luciano's blog

Quelle estati

“Sai, figliolo, continuò, hai voglia di raccontare i tuoi ricordi agli altri, quelli stanno a sentire il tuo racconto e magari capiscono tutto anche nelle minime sfumature, ma quel ricordo resta tuo e solo tuo, non diventa un ricordo altrui perché lo hai raccontato agli altri, i ricordi si raccontano, ma non si trasmettono”.
(Antonio Tabucchi)

Ho incontrato per caso una mia amica di infanzia della “compagnia” della Spiaggia d’Oro di Imperia, una banda fatta di personalità così varie da farne un mix senza eguali. A ripensarci ringrazio i miei genitori di quelle lunghe estati sulla Riviera di Ponente nell’arco fra i miei pochi mesi dalla nascita e i miei vent’anni, quando poi coscientemente ho spezzato il cordone ombelicale e ho fatto altro.
Oggi, che sono votato a vacanze itineranti che mi portano a vedere sempre posti nuovi in un periodo breve, non posso tuttavia che pensare a quelle vacanze stanziali che mi hanno segnato e sono state una delle lezioni nella scuola della vita.
Si partiva alla chiusura delle scuole e si rientrava a Settembre (le scuole iniziavano il 1 ottobre). Già il viaggio, sino a che i percorsi autostradali non semplificarono le cose, era un’avventura lungo le strade statali con le macchine stipate. Una sarebbe tornata in Valle d’Aosta con papà veterinario, mentre la mamma casalinga tornava, avendo l’altra auto, nella Liguria della sua nascita con gioia che le si vedeva in volto.
I primi anni le tre sorelle con marito e cugini vivevano tutti nella casa dei nonni materni. Un clan poi spezzatosi con improvvida vendita della casa e diaspora in anonimi appartamenti.
Ma - ci pensavo dopo aver rivisto la mia amica - l’educazione sentimentale più importante fu la scoperta della vita sociale della spiaggia in quegli anni da bambino e poi da ragazzo. In una situazione strana, perché una villeggiatura lunga ti trasformava da turista in quasi local che acquisiva uno status intermedio fra “straniero” e autoctono.
In fondo gli ombrelloni - e il nostro era ovviamente in prima fila anno dopo anno - erano come un palcoscenico in cui si raggruppano storie personali e familiari diversissime con recite quotidiane che mai annoiavano. Ricordo mio papà, con l’eterna sigaretta in bocca, che raccontava barzellette che non so da dove diavolo traesse.
E intanto crescevo e da neonato nel battellino con l’acqua dentro diventavo costruttore di castelli di sabbia e poi protagonista di sfide sportive varie: dagli autodromi con le biglie ai racchettoni sulla battigia, dalle tenzoni a nuoto alla pesca con la fiocina contro le povere sogliole.
Infine si saliva sulla terrazza quando l’adolescenza accendeva gli ormoni e sortivano con i primi amori lettere romantiche al ritorno a casa. Con l’acquisto del motorino, la spiaggia diventava sempre più base di partenza con la scoperta della Liguria segreta dell’entroterra.
Poi si scalavano le scuole superiori
e le estati assumevano nuove coloriture e maggiori consapevolezza, ad esempio nello studio sociologico delle diverse età di chi era in spiaggia, degli intrighi familiari, delle nuove entrate di chi spuntava nella “nostra” spiaggia. Un mondo corale ricco di storie e aneddoti, che oggi sono ricordi che scaldano il cuore e accendono nostalgie buone e consolatorie per il tempo che passa.
Raramente ci sono tornato, specie con i miei figli in quelle visite sui luoghi cari che per loro erano solo noia per memorie per loro barbose è autocelebrative.
Ma i due figli più grandi, come una sorta di fil rouge, nei prossimi giorni saranno, per loro scelta, in quei luoghi per me così evocativi.
Chissà che un giorno, magari da nonno, non possa riproporre a qualche piccolino il ciclo della vita anche nella spiaggia in cui mi sono sentito protagonista.

I Sella, imprenditori-alpinisti e la Valle d’Aosta

Ho ricevuto in dono con grande piacere da Maurizio Sella, Presidente del Gruppo Sella, un libro da lui curato assieme a Teresio Gamaccio. Il titolo spiega tutto, così come la seppiata foto di copertina: “I Sella in Valle d’Aosta- Imprenditori e alpinisti fra Ottocento e Novecento”.
Il clima storico, che attraversa il tempo, lo si capisce sin dall’inizio della nota introduttiva di Pietro Crivellaro: “Scrivendo del giovane Quintino Sella che aveva compiuto la pionieristica scalata del Breithorn, l'abbé Gorret lo definì «un inglese di Biella». L'ascensione era avvenuta nel settembre 1854, prima ancora che nascesse a Londra l'Alpine Club, il capostipite dei club alpini. Il prete valdostano intendeva dire «un alpinista di Biella» perché a quel tempo erano tutti inglesi i forestieri che si spingevano sulle montagne della valle d'Aosta per scalarle. E l'abbé Gorret, enfant du pays e pungente intellettuale, nominato socio onorario del Cai per il suo ruolo decisivo nella prima scalata del Cervino dalla cresta del Breuil, era un intenditore che sapeva bene di cosa parlava”.
Già, i Sella - oggi giganti nel settore bancario e finanziario - furono il volto del nascente alpinismo italiano (anche se l’Italia politica non c’era ancora), che si contrapponevano ai grandi alpinisti inglesi che salivano le cime alpine.
Ma i legami con la Valle precedono e sono così spiegati: “I primi contatti della famiglia Sella con la Valle d'Aosta avvengono con Maurizio Sella di Giovanni Domenico (n. Sella di Valle Superiore Mosso 10 aprile 1784 - m. Biella 21 agosto 1846) che nel 1835 compie una scelta che porta a Biella il centro della sua attività laniera e della sua famiglia. I nuovi macchinari della rivoluzione industriale mossi dall'energia idraulica, introdotti nel Regno di Sardegna dal cugino Pietro Sella, avevano mutato radicalmente il sistema produttivo: era divenuta fondamentale la disponibilità di una maggiore quantità d'acqua per dare il moto alle macchine. Nel 1835 egli coglie l'occasione della vendita del "Filatore" da seta con annesso lanificio e albergo di virtù, costruito dal Santuario di Oropa sulla riva sinistra del torrente Cervo in Biella nel 1695, per dar lavoro agli indigenti. La vendita dell'immobile è associata ai diritti d'acqua derivata dal torrente Cervo; è un'opportunità che non si lascia sfuggire (…) Da subito il lanificio instaura rapporti commerciali con i territori confinanti e, sotto la direzione di Maurizio Sella, il lanificio vende i tessuti prodotti anche in Valle d'Aosta. Nelle lettere ricevute dal lanificio negli anni dal 1836 al 1847 compaiono i seguenti nominativi: Pierre Marie André di Aosta, Emanuele Ay-monod di Aosta, Jean Baptiste Pignat di Aosta, Joseph Lillé di Aosta, Laurent Boch ed Enrico Boch di Aosta, Jacques Joseph Vuillermin di Aosta, Antoine De-lapierre di Aosta, Vincenzo Erba di Aosta, Fratelli Gervasone di Aosta, Damier Liboz di Aosta, Jean Marie Pivot, Marianne Pivot, Giovanni Battista Pignet di Aosta, Pierre Pivot di Aosta, Michele Fracchia di Saint Vincent. Nelle lettere si parla della richiesta di tessuti di lana di varia qualità e colore, di pagamenti, di recuperi di alcune somme per il fallimento di negozi e della consegna di pezzi di ghisa per la riparazione dei macchinari del lanificio”.
Ma, fatta questa premessa, si raccontano poi le avventure alpinistiche delle successive generazioni e del ruolo di Quintino Sella, cui si deve la nascita del Club Alpino Italiano, che oggi penso stenterebbe a comprendere - da conservatore qual era - la sterzata alla sinistra estrema di parte della dirigenza del sodalizio alpinistico, che è pure ente pubblico non economico e dovrebbe garantire neutralità politica.
Quel che è certo è che nel DNA dei discendenti Sella la montagna è impressa e li ha spinti su tutte le montagne del mondo, passando il testimone di padre in figlio.
Ho ringraziato il Presidente Sella in una lettera in cui ricordo un legame con la mia famiglia e che qui riporto: “Si deve ad un Sella la responsabilità di un ramo ormai valdostano dei Caveri. Lo si legge in una Tesi di laurea presso l’Università di Firenze: “La classe dirigente liberale e lo sciopero: La Relazione della commissione parlamentare sugli scioperi del 1878. Relatore Professoressa Gigliola Dinucci, Candidata Arianna Michelini”. In sostanza – come per altro ben ricostruito dallo storico Guido Quazza in un suo libro - il mio bisnonno Paolo Caveri, sottoprefetto a Biella, organizzò un incontro fra lavoratori in sciopero e industriali tessili, suscitando le ire di Quintino Sella allora Ministro, che ne chiese la testa al collega dell’Interno. Così venne trasferito ad Albenga e poi ad Aosta, dove conobbe la mia bisnonna Ermine Antoniette De La Pierre Zumstein ed ebbero un figlio, mio nonno René.
Cito due passaggi della tesi: “Ad esempio, soltanto pochi giorni dopo la sua nomina a ministro dell'interno Ubaldino Peruzzi fu informato con una lettera da parte di Quintino Sella di "scioperi di operai che nocquero nel Biellese alle fabbriche del Mandamento di Mosso' delle zone che il Sella conosceva molto bene in quanto qui aveva avuto i natali e qui la sua famiglia era titolare di diversi opifici tessili. Nella lettera, del 31 dicembre 1862, Sella si dice molto preoccupato dello stato del conflitto e tuona contro il sottoprefetto Caveri, reo di essersi intromesso nei rapporti fra operai e padroni tentando di risolvere la vertenza senza essere stato per questo richiesto dai fabbricanti. Dalle parole di Sella emerge una certa amarezza nei confronti delle popolazioni operaie del biellese che "furono fin qui tranquille e [fra le quali] vi furono pochissimi episodi di perturbazione", e che ora invece stanno purtroppo mostrando la loro parte peggiore con un atteggiamento apertamente conflittuale verso i loro datori di lavoro.”
E poi: “ Riprendendo poi un'idea che era stata anche del Sella alla fine degli anni Sessanta, il ministro auspica che il compito delle autorità governative in merito allo sciopero si limiti alla tutela dell'ordine pubblico, evitando l'intromissione diretta fra operai e industriali, prendendo addirittura impegni che poi non potrebbero essere rispettati con grande danno per la credibilità stessa delle autorità; un simile atteggiamento era infatti già costato la rimozione, sollecitata fra gli altri anche da Sella, del sottoprefetto di Biella Caveri intromessosi nella vertenza fra operai e fabbricanti in occasione dello sciopero del 1862 in uno dei lanifici del biellese”.
Poco tempo dopo, d’accordo anche il suo prestigioso avo, le trattative con i sindacati divennero la normalità!”

Amici uguali o diversi

Non camminare davanti a me, non posso seguirti. Non camminare dietro di me, non posso essere una guida. Solo cammina accanto a me e sii mio amico (Albert Camus)

L’estate è la stagione ideale per ricordare vecchie amicizie sparite per via di luoghi non più frequentati e a causa della rottura rappresentata dal tempo trascorso.
Lo dico con mestizia, ma anche con la gioia generata dal solo ricordo di persone care, che hanno inciso su di me e spero che sia accaduto loro la stessa cosa.
D’altra parte le amicizie, tranne rari casi di resistenza, vanno e vengono in un flusso di cambiamenti e novità che è di certo arricchente per la propria vita.
Capita di trovare vecchie agendine telefoniche e di chiedersi dove saranno finite alcune di quelle persone un tempo vicine se non intime e poi archiviate nel cervello sezione ricordi del passato. Sapendo che in certi casi la loro impronta è indelebile come certi fossili imprigionati nelle rocce.
In tempo di Social con queste strane amicizie virtuali ci si pone legittimamente un problema, affrontato su Le Monde da Marion Dupont, da cui traggo qualche spunto.
L’interrogativo è secco: “Les relations amicales peuvent-elles survivre au dissensus?”.
Poi si aggiunge: “Si la bienveillance envers les idées de ses amis est importante, les désaccords peuvent engendrer des difficultés de communication.
Ce n’est presque rien, un grain de sable dans une machine autrefois si bien huilée. Soudain, de minimes points de friction sont apparus entre vous et vos amis, symptômes d’une divergence d’opinions. Il y eut d’abord un désaccord mineur sur le lieu des prochaines vacances (prendre l’avion pour rester au bord d’une piscine est-il bien nécessaire ?) ; puis une escarmouche à la suite d’une blague aux accents sexistes. Rien qui ne puisse faire l’objet d’une discussion apaisée entre adultes ; rien qui ne mette en danger une amitié.
Mais, dans l’interstice creusé par le désaccord entre les camarades, un doute s’est logé. Peut-on vraiment être ami avec quelqu’un qui ne partage pas nos idées ? Si, dans la fiction, les tandems contrastés ont du succès, de Sherlock Holmes et le docteur Watson à Astérix et Obélix, qu’en est-il dans la réalité, lorsque des divergences dans les valeurs et dans les idées se font jour ?”.
Bella questione per chi fa politica e rischierebbe di ritenere che l’amicizia significhi amico=proprio elettore o - pensiamo ai dissidi sui vaccini - che fra chi è pro e chi è contro si possa creare un insanabile dissenso è una rottura secca. Ipotesi quest’ultima talvolta per me realmente verificatasi.
Sulla politica che crea dissensi fra amico così si esprime la Dupont: ”La dissension politique peut effectivement mener au conflit et engendrer des difficultés de communication entre amis, voire une souffrance psychologique. Résultat, une majorité d’individus (61 %) déclare dans la même enquête préférer une discussion politique avec « quelqu’un qui a plutôt les mêmes idées » que lui, et 70 % des personnes interrogées indiquent fréquenter des amis du même bord politique qu’elles. Au sein des relations affinitaires comme le couple ou l’amitié, « l’homogamie politique reste le modèle que l’on préfère, et c’est d’ailleurs le modèle majoritaire », remarque l’autrice de Toi, moi et la politique. Amour et convictions (Seuil, 2008).
Cet écart entre les discours et les pratiques n’est d’ailleurs pas le même partout : selon les travaux d’Anne Muxel, l’intolérance aux opinions différentes des proches est par exemple plus grande dans les milieux de gauche que dans les milieux de droite”.
Interessante pensare che chi è a Sinistra sia meno tollerante a certe differenze di vedute in politica. Personalmente credo che ciò valga, prescindendo dalla vecchia categoria fra Destra e Sinistra, rispetto all’apertura mentale delle persone, che funziona se non si è imprigionati nelle prigioni dell’ideologia e del radicalismo.

Il PNRR centralista

In questa seconda parte della Legislatura regionale mi sono ritrovato in maniera più compiuta a gestire la delega sul PNRR. A proposito ho scritto che è come ritrovarsi seduto su di un ottovolante e cioè in uno stato di perenne fibrillazione con decisioni che mutano lo scenario.
Per chi non conoscesse di che cosa si tratta ricordo in breve e senza troppo approfondimento che il piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR: acronimo orribile che evoca una pernacchia) è il programma con cui l’Italia ha deciso di gestire i fondi cospicui di Next generation Eu. Si tratta dello strumento di ripresa e rilancio economico introdotto dall’Unione europea come risposta rispetto alle conseguenze economiche e sociali causate dalla pandemia. Redatto dall’allora governo Draghi e approvato dalla commissione europea nel giugno 2021, il PNRR italiano ha una struttura articolata e si è trovata ad impattare con successivi due cambi di Governo, il disastroso Conte e l’ondivago Meloni.
Il Piano prevede sei missioni, organizzate in componenti, ognuna delle quali comprende una serie di misure, che possono essere riforme normative o investimenti economici. Dalla transizione ecologica a quella digitale, dalla sanità alla scuola, dai trasporti alla giustizia: le materie che sono vastissime contano, in settori molto diversi e direi tentacolari, centinaia di misure, di riforme necessarie e di investimenti programmati incanalati in una rete burocratica impressionante e controlli asfissianti tra piattaforme che non funzionano, risposte inefficaci alle richieste di chiarimento, spada di Damocle che pendono su chi se ne occupa.
Ciascuna di queste iniziative ha diverse scadenze da rispettare lungo uno o più anni dal 2021 al 2026. Nel frattempo la guerra in Ucraina ha innescato nuove ricadute sull’economia e spicca la crisi energetica, mentre in parallelo le emergenze ambientali hanno purtroppo dimostrato la loro assoluta centralità. Così come è apparso evidente di come la miriade d’interventi si incrocia con tutti i fondi europei e con i finanziamenti statali con un impatto notevole sui diversi livelli della democrazia locale, in primis le Regioni.
Il dato iniziale che come Valle d’Aosta abbiamo sbandierato nelle sedi ufficiali anche a costo di apparire antipatici è la scelta rigidamente centralistica sin dall’inizio e questa scelta non è mai stata corretta fino in fondo. Qualche barlume sembrava emergere dal nuovo Ministro, Raffaele Fitto, che ha proposto un accordo Regione per Regione su cui noi abbiamo concordato, sempre che non sia uno strumento dirigistico da Roma in una logica di fondo di intromissione in competenze regionali con una logica sostitutiva che non starebbe né in cielo né in terra. Mentre si era in attesa, concordata immagino con l’Unione europea, è esplosa – scusate il termine guerresco – una corposa riprogrammazione mai concordata con le Regioni e con il sistema degli enti locali.
Così ci è toccato scrivere: “In primo luogo si osserva come, ancora una volta, le Regioni e le Province autonome non sono state coinvolte nella definizione del documento (pur trattandosi allo stato attuale di una bozza per la diramazione), benché, come ampiamente dimostrato sino ad ora nell’attuazione del PNRR le stesse giochino un ruolo fondamentale per l’attuazione e per le necessarie sinergie da attivare sui territori per massimizzarne l’efficacia. Appare, quindi, quanto mai opportuno e urgente un confronto sul  documento anche al fine di assicurare un allineamento e una coerenza anche con le progettualità e le programmazioni regionali”.
Confronto non facile, perché – come abbiamo scritto – “In termini generali, si segnala come le diverse macrocategorie di proposte di modifica del piano siano non sempre qualificate e quantificate: ciò determina notevoli difficoltà tanto a livello di formulazione di proposte di revisione quanto a livello di richieste di chiarimento”.
Importante per la Valle d’Aosta è il tema energetico nel quadro del progetto presente nel documento e chiamato REPowerEU: “Colpisce e crea forti perplessità il fatto  che  il documento – nell’ambito delle fonti rinnovabili  non presti alcuna attenzione alla fonte idroelettrica, che rappresenta la principale fonte energetica rinnovabile in Italia. In considerazione del fatto che il parco idroelettrico italiano in larga parte ha più di quarant’anni, la previsione in seno al nuovo capitolo del PNRR dedicato al Repower di attività di revampig e di repowering appaiono indispensabili al fine di consentire di ottimizzare e di incrementare le performance degli impianti già esistenti, andando, da un lato, a sostituire componenti datati e inefficienti con nuove tecnologie più moderne, in grado di prolungare la vita utile degli impianti e di ripristinare le prestazioni iniziali, dall’altro, di incrementarne la potenza attraverso prestazioni tecnologiche più performanti. Al fine di assicurare il pieno sviluppo del mercato dell’energia rinnovabile è necessario inoltre introdurre soluzioni che- in modo non ambiguo – garantiscano una soluzione alla riassegnazione delle concessioni idroelettriche affinché si crei un sistema equo di rinnovo, per sbloccare fin da subito gli investimenti e garantire la tutela degli impianti idroelettrici”.
Nelle osservazioni più generali tanti gli altri argomenti: dall’idrogeno alle comunità energetiche, dalle risorse per la gestione del rischio di alluvione e per la riduzione del rischio idrogeologico ai progetti di Aosta per la rigenerazione urbana, dal Piano sui cambiamenti climatici ai pericoli alluvionali.
Vi è infine un tema forte e più generale a tutela della nostra Autonomia speciale, che si riferisce all’ipotesi che fondi del PNRR vengano sostituiti con fondi nazionali. Questo passaggio va chiarito perché spesso è già capitato in passato che si sia ritenuto che per le Autonomie differenziate certi trasferimenti con leggi di settore non dovessero avvenire e, in casi come quello esaminato, si tratterebbe di un’incomprensibile penalizzazione.
 

Il rincorrersi del comunicare

Sparisce anche a me l’uccellino di Twitter. Come direbbe Victor Hugo: “L'oiseau s'enfuit dans l'infini”. Un padrone assoluto, Elon Musk, che ne ha pagato profumatamente l’acquisto, decide di fare il brutto o cattivo tempo in barba a milioni di utenti che vi trovavano spazi e soddisfazione. E ora temono il peggio.
E così mi domando per l’ennesima volta che ne sarà dei Social e cosa sarà di noi a causa dei Social. Per carità, resta chiaro che questi strumenti di comunicazione sono destinati a nascere e a morire.
Esiste per altro una strana staffetta dall’oralità si passò allo scritto, poi i passi successivi hanno visto la voce come protagonista, ma senza dimenticare le immagini e poi si è passati a mischiarli. Lo vediamo su Whatsapp, passando dalla scrittura al messaggio vocale e usando foto, filmati e emoji e affini. Un cocktail che è diventato la quotidianità del nostro correlarsi con gli altri.
Leggevo tempo fa su Internazionale Alard von Kittlitz su Die Zeit, giornale tedesco, che racconta della scrittura e in un passaggio ne svela le origini: ”La paleografia parte del presupposto che ogni scrittura affonda le sue radici nel disegno, per esempio nella pittura rupestre, con le sue raffigurazioni di tori ed esseri umani. A un certo punto si è arrivati all’astrazione: una testa taurina ridotta a pochi tratti, un pube stilizzato in un triangolo. Queste forme astratte sono diventate pittogrammi. Una volta standardizzate, hanno acquisito un contenuto informativo che andava un poco al di là del disegno stesso, come per esempio la testa del toro per indicare in generale ogni esemplare forte di bovino maschio. Significati sempre più astratti hanno dato vita agli ideogrammi, con la testa di toro che rappresenta lo stemma di un clan, per dire, o il triangolo la femminilità. Poi sono arrivati i logogrammi, in cui ogni segno sta per una parola specifica, per esempio rén, il simbolo cinese per uomo. Infine i fonogrammi: segni che non rappresentano altro che suoni, separati dalle cose”.
Ma a un certo punto il passo è decisivo: ”E poi c’è l’alfabeto: bastano circa 25 segni per poter scrivere praticamente le parole di tutte le lingue, in tutte le coniugazioni e declinazioni, in tutti i generi e in tutti i tempi. È infinitamente più semplice e flessibile dei sistemi precedenti: una scatola magica, comoda e inesauribile”.
In seguito un’altra conquista: ”Il nuovo sistema di scrittura fu diffuso in tutta l’area mediterranea dai mercanti fenici, che si resero presto conto dei vantaggi che offriva. E così questa grafia diventò famosa nella storia come alfabeto greco, per poi raggiungere, come alfabeto latino, la forma che mantiene ancora oggi nelle righe che state leggendo. Seicento anni fa Johannes Gutenberg la consegnò alle macchine e ci fu il passaggio dal manoscritto medievale, lettere e immagini faticosamente realizzate da monaci e copisti, a volantini, giornali e pamphlet a stampa accessibili a chiunque. Da allora, ogni lettera è sempre uguale a se stessa: non è più possibile distinguere questa a da quest’altra a da un’altra ancora. Il mondo è irreversibilmente uniforme”.
Ma il mix diventa straordinario se ci se mette la capacità di raccogliere la voce, di diffondere i suoni, cui si aggiungono le immagini. La capacità espressiva dell’umanità diventa straordinaria e dilaga sino quasi ad investirci in un mondo di comunicazioni in continuo movimento.
Oggi calma e silenzio, il far nulla e stare soli sono diventati un lusso.

Discutendo di politica con Casini

Pieferdinando Casini dixit: ”Nel 1983 ho mosso i primi passi nel Palazzo mentre Amintore Fanfani, il grande aretino, uno degli artefici della ricostruzione italiana, stava per rassegnare le dimissioni dal governo. Oggi, dopo quarant’anni, la romana Giorgia Meloni, orgogliosamente di destra, è diventata da qualche tempo la prima presidente del Consiglio donna del nostro Paese. È passata una vita ed è cambiato il mondo. Sono grato al destino che mi ha consentito di conoscerli entrambi, come tutti i massimi protagonisti della vita della Repubblica”.
Ho avuto una esperienza temporale piuttosto analoga, io sono entrato più o meno alla stessa età sua - 27 lui, 28 io - e abbiamo vissuto la Prima Repubblica e poi quella che venne definita la Seconda ed oggi la Terza. Chi mi conosce sa che rifuggo da questa numerazione: in Francia di Repubbliche ne hanno avute cinque, perché a ciascuna corrisponde una diversa Costituzione.
Su questo assieme allo stesso Casini, che ovviamente conosco da tempo anche se poi ciascuno di noi ha volato a quote diverse (lui più in alto, io sin dove ho potuto arrivare), abbiamo discusso a Courmayeur in occasione della presentazione del suo primo libro ”C'era un volta la politica. Parla l’ultimo democristiano”.
Confesso che nell’accingermi a leggerlo avevo qualche pregiudizio. Pensavo a chissà quale ghostwriter (scribacchino a pagamento) ci avesse messo la penna e invece ho trovato un racconto interessante di una lunga avventura politica. Una carriera che per i casi della vita non sempre con il vento in poppa lo avrebbe potuto poco tempo fa portare al Quirinale, se il Presidente uscente, Sergio Mattarella, non avesse accettato di restare per carità di Patria.
Ci sono aspetti umani nel libro, che si mischiano a vicende politiche, ma con occhio di attenzione - che certo piace a chi, come me, sente profondo il proprio radicamento territoriale - per la “bolognesità”. L’impressione è che le ultime due battaglie per conquistare un seggio, avvenute proprio a Bologna, come nona e decima Legislatura nel suo palmarès, gli siano serviti come salvifico bagno di umiltà con l’appoggio affettuoso - in questo tratto di strada - dei suoi figli e nel ricordo del papà che lo introdusse alla politica nel nome della DC.
Quando si scrive del passato, specie se legato alla giovinezza, al fuoco della politica e alla passione di chi sale sull’ ascensore di esperienze prestigiose, esiste il rischio di vedere tutto in positivo con lenti rosa che sfumano i lati scuri. Direi, invece, che Casini, mantenendo un aplomb anglosassone in salsa emiliana, rappresenta la realtà da lui vissuta senza enfasi o fanfaronate.
Se esiste una nostalgia quella è rappresentata da un politica che contava su grandi personalità, su partiti organizzati, sulla competenza come requisito e sul rispetto degli avversari anche nei passaggi più aspri. Poi la cosiddetta Casta (termine ignobile) è finita tutta nel mirino, senza distinguere i buoni e i cattivi, innescando fenomeni intrisi di demagogia, populismo e antiparlamentarismo. La punta di eccellenza del degrado l’ha avuta il grillismo, come esempio di dilettantismo puro e di violenza verbale senza costrutto.
Abbiamo condiviso - senza omissioni per per certe nefandezze della partitocrazia- queste analisi e i pericoli della crisi della democrazia e della partecipazione dei cittadini alla Cosa pubblica con un Parlamento ridotto di numero per seguire le mode e oggi per questo reso meno efficiente con uno strapotere del Governo che con decreti legge a raffica fa tabula rasa. Si aggiunge il gioco dell’apposizione dei voti di fiducia, scelta avvilente per ruolo e lavoro di deputati e senatori.
Certo il processo si era già innescato con certo berlusconismo e accentuato dalla sostanziale rinuncia di una Lega ormai partito personalista alla possibile “rivoluzione” federalista.
Ragionamenti attorno alla politica che mi pare abbiano interessato il folto pubblico che ha seguito l’incontro di Courmayeur e mi fa piacere che in tanti mi abbiano espresso apprezzamento per quanto considero una necessità. Che tornino forme di partito più strutturate e che chi ha avuto la fortuna di fare esperienze significative possa trovare un rinnovato interesse dei più giovani per quella staffetta generazionale che può rendere la democrazia sempre viva e adatta al mutare dei tempi.

I troppi negazionisti

Una volta il negazionismo storico aveva un volto tragico. Ed erano coloro che negano l’Olocausto, sostenendo panzane tipo che i campi dì sterminio non fossero altro che un’invenzione della lobby ebraica. Tesi folli che hanno ancora qualche sostenitore, malgrado le loro ricostruzioni siano evidenti balle non solo distorcenti ma pure offensive.
Da questo ambiente di estrema destra spunta anche la dimostrazione di come negazionisti e complottisti siano tutt’uno. Pensiamo a Qanon, la teoria cospirazionista diffusa negli Stati Uniti a partire dall’ottobre 2017 sul sito web 4chan dall’utente anonimo Q (da cui per metonimia deriva la denominazione), sulla base della quale esisterebbe un deep state globalizzato, organizzato in una rete mondiale composta da celebrità di Hollywood, miliardari e politici democratici dediti alla pedofilia e al satanismo. Sul filone delle invenzioni storiche, meno terribile, ricordo l’emergere delle tesi grottesche di un Sud sviluppatissimo e fiorente distrutto dall’invasione dei piemontesi che volevano l’Unità d’Italia in una logica predatoria.
Poi pian piano è emerso il negazionismo scientifico. Ricordo chi combatte l’evoluzionismo perché negherebbe l’esistenza di Dio e chi lo fa - roba da ricovero - nel nome di civiltà aliene che avrebbero colonizzato la terra.
Il fenomeno non è statico in un mondo pieno di persone bizzarre pronte a fare comunità e si è espanso lungo entrambe le piste. Sul terreno scientifico il top è stato raggiunto dai NoVax, che ancora imperversano con le loro teorie complottiste e con la loro aggressività che ci è toccato sopportare sin dai tempi della pandemia e il cui strascico avvelena ancora.
Nel filone storico-politico annotiamo la pletora di sostenitori della Russia con le loro mistificazioni le più varie sulla guerra di aggressione contro la povera Ucraina, dipinta ad esempio come un covo di nazisti al soldo della truce Nato.
L’aspetto peggiore di queste storie - e NoVax e filoputinisti sono esemplari - è che in Italia molti dei sostenitori di questi negazionismi sono diventati personaggi invitati con inquietante continuità sulle reti televisive, dando loro un palcoscenico per esprimere le loro teorie senza senso.
Questo vale ormai per una nuova questione, vale a dire i negazionisti del cambiamento climatico per mano umana ed esiste un fil rouge inquietante che li lega a antivaccinisti e filorussi. Sono spesso gli stessi che passano da un tema all’altro, seguendo le loro ossessioni.
Perché hanno questi spazi? Lo spiegava ieri, nella sua rubrica delle lettere del Corriere, Aldo Cazzullo.
Così scrive: “L’informazione ha le sue regole. È chiaro che il clima sta cambiando: per rendersene conto non occorre andare a Giakarta che sta per essere sommersa dall’oceano, basta salire in Valle d’Aosta ai piedi del ghiacciaio della Brenva che si sta sciogliendo. Ma lei si metta nei panni di un conduttore di talk-show. Mica può ospitare cinque persone di buon senso che dicono ognuno la stessa cosa, che oltretutto è sotto gli occhi di chiunque. Per creare contraddittorio, dibattito, discussione, insomma show, il conduttore ha bisogno di qualcuno che dica una cosa diversa, che oltretutto tantissimi spettatori vogliono sentirsi dire: a luglio ha sempre fatto caldo, non sta succedendo nulla, è tutto un complotto delle multinazionali per fregarci”.
Poi la stoccata da applauso contro il seminatore di zizzania, Marco Travaglio, che sulla Russia dice delle cose inascoltabili con quel tono di superiorità da schiaffi: “Lo stesso vale per il direttore di un giornale non particolarmente diffuso, che ha bisogno di differenziarsi dagli altri, e troverà sempre un pubblico ansioso di essere tranquillizzato, a costo di sentirsi dire che questi sedicenti esperti sono in realtà menagramo invidiosi”.
Prosegue Cazzullo: “Figurarsi poi se si trova l’accademico disposto a ricordarci che il clima sulla Terra è sempre cambiato. Giusto: i ghiacciai si sono sempre sciolti e ricomposti. Però ci mettevano migliaia di anni. Non poche decine. Anche perché sulla Terra non c’erano otto miliardi di persone e un miliardo e 200 milioni di automobili a benzina o a gasolio, che nel giro di dodici anni diventeranno due miliardi”.
Spiegazione sintetica in poche righe, che dovrebbe bastare in un mondo senza negazionisti.

Il vallone delle stelle

Fra i pochi privilegi dell’invecchiare è che hai ricordi delle cose vissute e naturalmente delle persone. Questo consente di avere la possibilità di raccontare ad altri delle onnessioni mentali altrimenti per loro non percorribili.
Ci pensavo in queste ore mentre ero semisteso su di una poltrona con il naso in su verso lo schermo del planetario di Saint-Barthélemy, che è una frazione montana del Comune di Nus in Valle d’Aosta. Il luogo è suggestivo, perché è un vallone e non una vallata, quindi una specie di incompiuta rispetto all’orografia della mia Regione.
Steso com’ero, in occasione del ventennale dell’Osservatorio astronomico che si trova a pochi metri, vedevo scorrere i misteri del cosmo fra galassie, pianeti, stelle e buchi neri e pensavo con i piedi più a terra al genius loci del posto.
L’avevo raccontato poco prima ai presenti in uno di quei discorsetti di circostanza in cui mi sforzo, quando ci riesco, di dire qualcosa che non annoi l’uditorio. Così il primo pensiero era al fatto singolare che in quel piccolo paesino per anni - e ne ero testimone diretto nei miei esordi radiofonici in RAI - esisteva una piccola stazione meteorologica gestita da Clément Fillietroz, cui ora è intitolato la Fondazione che gestisce lassù l’attività scientifica. La Voix de la Vallée, il Gazzettino radiofonico regionale, si concludeva con i bollettini meteo elaborato lassù da questo appassionato montanaro.
Cambio scenario. Da giovane deputato vengo chiamato a Ivrea da un amico a fare da moderatore a una serata con il famoso fisico Tullio Regge. È lui, a fine serata, a chiedermi se fosse stato o realizzazione un osservatorio astronomico a Saint-Barthélemy. La risposta mia fu che non ne sapevo niente e Regge mi spiegò che quella nostra località montana era stata candidata per un osservatorio europeo, poi costruito alle Canarie e la scelta era dovuta alla posizione e alla mancanza di inquinamento luminoso. L’indomani chiedo spiegazioni al mio segretario particolare di allora, David Mortara, consigliere comunale di Nus e scopro che pure lui ignorava della candidatura. Partiamo entrambi in tromba e poniamo il seme che poi ha sortito l’esito finale di un luogo utile per il turismo e anche per la ricerca scientifica.
Ma ci sono altre sue connessioni. La prima significativa per chi, come me, si dagli esordi si è occupato dei progetti Interreg e cioè quel programma europeo che si occupa dall’inizio degli anni Novanta della cooperazione transfrontaliera. E essenziale per i primi passi del progetto di cui parlo un accordo con la Savoia grazie ad un amico, il politico di lungo corso Michel Bouvard. Un inizio che ha poi portato ad avere soldi europei per Saint-Barthélemy.
Il secondo filone è stato il ruolo essenziale della guida allo sviluppo del sito di un valdostano d’adozione, Enzo Bertolini, nato a Verona il 4 maggio 1932, si era laureato in Ingegneria industriale elettrotecnica a Padova nel 1958, specializzandosi in Fisica nucleare applicata, per poi lavorare, studiare e insegnare, girando il mondo: dall'Europa (al Cern di Ginevra) agli Stati Uniti (professore all’University of California), passando per la Corea del Sud. Fu lui a scegliere fecondi percorsi di ricerca scientifica, presi in mano successivamente dal vulcanico Jean Marc Christille, che ha dato ulteriore impulso ad un’eccellenza valdostana che attira ricercatori per nuove scoperte e anche turisti interessati dalla scienza e dal cielo stellato.
Tanti ricordi e tanti momenti di vita vissuta.

La Storia per guardare avanti

Un lungo dibattito nel Consiglio regionale della Valle d’Aosta su di un tema politico fa sempre bene. Avviene abbastanza di rado, perché ormai i lavori sono spesso troppo concentrati su domande e risposte attraverso interrogazioni e interpellanze che simulano fra maggioranza e opposizione una specie di lotta a due, tipo wrestling, lo sport-spettacolo nel quale si combina l'esibizione atletica con quella teatrale.
Per cui una leggina sull’Ottantesimo dell’Autonomia ha invece sviluppato una mattina di tenzone verbale. L’anniversario è legato a quel periodo fra guerra e dopoguerra in cui si sono sviluppate una serie di vicende ormai storicizzare, ma ancora da indagare che hanno portato all’attuale ordinamento autonomo della Valle d’Aosta. Gli anniversari di questo tipo servono per ricordare e celebrare il passato e fanno parte del dovere della memoria, troppo spesso corta nei popoli come nelle persone.
Nel caso in esame non bisogna solo pensare agli aspetti positivi che portarono all’attuale Regione autonoma, ma al male e al dolore da cui sortì questa stagione autonomistica che stiamo ancora vivendo.
“Quelli che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo”.
Questa frase si trova incisa in trenta lingue su un monumento nel campo di sterminio di Dachau. Uno dei luoghi utili per evocare in un batter d’occhio uno dei tanti orrori del Novecento.
Anche io, in quindici minuti di intervento, che ormai sono tempo giusto di fronte a qualunque uditorio per la drastica riduzione dei tempi di attenzione, ho espresso i miei pensieri, di cui - senza ripetere il medesimo discorso - vorrei rievocare qui il senso. Nella convinzione della bontà della scelta di chi come me ha scelto la pericolosa esperienza di andare a braccio nell’oralità, sapendo però che lo scritto ha un suo valore complementare. Scrivere ha una sua intrinseca lentezza che permette di meglio congelare i propri pensieri.
Vorrei anzitutto sostenere la bontà della Storia e del suo studio e considero. per chi crede dell’identità valdostana, un dovere conoscerne elementi di base per capire chi siamo oggi e chi eravamo, come comunità, in quei travagliati anni Quaranta del secolo scorso. Per capire perché si affermò anche da noi il Fascismo e come mai un piccolo gruppo di persone non si piegò al regime e consentì quella successiva Resistenza con una marca originale rispetto agli altri territori. Per cui alle rivendicazioni democratiche valide per tutti si aggiunse la richiesta di una libertà per i valdostani e come conseguenza di una forma di autogoverno. Quanto si ottenne al ribasso rispetto al pensiero federalista dei padri fondatori che si rifacevano al pensiero del martire valdostano, Émile Chanoux, ucciso dai fascisti nel maggio del 1944.
Altro dovere: capire le ragioni ancora più antiche di questo desidero di autonomia e l’importanza della propria cultura in un lembo di terra di confine e del ruolo del particolarismo linguistico che ne consegue. La montagna, i suoi ritmi e le sue tradizioni, sono lo scenario oggi come allora da cogliere anch’esso nella sua singolarità.
La trasmissione generazionale è in questo senso essenziale e se le celebrazioni sono indispensabili per mantenere vivi fatti e ricordi non devono essere imbevute di retorica e di prosopopea. Bisogna scegliere modalità semplici ma efficaci con una comunicazione che crei ponti con giovani distratti da mille cose e purtroppo distanti dall’impegno politico che fu il motore del riscatto degli anni che intendiamo rievocare.
In più - e questa è la parte più difficile - per la Politica valdostana sarebbe ora di guardare con attenzione agli scenari futuri, crescendo gli elementi comuni per evitare l’addormentamento delle coscienze e per mettere a fuoco le sfide per evitare che l’autonomia speciale declini pericolosamente. Il confronto con Roma e con l’Europa è un esercizio indispensabile e non ci si deve chiudere in sé stessi e cedere alla tentazione di onorare doverosamente il passato senza adoperare l’occasione per guardare avanti.

Lanzichenecchi no, maleducati sì

Ho seguito la discussione scaturita da un articolo su La Repubblica, oggi in mano - come altri giornali - al Gruppo GEDI e cioè agli eredi Agnelli.
Si è trattato - lo dico per chi non ha seguito il caso e penso siano in pochi - di un articolo strano dai tratti letterari al limite dell’elzeviro ma con riflessioni sociali e con punte un pelo narcisistiche del protagonista.
Quanto non stupisce nell’eclettico giornalista e scrittore Alain Elkann, cittadino americano nato a New York nel 1950. Figlio di un banchiere, industriale e rabbino, marito di Margherita Agnelli e padre di John, oggi al vertice della rete societaria ex Fiat, e Lapo, personaggio da cronache mondane ben conosciuto.
Cos’ha scritto Elkan sul giornale di cui la sua stessa famiglia è editrice?
Cito l’inizio di questo racconto ambientato su di un treno: ”Non pensavo che si potesse ancora adoperare la parola “lanzichenecchi” eppure mi sbagliavo. Qualche giorno fa, dovendo andare da Roma a Foggia, sono salito su una carrozza di prima classe di un treno Italo. Il mio posto assegnato era accanto al finestrino e vicino a me sedeva un ragazzo che avrà avuto 16 o 17 anni.
T-shirt bianca con una scritta colorata, pantaloncini corti neri, scarpe da ginnastica di marca Nike, capelli biondi tagliati corti, uno zainetto verde. E l’iPhone con cuffia per ascoltare musica. Intorno a noi, nelle file dietro e in quelle davanti, sedevano altri ragazzi della stessa età, vestiti più o meno allo stesso modo: tutti con un iPhone in mano”.
A questa compagnia di giro si contrappone un compassato e direi alieno all’ambiente ed è lo stesso Elkan, che si descrive così: ”Io indossavo, malgrado il caldo, un vestito molto stazzonato di lino blu e una camicia leggera. Avevo una cartella di cuoio marrone dalla quale ho estratto i giornali: il Financial Times del weekend, New York Times e Robinson, il supplemento culturale di Repubblica. Stavo anche finendo di leggere il secondo volume della Recherche du temps perdu di Proust e in particolare il capitolo “Sodoma e Gomorra”. Ho estratto anche un quaderno su cui scrivo il diario con la mia penna stilografica”.
Facile capire quanto questo insieme che puzzava di evidente snobismo, già nei brani sommariamente citati, abbia sortito un putiferio di prese in giro, di pesante sarcasmo, di prese di distanza.
Trovo molto giusto che ci sia stata una reazione ad un articolo-narrazione sfortunato e non giustificabile nei toni e nei contenuti.
Ho letto abbastanza stranito l’articolo e molte delle cose scritte in seguito e vorrei osservare che si è gonfiato il caso al di là probabilmente del dovuto, come ormai capita nel caravanserraglio dei Social.
Dell’articolo, tuttavia, resta uno sfondo di cui bisogna riflettere ed sono la rozzezza e la maleducazione al limitare della violenza che si manifestano nella società e che Elkan in fondo affronta con una sorta di candore che stride e che ha creato per quel suo tono acido il mare di polemiche.
Dette le stesse cose in altro modo e senza puzza sotto il naso dal sapore classista forse Elkan non sarebbe stato processato e portato al patibolo. Direi che se l’è cercato e immagino che difficilmente cadrà di nuovo in una trappola che si è costruito da solo. Un autodafé su cui dovrà di certo riflettere Elkan, evitando forse di salire su di un treno…
Resta e si staglia il rischio di un degrado. Ha scritto Karl Popper: “E in che cosa consiste fondamentalmente un modo civilizzato di comportarsi? Consiste nel ridurre la violenza. È questa la funzione principale della civilizzazione ed è questo lo scopo dei nostri tentativi di migliorare il livello di civiltà delle nostre società”.
Anche su di un treno.

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