributo anche al confronto più vasto gestito dalla "Fao", l'organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura.
Oggi resta poco cosa, direi un segnaposto messo ogni tanto in qualche tavolo: un vero peccato non "ad personam", verso chi come me ha speso molte energie, ma verso un ruolo che, pur piccoli come siamo, sarebbe stato interessante continuare a giocare.
Così non è, purtroppo.

Settant'anni fa...

Primo LeviYves Francisco, che è stato partigiano, è oggi un arzillo novantenne. Da ragazzo fu testimone di un arresto importante, avvenuto settant'anni fa come domani, 13 dicembre, e me lo ha raccontato più di una volta. E' una testimonianza di chi ha visto l'incrociarsi della storia personale con la grande Storia di Primo Levi, divenuto poi testimone e impareggiabile narratore del dramma della Shoah, morto suicida nell'aprile del 1987.
Esemplare è ricordare oggi una sua speranza: «In questa nostra epoca fragorosa e cartacea, piena di propaganda aperta e di suggestioni occulte, di retorica macchinale, di compromessi, di scandali e di stanchezza, la voce della verità, anziché perdersi, acquista un timbro nuovo, un risalto più nitido».
Ma torniamo al suo arresto. «Quella notte ho sentito dei cani ululare e mi sono alzata una volta o due: perché questi cani ululavano nella valle? Poi ho sentito dei rumori. Siccome avevo in tasca dei foglietti del "Partito d'azione Giustizia e libertà", sono corsa in un bagno per buttarli via e ho visto che la casa era circondata ormai dai fascisti... Quando ci hanno preso, abbiamo detto "non siamo partigiani", perché all’inizio di quel mese era uscita la legge che condannava i partigiani a essere passati per le armi subito».
E' la psicoanalista Luciana Nissim Momigliano che ha lasciato questo ricordo del 13 dicembre 1943, quando a causa di una spia fu fatta prigioniera in un alberghetto della zia di Francisco, situato al Col de Joux, esattamente nel villaggio di Amay di Saint-Vincent, insieme con altri quattro antifascisti ebrei: Primo Levi, Vanda Maestro, Guido Bachi, Aldo Piacenza.
Primo Levi comincio da lì, con la breve esperienza in una scalcinata e presto scoperta banda partigiana, la sua avventura, che ne fece una delle voci più chiare, attraverso i suoi libri, delle tragedie dell'Olocausto. Dopo l'interrogatorio nella caserma "Cesare Battisti" ad Aosta, venne trasferito nel campo di transito di Fossoli a Carpi in provincia di Modena. Il 22 febbraio 1944, Levi ed altri 650 ebrei vengono stipati su un treno merci e destinati al campo di concentramento di Auschwitz in Polonia. Levi fu qui registrato (con il numero 174 517) e subito condotto al campo di Buna-Monowitz, allora conosciuto come "Auschwitz III", dove rimase fino alla liberazione avvenuta da parte dell'Armata Rossa. Fu uno dei venti sopravvissuti di quelli che erano arrivati con lui al campo di sterminio.
Questo periodo della sua vita è stato al centro dei suoi libri e della sua stessa esistenza, finita - non a caso - nel gesto estremo di un volo nella tromba delle scale, come inseguito da fantasmi dell'orrore del ricordo.
In questo mesi, per un libro di Sergio Luzzato, si è detto che uno di questi fantasmi sarebbe stato l'uccisione, con un'esecuzione avvenuta tre giorni prima del suo arresto, di due giovani partigiani, accusati di aver rubato dei beni agli agricoltori della zona.
Yves Francisco nega che Levi fosse là quando il fatto avvenne. Ma, in fondo, comunque sia, non cambia la sostanza delle cose, in un'epoca in cui il dolore e la violenza erano compagni di strada. Anche per chi combatteva dalla parte giusta.
Per i ragazzini che, anche in Valle d'Aosta giocano con il neofascismo, come fa una parte di quelli dei "Forconi", basti questo pensiero di Levi: «Ogni tempo ha il suo fascismo. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col terrore dell'intimidazione poliziesca, ma anche negando e distorcendo l'informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti sottili modi la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l'ordine».
E' bene rifletterci.

Sui "Forconi"

Danilo CalvaniHo sempre cercato di non vivere in una "bolla", dentro un'esclusiva dimensione politica, che mi isolasse in qualche modo dal mondo reale. Che è poi uno dei rimproveri a quella che - ed è già tutto un programma - viene chiamata "la Casta".
E', invece, una "conditio sine qua non" quella di capire e di condividere i problemi dei cittadini nel corso dei mandati elettivi, altrimenti sarebbe impossibile la soluzione dei temi concreti, nel momento in cui viene meno la comunanza con chi ti ha chiamato a rivestire un certo ruolo. Personalmente, come antidoto al veleno dell'isolamento, che ti fa appunto perdere il contatto con il mondo, avevo un ricordo divertito di come mio zio Séverin polemizzasse nel dopoguerra con Vittorino Bondaz, suo avversario nella politica valdostana, accusato di interpretare la Presidenza della Regione come se stesse chiuso in una "turris eburnea" (torre d'avorio), avulsa dalla società e dai problemi del popolo valdostano. Séverin conosceva palmo a palmo la Valle e le questioni da affrontare e lo faceva senza snobismo, ma senza neppure il suo contrario - com'è poi avvenuto nel tempi successivi - e cioè un ruolo istituzionale reso "popolaresco" in una logica populistica da cantina e da pacche sulle spalle, ammorbata in più dai terribili veleni del clientelismo. La logica, in questo caso, è di trasformare i diritti del cittadino nei piaceri concessi ad un suddito.
Ci riflettevo pensando ai famosi "Forconi", che raccolgono fra i miei amici dissensi e consensi. Personalmente credo che certe simpatie derivino da uno stato di disagio e di arrabbiatura, che è un fatto oggettivo e comprensibile. Le cose vanno male e ogni valvola di sfogo sembra una soluzione. Giorni fa, in Consiglio regionale, il sanguigno consigliere dell'Union Valdôtaine Progressiste, Vincent Grosjean, aveva ipotizzato, prima che riesplodessero i "Forconi all'italiana", un movimento di "Forconi" autoctoni come ribellione al malgoverno locale. Credo che abbia ragioni da vendere e che il Governo Rollandin abbia esaurito quello che gli americani chiamano il periodo di "honeymoon", cioè il periodo di "luna di miele", che l'opinione pubblica consente agli eletti e alle maggioranze di governo nel post elezioni. Idem in Italia dove, al già innaturale Governo Letta delle larghe intese, è succeduto un di fatto "Letta bis" egualmente incomprensibile in un periodo di crisi, che rende difficile una logica di governo con il bilancino.
Ma, quando guardo i leader dei "Forconi", resto stranito: da Danilo Calvani, contadino di Pontinia, in provincia di Latina a Lucio Chiavegato, indipendentista veneto contro "Equitalia", passando per Augusto Zaccardelli, camionista già ultrà della Lazio. Un mio amico, con cui discutevo del fenomeno dei "Forconi", così mi ha scritto con un sms: «Abbiamo fascisti, grillini, Grillo, Berlusconi, gente che vuole bruciare i libri, la Santanché, rincoglioniti generici, quelli dello "Zoo" di 105, Fabrizio Bracconieri il "rosso" di Forum, Flavia Vento, Fausto Leali. Credo di averli detti tutti».
Penso che, accanto a questi e con la curiosità di scoprire chi ordini e paghi i manifesti e volantini (il "fil rouge" più interessante!), ci sia anche un "popolo" di persone in buona fede, che si è messo a rimorchio degli organizzatori, il cui disegno distruttivo è chiaro, lo è meno il passaggio dalla protesta alla proposta, cioè l'indispensabile parte costruttiva, che non può mai fondarsi su forme di violenza.
Insomma: sono uno spettatore scettico degli avvenimenti in Italia, ma certe patologie e storture, pur da affrontare con cure ben diverse (e in Valle d'Aosta il progetto alternativo c'è), ci sono davvero.

Quando mangiare è "social"

Diego Crestani e Roberto BeltramoI valdostani della bassa Valle, cui appartengo, pur essendo anche un po' aostano, visto che i Caveri "valdostanizzati" si sono installati ad Aosta ormai da un secolo mezzo, sentono forte l'influsso del vicino Piemonte. Ed è il caso del tema ameno di oggi: quando uno ne ha scatole piene delle vicende dell'Italia di oggi, può cercare soccorso a tavola.
Fatemi partire da distante, esattamente dalle terre occitane e dal libro tratto dal libro "L'Acciuga nel Piatto" di Diego Crestani e Roberto Beltramo, edito da "I Libri della Bussola". Eccone un brano: "Ci fu un tempo, ormai ignoto ai più e da molti dimenticato, in cui gli abitanti delle valli alpine, nella brutta stagione, erano costretti ad abbandonare la loro casa per andare a cercare una fonte di guadagno altrove. Era un'emigrazione che sovente non puntava ad aumentare le ricchezze della famiglia, ma semplicemente a non gravare sul consumo delle magre risorse disponibili. Si partiva ancora bambini e ognuno s'ingegnava a trovare un lavoro, magari un mestiere peculiare; alcuni si affidavano alla forza fisica, altri all'ingegno e all'intraprendenza. Gli acciugai ("anchoiers" in occitano, "anciuè" in piemontese, "anciuat" in lombardo) della Valle Maira…, a fine estate, terminati i lavori nei campi, scendevano al piano per vendere acciughe e pesce conservato".
Ma perché nasce questo commercio? Dicono i due autori: "I più ritengono che tutto abbia avuto origine dal commercio del sale, sul quale gravavano alti dazi: qualche furbacchione pensò di riempire in parte una botte di sale ponendovi sopra, per occultarlo agli occhi dei gabellieri, uno strato di acciughe salate. Allo scoprire poi che la vendita di quelle acciughe procurava ugualmente un buon guadagno, si dedicò al nuovo commercio meno rischioso...".
Chiaro di che cosa parlo? Il giornalista Roberto Fiori ha pubblicato un bellissimo articolo su "La Stampa", che parte dal presente: "E' senza dubbio un piatto "social". Esalta la convivialità e, per quanto sia definito povero, è invece ricco di umanità e storia, gusto e passione. Chi lo mangia partecipa a una tradizione collettiva molto antica e molto piemontese, senza temere poi l'afrore dell'aglio che, inevitabilmente, per almeno 24 ore terrà a debita distanza chi non avrà condiviso il piacere di questo rito gastronomico che sta agli antipodi della nouvelle cuisine".
Ormai il tema è evidente e la sintesi del collega del quotidiano piemontese è perfetta: "Stiamo parlando della Bagna Cauda, o "Caôda" per i puristi della grammatica piemontese. Una ricetta semplice e gagliarda, che partendo da una semplice salsa calda di aglio, olio e acciughe in cui si intingono le verdure crude autunnali come peperone, cardo bianco, cavolo e topinambur, si dilata fino a svelare un "sistema gastronomico" che coinvolge la cultura conviviale e le strutture portanti dell’alimentazione quotidiana contadina".
Io questo piatto prelibato lo gusto, con la giusta moderazione, nel cuore dell'inverno, tipo ieri sera, quel giorno di Santa Lucia un tempo "giorno più corto che ci sia". Oggi, a differenza di ieri sera e per quanto si trattasse di una versione non troppo perniciosa, limito la mia socialità per rispetto per il prossimo...

Le piccole, grandi cose

Alexis,versione pirata, compie tre anni, festeggiato dai suoi fratelli, Eugénie e LaurentAnche oggi sciopero, rispetto alla realtà quotidiana e alle brutte notizie, dedicandomi - in un'astrazione rispetto ai molti spunti possibili - ad un quadro intimista e familiare. Sarà che in questo periodo la situazione complessiva mi preoccupa per la sua gravità e mi snerva l'atteggiamento di chi dovrebbe occuparsene e perciò trovo un elemento di decompressione nel pensare alle piccole cose.
Chi abbia letto Guido Gozzano (o lo abbia studiato, come ha fatto la valdostana Chantal Vuillermoz, cui si deve un bel libro sui soggiorni valdostani e trasmissioni televisive nello stesso solco sul poeta torinese) sa quanto dietro alle "piccole cose" possa nascondersi qualche elemento - lo spero - di ironia e anche di nostalgia. Prendersi sempre e solo sul serio è tristissimo e bisognerebbe avere una specie di allarme che ci avverta, di tanto in tanto, sulla necessità di fare il punto per evitare il rischio di dimenticare la centralità degli affetti e ci consenta di ricordare come anche i massimi sistemi siano poi saldati, nella nostra vita, ad una catena di "piccole cose".
Eccoci al punto: si entra in un lungo periodo di compleanni: il 16 tocca ad Alexis (festeggiato ieri), il 25 a me e il 28 è il momento del primogenito Laurent.
Questo ingorgo di anniversari, racchiusi in una dozzina di giorni, è come un segno del destino beffardo: essere nati a fine anno (trovarsi, dunque, il più piccolo a scuola) segna il destino di un Natale che attrae tutto e svuota il resto.
Il compleanno varia, per altro, a seconda dell'età. Di quelli più profondi nell'infanzia non ho gran ricordi, se non la confusione derivante dalla grande festività del Natale, con i suoi annessi e connessi, e il mio compleanno che cascava in mezzo ai festeggiamenti. Non capivo di certo bene quanto l'incrocio fosse eccentrico.
Certo - inutile raccontarsi delle storie - i compleanni sono come dei vestiti che si adeguano a ciascuna età. Per quanto la vita sia imprevedibile e dunque non si sa mai quando la spina si stacchi, è vero che quando si avanza con gli anni l'esistenza è davvero come la sabbia che fugge scorrendo in una clessidra.
Ma questo, in fondo, è una specie di stimolo a non sprecare nulla. Giorni fa, ma gli esempi potrebbero purtroppo moltiplicarsi, ho sentito un amico in cura per una brutta malattia: ho colto in lui la stanchezza, lo scoramento e anche la paura. Sono occasioni in cui si riconsiderano le proprie priorità e una festa di compleanno la guardi con occhi diversi.

Quante rivoluzioni!

La presa della Bastiglia in una stampa d'epoca«Stai attento alle tue parole!». Può capitare, in una discussione concitata, di sentire una frase di questo genere. E' un ammonimento che dovrebbe essere sempre nella nostra mente, perché le parole - anche in condizioni di calma piatta - vanno soppesate.
Mai come in questo momento noto, da troppe parti, un uso sbagliato o disattento della parola "rivoluzione". C'è una rubrica sul sito di "Rai Educational" a cura di Stefano Gensini e Giancarlo Schirru, che con grande perizia scava nelle parole. Di "rivoluzione" dicono: «Rivoluzione, formatosi dall'accusativo latino revolutionem, ha due significati prevalenti, uno fisico e l'altro politico.
In fisica, il termine indica il movimento circolare di un corpo intorno a un altro corpo, mentre nel linguaggio storico-politico si riferisce al mutamento profondo e rapido di una situazione politica, sociale, economica, culturale»
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Ma ecco come i termini si evolvono: «Soltanto il primo dei due significati era già presente nel latino tardo revolutionem, da cui deriva, per via colta, la forma italiana. Ma già nel toscano del Trecento è possibile riscontrare un uso politico del termine, accompagnato da una sfumatura negativa, quando si allude al cambiamento violento dell'assetto istituzionale, generalmente contrassegnato da disordini e dall'esilio degli esponenti della parte sconfitta. Occorre però attendere il Diciassettesimo secolo perché l'uso del termine assuma una fisionomia simile a quella moderna. Innanzitutto in astronomia si precisa con Galileo il significato di movimento dei pianeti attorno alle stelle fisse, accompagnato dal movimento di rotazione dei corpi celesti sul proprio asse. In politica invece, soprattutto in Francia, la parola rivoluzione inizia ad indicare un processo rapido e violento di mutamento del potere provocato dalla spinta di un popolo che non si sente rappresentato dai propri governanti. Ed è con il 1789 che l'espressione rivoluzione politica assume la fisionomia attuale: quella cioè di liberazione della nazione da un politico non legittimato dal popolo, e il raggiungimento di un assetto che preveda, attraverso istituzioni liberamente scelte, la partecipazione di tutta la comunità.
Questa concezione, pur essendo fondamentalmente politica, coinvolgeva già valori culturali e sociali: fu così naturale estendere nell'Ottocento il termine rivoluzione anche a mutamenti radicali avvenuti nel campo delle concezioni scientifiche, nella letteratura, nell'arte»
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Non è un caso se, ancora oggi, come già con l'espressione "rivoluzione industriale", adoperiamo questo termine ad esempio con "rivoluzione tecnologica" o "rivoluzione scientifica" o persino "rivoluzione sessuale". Poi sappiamo bene - tornando alla politica - che c'era stata una "rivoluzione inglese", ma anche una "rivoluzione americana" e poi - con la "rivoluzione russa" - il comunismo si è largamente imbevuto del termine. C'è stata anche una presunta "rivoluzione fascista" e vive ancora una "rivoluzione liberale".
Io stesso - confesso le mie colpe - ho propugnato una "rivoluzione federalista", ma lo aveva già fatto, più autorevolmente, Altiero Spinelli.
Insomma: possiamo pacificamente risolvere il caso, dicendo che ognuno, come le parole molto spesso consentono che sia, usa la parola come vuole, determinandone alla fine un'evidente usura.
Sottoscrivo Simone Weil: «On pense aujourd'hui à la révolution, non comme à une solution des problèmes posés par l'actualité, mais comme à un miracle dispensant de résoudre les problèmes».
Che è questione ancora più delicata, che porta a dire - se si usa la chiave federalista, in questa logica di realismo - che la prima rivoluzione parte dalla propria sfera personale e dal proprio contesto politico.

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