August 2014

K2 1954, alpinismo e polemiche

Achille Compagnoni e Lino Lacedelli su 'K2'Le grandi spedizioni alpinistiche, come quella che raggiunse la vetta del "K2" (che sarebbe poi "Karakorum 2", perché a metà Ottocento si pensava che il "Masherbrum" fosse più alto in quella zona di "Himalaya", sbagliando) nel 1954 come ieri, hanno sempre avuto - ed in parte ce l’hanno ancora, pur in presenza di spedizioni multinazionali - un profondo spirito nazionalistico.
In fondo a personificare questa logica "italianissima", nel cercare di conquistare la vetta, era lo stesso capo della spedizione al "K2", quell'Ardito Desio che con disciplina e pure cinismo tenne in mano le redini di quella storica salita. Conobbi Desio, che morì nel 2001 a 102 anni, quando mi occupavo a pieno delle questioni della montagna. Era un "grande vecchio", che aveva attraversato tre secoli, roba mica di poco conto.
Ma la sua spedizione, come quasi tutte, era stata poi oggetto di profonde polemiche, che qui non riprendo in dettaglio, che ammorbarono la vita dei due scalatori che arrivarono lassù il 31 luglio di sessant'anni fa, Achille Compagnoni e Lino Lacedelli. Chi si scontrò sempre con loro, con il suo carattere coriaceo, fu il grande scalatore Walter Bonatti, che recriminava sul fatto che gli fosse stato precluso di salire sulla cima, come avrebbe voluto, anzi era stato costretto ad una notte all'addiaccio con il rischio di lasciarci la pelle.
Essendo poi l'ambiente alpinistico pieno di sussurri e grida (e serpi), la vicenda - condita da cause giudiziarie, libri e contro libri, commissioni apposite come quella del "Cai" - è andata avanti per anni e ad ogni ricorrenza, come sta avvenendo ora sul "giallo" dell'ossigeno in vetta, ci saranno scoop che torneranno sul luogo del "delitto". Il tempo affermerà, comunque, il valore dell'impresa.
Per Compagnoni - che pure lui aveva un bel caratterino, come dimostrato da molte storie che circolano - mi è sempre spiaciuto, perché mi era istintivamente simpatico, avendo scelto, fra l'altro, di diventare valdostano (era arrivato in Valle nel 1935 per il "servizio di leva") e guida del Cervino, lasciando la natia Santa Caterina di Valfurva per la Valle d’Aosta, dove morì nel 2009. Da studente avevo conosciuto suo figlio Maurizio, morto in un incidente stradale sulla "Torino - Aosta", e con Achille avevamo parlato di questo dolore indicibile.
Sulle polemiche sempre vive sul "K2" (in fondo, ancora all'ultimo, tentò - così mi aveva anche raccontato di persona - una riappacificazione con Bonatti, che non andò a buon fine) ormai aveva assunto un'apparente aria zen, mentre in cuor suo credo che questo continuo rimestare fosse qualcosa di terribile. Anche perché lui, con Lacedelli, lassù ci era salito davvero e questo, a essere franchi, nessuno poteva portarglielo. Reinhold Messner in persona ha più volte ricordato come il K2 sia e resti l’ottomila più impegnativo dal punto di vista tecnico.
Ricordo che alla spedizione parteciparono tre guide valdostane: Ubaldo Rey, che sembrava pronto per tentare la vetta ma fu fermato da problemi di salute, Sergio Viotto (che morì purtroppo dieci anni dopo in un incidente alla palestra di roccia di Entrèves) e Mario Puchoz, che morì durante la spedizione per un edema polmonare ed è rimasto sepolto laggiù.
Allora a salire sulle montagne himalaiane erano quattro gatti, oggi esiste un alpinismo di massa con tariffe à la carte che promettono di far salire chiunque sugli ottomila meno difficili. L'alpinismo trasformato in turismo di massa, ma il "K2" resta per i più duri, come ben sanno i due valdostani che l'hanno conquistato, Abele Blanc e Marco Camandona. Giorni fa, Simone Origone ha fatto bene a tornare indietro, nella spedizione che ha portato quattro alpinisti sulla cima, perché, come dimostrato dalla morte dell'alpinista spagnolo Miguel Angel Perez, a certe quote basta poco per finir male.

Un nuovo assetto per le autonomie locali

La facciata del municipio di Pré-Saint-DidierMi fa piacere che sia stata, alla fine, varata a larghissima maggioranza dal Consiglio Valle - definizione da usare sempre per la sua specificità - una riforma degli Enti Locali della Valle d'Aosta equilibrata e da riempire di contenuto con delle buone pratiche. Lavorare assieme, pur con degli obblighi, non è "darwinismo istituzionale" con i più piccoli mangiati dai più grandi, come avviene invece con logiche soppressive dei Comuni.
Ho in mente, come se fosse oggi, quella riunione del gruppo dell'Union Valdôtaine in cui, fra le "varie ed eventuali" come sempre avveniva per i temi davvero cruciali, l'allora ed attuale presidente, Augusto Rollandin, annunciò in modo spiccio - come se si trattasse di schiacciare un brufolo - che le linee guida della riforma nazionale sarebbero state applicate anche in Valle d'Aosta con - mio pensiero sin da subito - sfracelli per il nostro sistema autonomistico. Intervenni chiedendo il tempo necessario e ribadendo, come poi alla fine si è dimostrato, che andava difesa la nostra competenza esclusiva (articolo 2 dello Statuto speciale) in materia di ordinamento degli Enti locali. Riforma costituzionale, che ebbe una serie di tappe di avvicinamento, e che portai a casa da deputato per la nostra autonomia speciale e per le tutte le altre (la Sicilia già l'aveva, ma con un uso limitatissimo). Non voglio medaglie, perché per fortuna tutto è scritto negli atti parlamentari che non possono essere "sbianchettati", ma mi infurio se poteri e competenze della nostra autonomia vengono, come avviene sempre più spesso, calpestati a seguito di una misteriosa "ragion di Stato" di chi si mostra autonomista a denominazione di origine protetta e poi, al momento opportuno, se ne dimentica per chissà quali "do ut des".
Ma la storia dell'applicabilità in tutto o in parte proseguì e ne furono interpreti anche alcuni Sindaci fedelissimi, che poi saranno rimasti straniti, ma egualmente obbedienti, dal cambio di rotta deciso in piazza Deffeyes: un'inversione "ad U" senza particolari spiegazioni. Non ne hanno bisogno nella politica valdostana quelli che seguono i diktat, passando dal rosso al verde, come se fossero dei semafori e rimanendo sempre e egualmente proni. Questo è l'aspetto più deprimente.
Negli anni, a proposito delle dinamiche nel mio "fu Mouvement", ho conosciuto degli incendiari da bar, che cambiavano il mondo come gli amici della celebre canzone di Gino Paoli, poi quando si veniva al momento di mostrare i muscoli si afflosciavano sulla sedia e sceglievano, come atto di ribellione estrema, il silenzio. Magari, dopo la riunione, chiedevi loro spiegazione sul mutismo inatteso e scoprivi che quel "silenzio assordante" (ossimoro sempre espressivo), che a me sembrava solo "silenzio e basta", doveva essere considerato gravido di significati reconditi, che io - che invece sembravo ormai nell'UV un grillo parlante - non capivo bene.
Acqua passata, naturalmente. Mai guardarsi indietro, non perché ci si trasformi in una statua di sale come Lot, la nipote di Abramo, che si voltò a guardare la città di Sodoma, ma perché la politica obbliga a guardare avanti. Le trasformazioni costringono a non indugiare e a non baloccarsi con vecchie questioni, il che naturalmente non vuol dire affatto dimenticare o piegare i fatti del passato ai propri desideri.
Il sistema autonomistico valdostano, che come una fisarmonica si apre e si chiude fra le vicende esterne a Roma e Bruxelles e la riflessione interna sulle nostre Istituzioni regionali e comunali, si trova oggi di fronte alla necessità di cambiare di fronte a scenari impressionanti (si pensi alla finanza pubblica), che obbligano a giocare su tavoli nuovi e ad essere inventivi.
Per cui, alla fine, questa riforma conta non solo per le norme che sono state scritte, ma per lo sforzo applicativo, che deve comprendere ancora il pezzo della legge elettorale, specie sui numeri dei rappresentanti elettivi in Consiglio e Giunta, oltreché è bene una doverosa riflessione su quanto e come debba dosarsi l'uso dell'elezione diretta del sindaco. Da una parte questa scelta per tutti i Comuni valdostani ha stabilizzato le amministrazioni, dall'altra però ha creato, specie ma non solo nei Comuni più piccoli, rischi di "cesarismo" nel primo cittadino e di disimpegno degli altri eletti "schiacciati" da questa figura.
La democrazia deve vivere di migliorie.

"Caso Fiat"

La '595 Abarth'Se penso a "Fiat" mi vengono in mente due pensieri. Il primo è il piacere fisico, da neopatentato, della macchina da lavoro di mio papà, per insinuarsi da buon veterinario anche nelle stradine più strette e impervie: la "595 Abarth". Era una "500" elaborata e spinta, che - adoperata sui percorsi di montagna - dava grandi soddisfazioni, ma bisognava fare la "doppietta" e cioè, nei cambi senza sincronizzatore per non grattare nel passaggio ad una marcia inferiore, bisognava transitare per un batter d'occhio in "folle", un'accelerata e via. Che "Fiat" fosse la marca di auto per antonomasia è dimostrato dal fatto che la prima macchina di mio papà, nel dopoguerra, fu - come per tantissimi - la mitica "Topolino".
Ma dicevo di un secondo pensiero: mi spiace che la scomparsa delle persone impedisca di poter parlare con loro degli svolgersi degli avvenimenti successivi. Degli attuali avvenimenti "Fiat", che scompare nel grottesco acronimo "FCA - Fiat Chrysler Automobiles", in cui la mancanza della "I" è oggetto di lazzi e motteggi, mi piacerebbe sapere che cosa ne penserebbe Efisio Noussan, il "grande vecchio" dei concessionari auto valdostani. Fu lui a portare la "Fiat" in Valle ed il "Palazzo Fiat" in via Chambéry è stato per anni un segno fisico nella città del boom economico, che comprendeva anche la diffusione capillare dell'auto, motorizzazione che andava di pari passo con la costruzione delle strade nel dopoguerra. Penso che resterebbe stupito di quanto sta avvenendo e chissà cosa direbbe al figlio Pierre, che ormai ha trasformato la società di famiglia in una "multimarca", com'è diventato obbligatorio fare.
Quel che resta della famiglia Agnelli, nel trascorrere del tempo ed il susseguirsi delle generazioni, ha seguito "a babbo morto" le scelte del manager-socio Sergio Marchionne, che ha scelto la "via americana" ed una delocalizzazione dell'impresa, come avviene nella vicina Serbia.
E Torino e l'Italia? Sono stati anni e mesi di grande rassicurazione, ma poi pian pianino - che sia la sede legale o fiscale, che sia il cuore pulsante dei progetti futuri - ci si è resi conto che, malgrado tutte le promesse, "Fiat" sceglie di andarsene. E' possibile che l'alternativa fosse davvero fra "mondializzazione" e "morte", ci mancherebbe. Non ho competenze per dire il contrario, ma - da semplice osservatore - non si può non notare come l'Italia, di fatto, non avrà più, a differenza di Germania e Francia, una propria azienda automobilistica, con un cuore pulsante e un cervello che non siano situati altrove.
E' vero, come sanno bene gli industriali valdostani che operavano ed operano ancora nell'automotive, che l'indotto "Fiat" si era andato spegnendo già negli anni passati e a bastava guardare alle percentuali delle vendite delle auto "Fiat" e del Gruppo per capire che un mondo stava scomparendo. Questo ha colpito anche la nostra piccola Valle, che purtroppo con "Fiat", ma a suo tempo anche con "Olivetti", ha preso delle gran batoste. L'unico vantaggio fu forse la cessione che "Fiat" fece dei vastissimi terreni su cui sorge in parte il "Parco regionale del Mont Avic". Oggi la via internazionale della "Fiat" non cambia più nulla per noi (non so bene i destini dell'azienda di componentistica per auto in magnesio sopravvissuta a Verrès), ma in generale è un impoverimento per il nord ovest e rientra nello smantellamento di un sistema industriale italiano che ebbe momenti gloriosi.
Mi pare che alla fine tutto questo avvenga in un generale clima di accettazione, che sia il Governo, i partiti o i sindacati, come se ci fosse qualcosa di inarrestabile in questa strada che fa dell'Italia un Paese privo di industrie in settori strategici per il futuro. L'elettronica, la chimica, il tessile, il siderurgico: il rosario di chiusure e ridimensionamenti degli scorsi decenni fanno davvero impressione e non si vede una reale inversione di rotta.
Ma, intanto, avremo un Senato ridotto al lumicino da far vedere come segno riformatore a Bruxelles, da cui - temo - risuonerà una grande e comunitaria risata. Loro, i nostri partner dell'Unione europea, guardano più all'economia che all'ingegneria costituzionale e il "caso Fiat" - per non dire di quello "Alitalia", dove alla fine i "capitani coraggiosi" dell'imprenditoria italiana hanno svenduto agli arabi con aiuto pubblico - non sarà certo sfuggito.
Chi ha deciso su "Fiat" - e porterà il peso del successo o dell'insuccesso, ma di certo l'abbandono dell'Italia - è Marchionne e vien da dire: «Fiat voluntas sua...».
Nel quadretto stride l'acquisto, in controtendenza rispetto all'addio ai luoghi natii, del quotidiano "Il Secolo XIX" di Genova, che si somma a "La Stampa" di Torino ed alla maggioranza nel "Corriere della Sera" di Milano. Perché? Solo per sostenere l'addio ai monti? Il settore non rende e diventerà assai spinoso e dunque, per quanto la mano sull'informazione conti sempre, questo passo lascia perplessi.

I giovani e la montagna

Confesso che la mia prima reazione è stata lo stupore. Quel senso di «sogno o son desto?» non da filosofo - per carità! - ma da chi vuole darsi un pizzicotto per essere sicuro che quel che ha letto sia vero.
Traggo dall'Ansa la breve notizia nella sua essenzialità: "Finanziato dal Fondo sociale europeo e volto alla promozione della conciliazione lavoro-famiglia, il progetto "Io? in vacanza con le guide" porterà per tutto il mese di luglio i bambini che hanno frequentato le scuole a Valtournenche e a Breuil-Cervinia in montagna con l'accompagnamento delle guide del Cervino".
Passato lo sbandamento iniziale e cancellato anche il dubbio che fosse una sorta di doposcuola astutamente finanziato, mi sono rimesso in carreggiata.

La violenza della Natura

Il Monte ZerbonQuando esco di casa, vedo la sagoma imponente del Monte Zerbion, che con i suoi 2.722 metri domina Saint-Vincent e fa da spartiacque fra la Valle d'Ayas e la Valtournenche. Poco sotto la cima si sviluppa, come una ferita ben visibile, una grossa frana che minaccia ormai da anni un parte dell'abitato di Saint-Vincent e solo grazie la presenza di griglie di contenimento si è finora evitato il peggio. Per altro, se si legge la storia di questa montagna, si vede che frane e valanghe hanno sempre dato del filo da torcere alle popolazioni sottostanti.
Giorni fa, in una trasmissione radiofonica, ho incontrato Augusta Cerutti, geografa e glaciologa da una vita, conoscitrice della Valle d'Aosta come le sue tasche. Ancora oggi, che non è più una ragazzina, non perde l'antica passione e l'entusiasmo per la sua Valle, che non a caso - proprio ricordando come il fiume principale della Valle abbia forgiato il territorio - in un suo celebre libro chiamò "Le Pays de la Doire". Quando la Cerutti racconta della Dora Baltea lo fa con entusiasmo e partendo dagli albori: dapprima le acque del Monte Bianco confluivano nel bacino del Rodano, poi per un certo periodo andavano già dal nostro versante a confluire verso il Sesia, poi con lo "sfondamento" dei monti di Montjovet la Dora andò verso la pianura nell'attuale configurazione di affluente del Po. Altrettanto entusiasmo dimostra per i "suoi" ghiacciai, che sono scesi e risaliti nel tempo: «un giorno - ha osservato serafica - il Canavese sarà di nuovo ricoperto di ghiaccio, ma ci vorrà tempo». Che i nostri amici canavesani siano avvertiti del nostro imperialismo glaciale!
Sui cambiamenti climatici sembra scettica riguardo ad un eccesso di ruolo della componente umana, perché - dice - i cambiamenti registratisi in milioni di anni (solo scriverlo mi dà il capogiro) ci sono stati con forza e violenza anche quando noi umani eravamo del tutto ininfluenti. Sa, in questo, di essere piuttosto controcorrente, ma mi pare che resti ancorata all'idea che ci siano meccanismi - in verità inesplorati - che rendono anche il territorio della Valle cangiante, al di là del fattore umano. Gli estremi sono stati: una Valle come enorme distesa di ghiacci o periodi caldi - tipo quello medioevale fra l'800 ed il 1300 - che hanno visto sentieri in alta quota e cereali coltivati vicino a villaggi poi disabitati.
Ma sul fatto che l'uomo alpino debba convivere con la Forza della Natura (uso le maiuscole come evidente rafforzativo) mi pare che di dubbi non ce ne siano, come dimostrano - e la Cerutti lo sa meglio di me - documenti storici, come registri parrocchiali pieni di tragedie personali e collettive, per non dire delle leggende, fatte di paesi scomparsi e prodigi inspiegabili. Sono temi che oggi, per fortuna, possiamo trattare con approccio scientifico e il dato inoppugnabile è la terribile fragilità del nostro territorio. Ogni tanto mi capitava, specie nello spiegare i danni del dopo alluvione del 2000, quando ero deputato impegnato nelle settimane subito dopo gli avvenimenti a trovare soluzioni a Roma, di trovare interlocutori stupefatti dalla circostanza, a noi ben nota, di 74 Comuni su 74 minacciati in qualche modo da problemi idrogeologici, più o meno gravi. Le montagne non stanno ferme e vi è un rischio naturale insito nella nostra presenza, certo accentuato anche da sbagli del passato, come l'aver edificato in luoghi dove mai i nostri avi avevano pensato di farlo.
La vicenda costosissima della frana di La Saxe di Courmayeur è un caso fra tanti. Ce ne sono già stati e ce ne saranno altri, specie per quei cambi climatici che rendono le stagioni incerte e certi fenomeni naturali eccessivi e pericolosi. Almeno questa è la percezione. Era difficile un tempo, anche perché le persone campavano poco e certi cicli di cambiamento erano forse più lunghi, che ci fosse quella percezione personale che noi invece avvertiamo. Bisogna conviverci con certi pericoli, ma bisogna anche sapere - e chi si occupa dei rapporti finanziari con Roma e delle regole di bilancio di Bruxelles dovrebbe averlo ben chiaro - che una parte del nostro riparto fiscale deve obbligatoriamente finire, senza lacci e lacciuoli del "Patto di stabilità", nelle colossali e costose opere, che vanno anche costruite e poi mantenute, per evitare che la Valle d'Aosta crolli malamente sulla testa di chi ci abita.
Intanto, per capirci, se oggi avessimo un'alluvione disastrosa come quella del 2000, che per la ricostruzione gravi quasi del tutto sulle casse regionali, rischieremmo di certo di non avere i soldi per la farlo, ma anche - per i soldi comunque a disposizione - di non poterli spendere.

Non dimenticare i clienti italiani

Turisti, oggi, nel centro storico di AostaLa mia tesi ormai è nota: il calcolo fatto in Valle d'Aosta dell'andamento turistico, con i soli dati di arrivi e di presenze, come se fossero vangelo cui rifarsi, non è sufficiente né convincente. Anche in quest'estate avversata dal maltempo, trovo - per fare un solo esempio su come i dati quantitativi vadano presi con le pinze - albergatori che si sono trovati costretti a dei tagli alle tariffe, che fanno impallidire gli sconti più stracciati su "Groupon". E' vero che bisogna sopravvivere, ma il giorno in cui ripartirà il pagamento dei mutui alberghieri, che non potranno essere posposti all'infinito per il rischio di un intervento muscolare della Commissione europea (a cui certe scelte andrebbero cautelativamente notificate per evitare responsabilità), certe politiche al ribasso torneranno indietro come dei boomerang.
Tuttavia, esiste un ragionamento sul quale si fa l'unanimità, pur in un ambiente come quello turistico che non è sempre facile. Mi riferisco al dato inoppugnabile di un calo costante della clientela italiana. Lo dicono sulle Alpi e in Valle d'Aosta gli albergatori, ma anche i gestori di altre strutture residenziali come i campeggi o gli agriturismi. Lo confermano i rifugisti, ma anche le guide alpine. Pensiamo al "Tour du Mont-Blanc", che - se non alimentato da francesi e stranieri di varia nazionalità - sarebbe deserto. Ma questo vale anche per lo sci, che gode, specie nel periodo delle settimane bianche, di apporto di turisti inglesi, russi, scandinavi, che se non arrivassero sarebbe guai. Posso dirvi, avendo ieri registrato un "cappello" televisivo per le trasmissioni in ricordo di Cesare Ottaviano Augusto, morto duemila anni fa, che nella zona archeologica del Teatro Romano si sentivano parlare diverse lingue, ma pochissimo l'italiano.
Questa vocazione internazionale fa piacere e bisogna alimentare questo turismo che persiste. Per questo è bene spendere dei soldi in promozione in Paesi importanti ma ormai abbandonati, senza fare, per contro, troppi voli pindarici in India o Sud Corea, come se fossero chissà che cosa. Taccio sulla Cina, perché basta il Casinò di Saint-Vincent, che ormai sembra invasato con la caccia ai giocatori cinesi, per dimostrare di come si possa avere uno sguardo esclusivo, che non promette nulla di buono. Ma forse a Macao - e questo mi è sfuggito - costruiscono bacchette magiche a buon mercato.
E gli italiani? Bell'interrogativo: verrebbe da dire che considerare che tutto sia perduto e che gli italiani saranno per sempre capricciosi clienti "mordi e fuggi" per soggiorni sempre più corti con spese da "braccino corto" non è la scelta giusta. Esiste in Italia un bacino d'utenza assai interessante, su cui bisogna fare scelte di marketing innovative, politiche di prezzi concordate, iniziative che attraggano. Senza incorrere nel rischio, come talvolta appare, di una cupa rassegnazione rispetto al declinare della domanda italiana. Puntare su turisti che arrivano qui come meta di lunga destinazione non vuol dire trascurare la clientela di prossimità e quella di media distanza. In un mondo in cui i focolai di guerra sono molti e c'è il rischio di epidemie che terrorizzano (speriamo che questo virus dell'ebola venga preso sul serio, come si deve fare) - per non dire della crisi economica per ora non archiviata - ci sono delle chances che non vanno sottostimate anche nel mercato interno.
Noto, invece, una qual certa rassegnazione. Non che non si debba essere realisti. Il mondo cambia e noi dobbiamo capire le modificazioni senza vivere di ricordi o di speranze infondate. Ma l'Italia resta l'Italia e ogni scelta di abbandono di questo mercato rischia di ritorcersi contro, pensando ad altre zone alpine che vezzeggiano questa clientela, come fanno i nostri concorrenti di sempre (ma ci sono anche delle alleanze da praticare), e cioè il Trentino e l'Alto Adige-SüdTirol.

Per evitare che da "ramo secco" diventi "binario morto"

Un binario morto con la carcassa di un trenoMi par di capire - e la cosa certo mi intristisce - che, a parte la bega sui pagamenti del servizio in essere con "Trenitalia" foriera di guai, sulla ferrovia valdostana (termine geografico, perché per ora la struttura e l'esercizio sono statali) nulla di reale si sia deciso. L’unica scelta concreta, sfortunatissima e degna della "maledizione di Tutankhamon" che aleggia su qualunque forma di trasporto in Valle, è stato il tentato acquisto dei treni bimodali (diesel ed elettrico) da mettere sulla linea che rimarrebbe, intanto, tale e quale a quella ora in esercizio. Per questo è, allo stato, un'incomprensibile "fuga in avanti" questa dei "bifuel", mancando cioè un progetto complessivo che riguardasse in particolare le necessarie migliorie all'infrastruttura. Due appalti andati male per questi treni mostrano, oltretutto, che il bando è stato fatto male in qualche sua parte o almeno così è stato percepito dai concorrenti possibili, ma anche su questo il silenzio è d’ordinanza. Si comunica quanto va bene, non quanto va male. E sul treno ormai dir bene è un’impresa titanica.
Della "regionalizzazione", nel disegno a geometria variabile della norma di attuazione, che va dal minimo di una gestione da parte della Valle della linea al massimo di vera e propria cessione della rotaia, si sono perse le tracce per assenza di decisioni certe nel rapporto con il Governo nazionale. Si dice che sia una questione di soldi e può anche essere, ma - in considerazione del rango delle norme di attuazione - tenere tutto fermo per quattro anni è già una sonora sconfitta.
Intanto il Canavese si muove. Ricordo un recente dispaccio Ansa: "L'assessore ai trasporti della Regione Piemonte, Francesco Balocco, ha ricevuto in Assessorato il sindaco di Ivrea, Carlo Della Pepa e il vicesindaco di Chivasso, Massimo Concione, sui collegamenti ferroviari fra Torino e la Valle d'Aosta. Presenti anche l'assessore Giovanna Pentenero e una delegazione dei comitati "Pendolari Chivasso-Ivrea-Aosta" e "Pendolari Stanchi Vda". Della Pepa, rimarcando la novità dell'incontro con la Regione "per la prima volta da anni", ha sottolineato i disagi legata all'inadeguatezza strutturale della linea, che provoca ritardi e tempi di percorrenza medi più elevati rispetto ad altre tratte. "Molti disservizi - ha detto Balocco - saranno risolti facendo i lavori concordati con le Ferrovie, che prevedono il raddoppio selettivo della linea in prossimità dell'accesso alle stazioni di Ivrea e Chivasso, l'eliminazione dei molti passaggi a livello esistenti, l'adeguamento della stazione di Chivasso".
C’è stato un incontro con la Valle d’Aosta e penso che ce ne dovranno essere altri, perché par di capire che il Piemonte vorrebbe utilizzare per la linea quei soliti soldi - ventisei milioni - che ab origine dovevano riguardare la "lunetta di Chivasso", cioè quella sorta di "circonvallazione" che avrebbe evitato l’attuale sosta in stazione, con il cambio di direzione, che fa perdere tempo. Ma questa "direttissima" verso Torino non è ovviamente mai piaciuta ai chivassesi e su questo, alla fine, hanno vinto loro, con quello che considero ancora un grave errore. Chivasso è ormai indubitabilmente una stazione "fuori dal gioco", non essendo stazione dell’Alta capacità. Al di là del risparmio di tempo che ci sarebbe, evitando Chivasso, per un treno in partenza da Aosta con direzione Torino, c'è dunque una questione ancora più forte in gioco: la marginalizzazione di fatto della tratta "Aosta - Chivasso".
Quel che stupisce ancora è il fatto che non ci renda conto che uno dei punti da chiarire subito, per qualunque eventuale lavoro ferroviario, in Valle o nel Canavese, è che cosa ne sarebbe di quei pochi chilometri di linea, fra Pont-Saint-Martin ed Ivrea. Siamo fuori dalla Valle e la tratta non interessa ai piemontesi, essendo ormai da tempo chiuse le locali stazioni ferroviarie e rischiando la linea in questo pezzo di diventare, di conseguenza, un "buco nero" assai negativo per i valdostani se non si faranno i necessari lavori di ammodernamento.
L'unica possibilità resta quella di un vasto "accordo di Programma" fra le due Regioni e lo Stato, che però tenga conto delle norme già scritte in norma di attuazione del nostro Statuto. L’impressione, però, è che - intanto per la parte valdostana, mentre per la Giunta Chiamparino si vedrà l’impegno concreto - manchino scelte decisive e ci si trovi dentro delle sabbie mobili, che rallentano tutto ed ogni progettualità può trovarsi come inghiottita. E la linea ferroviaria, già da tempo indicata come "ramo secco" dalle Ferrovie, rischia sempre di più, arrivando, per così dire, ad un punto di non ritorno o, se preferite, al triste destino di essere niente altro che un "binario morto".

Prati e falci

Balle di fienoQuando ero piccolo, attorno a casa mia a Verrès, c'erano tanti prati, prima che il "consumo del suolo" per l'edilizia li riducesse al lumicino. Esiste anche in Valle un fenomeno alla "ragazzi della via Gluck" e cioè eccessi di cementificazione ed è bene rifletterci nei piani regolatori dei Comuni, il cui aggiornamento sta viaggiando alla velocità del mezzo agricolo per eccellenza, l'"Ape Piaggio"...
Un passaggio di stagione era quando arrivavano i contadini a "fare i fieni": tutto con la forza delle braccia e delle falci e con la realizzazione delle balle "artigianali". Ci sono gesti antichi, ritmici e eleganti nello stesso tempo, ormai spariti con la meccanizzazione, come appunto è il caso dello sfalcio manuale, ma lo era anche l'uso complementare della pietra per mantenere affilata la lama e dei forconi per girare il fieno. La canottiera non era l'uso popolaresco "alla Bossi", ma l'indumento igienico per chi lavorava volentieri sotto il sole, visto che la pioggia è la grande nemica della fienagione.
Ci penso tutte le volte - e mi torna alle narici il profumo del fieno tagliato coi fiori annessi - in cui vedo, oggi con l'uso del trattore, le famiglie impegnate nei prati. E ci pensavo anche, giorni fa, quando lungo la Valle d'Ayas ho visto, tra Brusson e Ayas, molti prati con l'erba alta e ormai secca, perché non sfalciati. Forse mi sono perso, per mia distrazione, qualche puntata, ma il fatto mi ha incuriosito, pensando come ci siano grandi stalle nella zona e come il fieno autoctono dovrebbe - uso già da solo il condizionale - essere l'alimento per le bovine a vantaggio del latte per la "Fontina", nel rispetto del disciplinare del formaggio "dop".
Probabilmente la mia è una visione superficiale rispetto a chi conosce meglio di me l'evoluzione del mondo agricolo. Noto, tuttavia, come in tutte le Alpi, sia nei Paesi comunitari che nella solita Svizzera, il dibattito sul futuro dell'agricoltura incombe. In apparenza la "Pac", la politica agricola comunitaria, sembra confermare l'esistenza di un capitolo di tutela per la montagna, ma certo elementi inquietanti ci sono con la crescente incidenza del principio insidioso della concorrenza e scelte, ad esempio la fine delle quote latte, che vanno esattamente nella direzione del solito braccio di ferro fra Pianura e Montagna. Peserà sempre più, anche in questo senso, la burocratizzazione, che incombe malgrado tutte le promesse dell'Europa di semplificare, mentre la triste conferma è che si complicheranno anche gli affari semplici.
In Valle d'Aosta aggiungiamo che gli esiti dei tagli alla finanza regionale peseranno malamente sull'intero comparto, che sarà pure stato abituato all'abbondanza, ma il passaggio brusco all'austerità rischia di lasciare morti e feriti. Soprattutto se si pensa che alle ultime elezioni regionali c'è stato chi ha raccontato "balle spaziali" per raccattare voti ed ora è venuto il tempo per molti delle disillusioni. Con il paradosso che chi prometteva mari e monti ora invoca il mercato e invita «a tirarsi su le maniche», anche a chi è rimasto già in mutande per la crisi.
Quei prati ingialliti e stopposi sono un segno negativo, comunque la si veda, che sia un discorso produttivo o anche paesaggistico. Non si tratta di immaginare che tutto debba essere una cartolina artificiosa "alla Heidi", ma chi attraversi certe zone dell'Austria e della Svizzera si accorge con un colpo d'occhio di come ad uno sfruttamento razionale delle risorse agricole corrisponda proprio un paesaggio ordinato e pulito, che dà delle Alpi un'immagine straordinaria per chi ci abita e, naturalmente, per i turisti.

C'era una volta la P2

Licio GelliVorrei che non ci fossero equivoci come punto di partenza. Mi viene l'orticaria di fronte a due categorie di persone, che spesso si mischiano fra di loro per la contiguità degli argomenti, vale a dire i "dietrologi" e i "complottisti". I dietrologi sono quelli che, talvolta in modo più che fantasioso, scavando nelle origini di un avvenimento, manipolano un fatto odierno con una serie di concatenamenti cervellotici che possono portare fino a Ramsete II, mentre i complottisti sono peggio ancora, perché sono quelli che immaginano chissà quali oscuri retroscena dietro ogni evento, genere "scie chimiche" o "Torri gemelle".
Tuttavia è vero che, se si vuole avere uno sguardo sereno e non ideologico, qualche volta bisogna pure evitare di essere troppo naïf ed esaminare le cose senza pregiudizi al contrario. Penso al famoso documento, spesso evocato da una parte di pubblicistica, noto come "Programma - Piano di Rinascita", che fu sequestrato nel lontano 1992 alla figlia dell'oggi 95enne Licio Gelli, all'epoca "Gran Maestro" della "Loggia P2". Ora è probabile che il ruolo di questa Massoneria deviata sia stato gonfiato nel tempo e che, proprio con la logica complottistica e dietrologica, si sia ascritta alla "P2" qualunque cosa, dal callo del nonno ai terremoti.
Tuttavia, la lettura di quel documento, che risale a più di trent'anni fa, quando Silvio Berlusconi imprenditore aderì al gruppo occulto: è assai istruttivo di certe tendenze politiche che in questi anni si sono concretizzate e si stanno concretizzando. Come se certi semi gettati allora, pian piano avessero fatto il loro dovere e oggi dalle piante che sono cresciute si stessero raccogliendo i frutti. Da una parte può essere, sempre con visione laica, che certe cose contenute nel documento fossero una foto di antiche questioni, dall'altra che esista un "fil rouge" che in qualche modo sia stato perseguito con costanza.
Il primo aspetto che emerge dal documento è l'idea di una politica del tutto piegata agli interessi del sistema economico-finanziario. Non ho nel mio background venature anti-capitalistiche, ma sono convinto che il "Signor Mercato" non si regoli affatto da solo e che non ci siano mani invisibili che tutto aggiustano. Ci vogliono regole, controlli e custodi che devono evitare che si cementi fra interessi economici e politica (specie in un'Italia dove le Mafie sono un enorme soggetto di interessi e dove la politica corrotta non sempre viene perseguita, specie laddove esiste una Magistratura distratta) una connivenza a dispetto dei cittadini e delle Istituzioni. Questa prima cosa già puzza.
Puzza anche il desiderio enorme del citato documento di dar vita ad un sistema bipolare in politica a vantaggio, si legge, "di un'azione politica pragmatista, con rinuncia alle consuete e fruste chiavi ideologiche". Insomma: una sorta di "rompete le righe". Ognuno applichi questa affermazione al presente. Interessante è poi la parte dedicata il progetto di "dissolvere la Rai-Tv" su cui il cantiere mi pare più che aperto a vantaggio di Berlusconi, che con le "grandi intese" ci guadagna, così come risulta la lotta senza quartiere al ruolo dei Sindacati, cui il "Piano di Rinascita" dedica alcuni paragrafetti al vetriolo.
Interessante, nei rapporti con la Magistratura, l'elenco delle priorità: primo punto "la responsabilità civile dei magistrati" (ma si parla anche di riportare i pubblici ministeri sotto il controllo governativo...), che è oggi in prima pagina. Si parla poi - come oggi - del rafforzamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, della riforma del bicameralismo (con un Senato con elezione di secondo grado, come si sta delineando nella riforma in corso!) e - ciliegina sulla torta, perché sta avvenendo in queste ore - del ridimensionamento dei poteri delle Regioni e pure la proposta di un loro accorpamento. In più Gelli e compagnia - pensa che caso - già nel 1982 auspicavano la soppressione delle Province, punto che per altro condivido.
Troviamo poi argomenti familiari di questi anni: abolizione delle festività, abolizione della validità legale del titolo di studio e un ampio capitolo sulla fiscalità. Aggiungiamo altre amenità, tipo la limitazione del diritto di sciopero, una legislazione restrittiva sulla libertà di stampa, un allungamento nei tempi di pensionamento e via di questo passo.
Il Governo, dice il testo, deve essere "deciso ad essere non già autoritario bensì soltanto autorevole". Confine molto flou in una democrazia debole come quella italiana, come dimostra chi predica il cambiamento ma lo fa con accordi in parte noti e in parte no con quel "berlusconismo" che ha fra le sue radici il "piduismo".
Che dire? Ognuno giudichi. E' possibile, come dicevo all'inizio, che il documento, occupandosi delle storiche magagne italiane, finisca per incrociare qualunque ragionevole discussione politica, ma certo colpisce che molte piste indicate siano proprio quelle che poi sono state percorse sino a destinazione o che si stiano percorrendo per arrivarci. Lo segnalo senza stupore, ma con l'invito a tenere le antenne dritte.

Se la riforma costituzionale è una retromarcia

Baci e abbracci con il ministro Boschi dopo l'approvazione della riforma in SenatoChe cosa io pensi nel dettaglio della riforma costituzionale l’ho già detto. Si tratta di un provvedimento scritto male, pieno di contraddizioni e che nulla ha a che fare con le riforme che l’Europa chiede all'Italia. Come se uno ti dicesse: «devi andare in vacanza al mare» e tu andassi in montagna. Poi, per carità, Mario Draghi che dalla "Banca centrale europea" profetizza che le riforme strutturali vadano fatte dando all'Europa dei "compiti forti", togliendo sovranità agli Stati (figurarsi che fine farebbe il livello regionale…), mi conferma davvero che - così dicendo - abbia invaso un terreno politico non suo. Questo allontana, nel nome di un disegno economicistico, sempre di più l’Europa da un orizzonte federalista e fa della proclamata "sussidiarietà" una barzelletta con cui divertirsi ogni tanto.
Ma torniamo al punto: l’impressione è che se ne parlerà ancora a lungo di questa riforma, per cui non voglio tediarvi sul merito ma sul metodo. Segnalo solo che in Valle d’Aosta bisogna leggerselo bene per capire a fondo i pro e i contro e, essendo materia di cui mi sono sempre occupato e di cui credo di avere discreta competenza, noto la presenza di “trappoloni” di cui è bene parlare. Benissimo che ci sia la "logica dell'intesa" su uno Statuto prossimo venturo applicativo della riforma di cui parliamo (però la previsione non c'è nel 116 novellato ed esiste solo nella norma transitoria), ma sia chiaro che questo non cambia un quadro di mortificazione del regionalismo e dunque ci pensi bene a gioire chi ha cominciato a fare la "ola".
Per altro, vige l’articolo 138 della Costituzione, che i Costituenti veri - non quelli "in erba" attuali - avevano scritto in modo davvero comprensibile. "Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione.
Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.
Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti"
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Insomma: chi oggi fa trionfalismi sul primo voto del Senato furbeggia, compresi gli abbracci nell'aula del Senato accettabili forse in uno stadio di calcio, perché il cammino è lungo e la procedura complessa. A naso si andrà al referendum per il Governo e la sua maggioranza multicolore (tra breve arriverà anche Silvio Berlusconi a dare un appoggio pieno) e non sarà una passeggiata, anche perché per Matteo Renzi, aggiungendoci i risultati economici negativi, è ormai finito quel periodo che gli americani chiamano, per i Presidenti americani, "honeymoon - luna di miele", cioè il momento magico "post elezioni" (nel caso di Renzi "post nomina"), in cui tutto è permesso per l’entusiasmo dell’opinione pubblica. Per cui sento odore di ballon d'essai, cioè di un tentativo pure goffo di vedere l'effetto che fa sui venti mutevoli dell'umore dell'opinione pubblica.
Dicevo del metodo: quel che ha caratterizzato il clima dei lavori parlamentari sono stati la fretta e il regolamento di conti. La fretta perché ci si è posti, in maniera del tutto artificiale, questa data di agosto entro la quale chiudere la partita, come se questioni di questo genere potessero accettare dei diktat, che paiono più delle impuntature o dei capricci. Una prova muscolare come regolamento di conti con chi fa opposizione. In questo senso, la scelta di operare la "tagliola" e poi di usare il "canguro", metodi per accelerare il lavoro e sfoltire il numero di emendamenti palesemente usati per contrastare il legittimo ricorso all'ostruzionismo parlamentare, non è certo stato una scelta da "clima costituente". Aggiungo che chi oggi stigmatizza l’opposizione ha fatto ricorso in passato molto spesso agli stessi metodi, per cui certe affermazioni di censura andrebbero fatte con cautela e un pizzico di memoria. Quando cioè, per un "risultato superiore", si smussano gli angoli per trovare soluzioni che diano quelle forti maggioranze richieste dal 138 già citato e per evitare la "roulette russa" del referendum.
Non credo che Renzi possa incarnare una svolta autoritaria, ma la trasformazione del Partito Democratico in un partito carismatico finisce per essere una curiosa berlusconizzazione, mentre oggi propria la complessità del quadro esistente obbligherebbe ad un gioco di squadra di tante intelligenze e non mi riferisco alla corte di amici e sodali, che garantiscono solo fedeltà e devozione e che nulla hanno a che fare con la fucina di idee, che obbliga a scelte collegiali che non siano frutto di caratteri più o meno forti o sanguigni.
Insomma, la stagione delle riforme parte male e più che andare avanti si sta andando indietro. La marcia da mettere era la prima, non la retromarcia.

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