luciano's blog

Il patto fra il Piano e il Monte

Una coppia di vecchi amici, Mariano Allocco e Annibale Salsa, hanno scritto un documento sulla montagna nelle settimane scorse e ho aspettato qualche tempo per ospitarli nel mio Blog. Non sto a lodarli per la vecchia militanza in favore della politica della montagna perché non ne hanno bisogno. Viviamo assieme, in scambi periodici, una qualche delusione sul dibattito su di un tema cruciale per i montanari, che non sempre vede riflessioni e proposte di qualità e rischia di affondare nella retorica convegnistica e in più parole che fatti. Ma mai perdiamo la speranza di un sussulto e vediamo ogni tanto la luce in fondo al tunnel.
Questo l’inizio del contributo: ”Il dibattito sulla “questione montana” sta sempre più prendendo piede e coinvolge più voci in spirale positiva. Si tratta di un confronto che sta indirizzando energie, idee e proposte verso un obiettivo che, a nostro avviso, non è più procrastinabile: arrivare a un nuovo Patto tra Monte e Piano. Vi è un importante precedente nella storia delle popolazioni alpine rappresentato dal “Patto del Grũtli” (1 agosto 1291) con il quale i montanari dei Cantoni centrali (forestali) delle Alpi svizzere si federano tra loro avviando successivamente un processo di negoziazione con gli abitanti delle città del Piano. In tempi più recenti un documento molto importante sarà la “Carta di Chivasso” (19 dicembre 1943) che rilancia, in chiave federalista, un modello di governance per le regioni alpine”.
L’idea del patto, che va sviluppata anche in termini giuridici e non solo ideali, viene poi approfondita nella parte più propriamente legata al passato in termini esemplari: “Parliamo di un Patto nuovo perché la storia ci dà testimonianza di un Patto antico in base al quale le Alpi, prima luogo di passaggio, divennero luogo abitato stabilmente allorquando si riconobbero “libertà e buone vianze” a coloro che si facevano montanari e su questo Patto genti di buona parte d’Europa si fecero allora montanare.
Partiamo da una storia lontana per proporre un contributo al dibattito, sicuramente non semplice, al fine di arrivare a un quesito dirimente a cui proprio le “parti” debbono dare una risposta condivisa.
Concessioni di franchigie, immunità, libertà si ritrovano trasversalmente alle Alpi su entrambi i versanti, sia quello italiano sia quello esterno transalpino fino al XVIII secolo allorquando i confini trasformati in frontiere salirono sullo spartiacque e le Alpi, che fino ad allora erano state cerniera e raccordo, divennero barriera divisoria.
Nei secoli XII-XIII-XIV alcuni signori territoriali (laici ed ecclesiastici), particolarmente interessati nel mettere a frutto le terre incolte di montagna, avevano deciso di sottoscrivere contratti di insediamento con famiglie coloniche disposte a lasciare il Piano per vivere sulle alte terre in “libertà e buone vianze”, privilegi che in pianura non erano concessi. Fu allora che l’Ecumene, i territori in cui l’uomo vive stabilmente, raggiunse le quote più alte.
Sulle Alpi i nuovi abitanti si fecero montanari e convissero senza problemi con genti diverse che altrove si trovavano in conflitto. L’immanenza della geografia dei luoghi e del clima prevalsero su tutto e anche in ciò, dalla storia del vissuto alpino, si potrebbero trarre insegnamenti utilissimi anche per i nostri tempi.
La prima grave crisi dell’economia alpina arrivò con l’industrializzazione della metà dell’800 quando il vapore prima e l’elettricità poi fecero scendere a valle fabbri, falegnami e tutto il settore secondario.
Contemporaneamente si ebbe un incremento demografico, iniziò l’emigrazione permanente ma il colpo finale arrivò nel secondo dopoguerra allorché migliaia di imprenditori agricoli chiusero le loro aziende per scendere al Piano dove serviva forza lavoro nell’industria.
Il bilancio economico di questo esodo rimane tutto da fare.
Fu allora che cominciò la discesa dal limite superiore dell’Ecumene. Discesa che continua inesorabile e che lascia dietro di sé un bosco che avanza inesorabile ovunque, una marea verde che tutto ingloba, una colata che tutto travolge e cancella l’orma dell’uomo”.
Dalla ricostruzione storica al presente: “Non scriviamo di queste vicende passate per una semplice rivisitazione storica ma perché siamo convinti che, per parlare di “questione alpina”, bisogna ripensare - adattandole al presente e al futuro - certe buone pratiche avviate con lungimiranza in tempi lontani.
Se per Ecumene intendiamo i territori in cui l’uomo può vivere tutto l’anno, le alte Valli possono ancora essere strategiche per la vita dell’uomo senza farle ritornare territori dominati dalla “wilderness”, luoghi in cui la natura selvaggia (soprattutto quella dei grandi carnivori che rischiano di allontanare definitivamente gli alpigiani dalle malghe) è padrona assoluta.
Questo, in sintesi, è il tema che proponiamo di affrontare per discutere della “questione alpina” tenendo conto che le scelte fatte negli ultimi quarant’anni sono state improntate all’abbandono del Monte.
A livello istituzionale si è introdotto il metodo maggioritario smantellando l’approccio comunitario che è stata la colonna portante del governo delle comunità alpine.
La sostituzione, in molte Regioni, delle Comunità Montane con le Unioni Montane - veri mostriciattoli organizzativi che invece avrebbero potuto e dovuto evolvere verso istituzioni a elezione diretta e di autogoverno dei territori e l’istituzione di un sindaco dal ruolo quasi monocratico - hanno prodotto uno scollamento profondo tra comunità e istituzioni.
La politica dagli anni ’90 ha poi guardato verso il Monte con sguardo ecumenico senza significativi distinguo da parte dei partiti che hanno governato, scelta che non ha portato grandi risultati se siamo giunti alla situazione attuale.
Per farla breve: la strategia da adottare verso il Monte deve avere la centralità sull’ambiente naturale o sull’uomo che quell’ambiente vive? Questa è la domanda fondamentale a cui rispondere nel siglare un nuovo Patto tra il Piano e il Monte.
La prima porta le alte Valli a diventare una grande area inselvatichita, che è la deriva attuale, luogo in cui la natura selvaggia la fa da padrona. La seconda ha l’obiettivo di renderle abitabili e vivibili, luoghi in cui una famiglia possa lavorare e restare con i propri figli.
A nostro avviso una scelta si impone al più presto, una decisione di Parte che non ammette
“ecumenismo”, un atteggiamento che le Parti politiche hanno da almeno quattro decenni adottato nei confronti del Monte.
Le Parti devono esprimere scelte coerenti con le diverse impostazioni programmatiche generali come avviene per tutto quanto riguarda il governo dello Stato. Che il Governo dello Stato, delle Regioni, degli altri Enti di gestione competa alla destra o alla sinistra le politiche montane non cambiano.
In modo sommesso rileviamo che l’ecumenismo è l’atteggiamento adottato in Occidente nei confronti delle Colonie da sottomettere e sfruttare, ma il Monte colonia non è e non vuole diventare.
La questione montana si deve nuovamente mettere all’ordine del giorno della Politica nazionale. Ecco perché torniamo a proporre un Patto tra Piano e Monte. Un patto che necessita di creatività, passione e concretezza, forse difficile da definire ma l’importante è cominciare a parlarne, a mettere le carte in tavola senza barare. Questo è l’obiettivo di un Patto tra Pari che si deve scrivere e sottoscrivere.
Non servono pannicelli caldi e rattoppi, serve una scelta di campo. Si deve tornare a confermare agli uomini della montagna le franchigie, le immunità, le libertà e le “buone vianze”: quelle decisioni che fecero delle Alpi una delle regioni più popolate e scolarizzate d’ Europa. Una proposta che lanciamo dalle Valli e per le Valli alpines.”.
Pensieri profondi su cui riflettere.

Gli armeni senza pace

La notizia da agenzia di stampa è asciutta: “Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è arrivato a Nakhchivan, nell'enclave azera in territorio armeno di Nakhchivan per colloqui con il presidente dell'Azerbaigian Ilham Aliyev. L'incontro arriva dopo il riaccendersi delle tensioni in Nagorno-Karabakh tra Bake ed Erevan. "La vittoria delle forze di Baku contro l'esercito dei separatisti armeni in Nagorno Karabakh ha aperto nuove possibilità per una normalizzazione nella regione", ha detto Erdogan”.
Torna così nell’immaginario la spregiudicatezza del leader turco, che mostra quanto sia indegno pensare alla sua Turchia nell’Unione europea ed evoca un fantasma: il genocidio armeno, di cui in fondo i fatti attuali sembrano un’appendice.
Ha scritto Il Post sul dramma degli armeni: “La gran parte del genocidio degli armeni si compì nel giro di un anno, tra il 1915 e il 1916, ma i massacri continuarono anche per gran parte degli anni Venti.
Dei 2,5 milioni di armeni che si trovavano nell’impero ottomano all’inizio del secolo il 90 per cento fu ucciso o deportato fuori dall’impero. Si stima che alla fine del genocidio circa un milione di armeni morì per mano degli ottomani. Alcune centinaia di migliaia di donne e bambini furono costretti a convertirsi all’Islam e furono adottati da famiglie turche, mentre moltissimi altri armeni fuggirono, creando una diaspora che ancora oggi è forte in molti paesi del mondo, compresi gli Stati Uniti”.
Ho letto e riletto libri e documenti sulla tutela delle minoranze linguistiche e nazionali (gli armeni sono pure cristiani e dunque pure colpiti per questo) e le esperienze più interessanti le ho fatte al Consiglio d’Europa che sul tema si è molto impegnato. Peccato che, a dimostrazione fra il dire e il fare nel diritto internazionale, la Turchia - persecutrice anche dei curdi- ne faccia parte.
L’Italia sull’aggressione azera agli armeni di queste ore tace per via del gas indispensabile che arriva dall’Azerbaigian e per altro la stessa timidezza verso la Turchia, per interessi economici, l’ha sempre avuta verso la persecuzione dei curdi e le evidenti ambiguità sulla guerra in Ucraina, dando un colpo al cerchio e una alla botte.
Andrea Riccardi sul Corriere della Sera è fra i pochi ad averne scritto:
“Sembra una storia che si ripete: gli armeni in fuga dalle terre ancestrali, lasciando i loro abitati con le tipiche chiese dalle cupole coniche. Sta avvenendo nel Nagorno Karabakh, enclave armena di meno di 150.000 abitanti nel territorio dell’Azerbaigian, proclamatasi nel 1991, con la fine dell’Urss, Repubblica autonoma, appoggiata dall’Armenia. Le truppe azere ora hanno ottenuto la resa di quelle locali e si apprestano ad integrare la regione nell’Azerbaigian, dopo una grave crisi umanitaria che ha investito gli armeni isolati. È una storia quasi dimenticata, minore di fronte alla guerra in Ucraina. Ma legata a questa crisi. La Russia, storica protettrice degli armeni, è impegnata altrove. Nuove relazioni occidentali del governo di Erevan non colmano il vuoto della ex potenza «imperiale», che ha 2.000 soldati in Karabakh e una base in Armenia. Ora gli armeni del Karabakh stanno partendo (attraverso l’unica via aperta pur con difficoltà), temendo per la sopravvivenza sotto il controllo azero”.
Quadro crudo e realistico di una violenza che strappa dalle proprie radici un popolo.
Alla fine dello stesso articolo, Riccardi evoca i problemi del Caucaso e certe difficili rapporti spesso anche a causa di confini tagliati con l’accetta: ”I nazionalismi hanno sconvolto la convivenza. Nel 1905 gravi scontri avvennero a Baku, tra armeni (ancora vivevano là, spesso benestanti) e azeri. Poco dopo, nell’impero ottomano, maturò il disegno di eliminare gli armeni. Nel 1936, Stalin creò Georgia, Armenia e Azerbaigian. La popolazione era piuttosto mista. Azeri vivevano in Armenia e armeni in Azerbaigian. A quest’ultima Repubblica fu assegnato il Karabach con uno statuto di autonomia. Sulla regione vigilava il Cremlino, finché non si dissolse l’Urss.
Così cominciarono le guerre. La prima nel 1994 con 30.000 morti: l’Armenia vinse occupando territori azeri che creavano continuità territoriale con il Karabakh. Ovunque le popolazioni si spostavano e i segni della presenza dell’altro venivano violati o cancellati. Il Karabakh divenne un simbolo per il nazionalismo armeno. In Azerbaigian era grande la frustrazione per la sconfitta. Venticinque anni hanno cambiato l’Azerbaigian, ricco di giacimenti di gas e petrolio, sostenuto dalla Turchia, divenuto militarmente forte. Oggi gli idrocarburi azeri sono decisi per l’indipendenza energetica dell’Europa dalla Russia. E dell’Italia.
Nel 2020, nella seconda guerra azero-armena, il governo di Baku si è ripreso il territorio perso e solo il Karabakh è rimasto sotto controllo armeno, un’«isola» in territorio azero, collegata con un corridoio stradale con l’Armenia (mentre gli azeri ottenevano facilità di passaggio attraverso il territorio armeno con il Nachicevan). L’accordo avvenne con la mediazione di Putin. Era prevedibile che ci sarebbe stato un terzo atto di guerra da parte di un Azerbaigian rafforzato economicamente e internazionalmente. L’avvicinamento agli Stati Uniti da parte del primo ministro armeno Pashinyan, oggi sotto accusa in Armenia per aver confidato nella Russia, non ha cambiato il quadro geopolitico. Ora, non solo l’Armenia ha perso il controllo su un territorio storico, ma si sente isolata e fragile di fronte ai più di dieci milioni di azeri, alleati con la Turchia, temendo per se stessa. Anche perché ormai, purtroppo, nel quadro internazionale, i contenziosi si risolvono troppo spesso con le armi”.
Le guerre come modo arretrato e incivile per risolvere le questioni e non bastano vaghi proclami pacifisti per bloccare questa deriva, ma un reale rafforzamento del diritto internazionale.

Evviva i funghi!

Da ragazzino a casa mia arrivava Selezione Reader's Digest, rivista curiosa di piccolo formato, che si occupava di argomenti vari. Era un mensile legato alla versione originale statunitense. Leggo ora, per sapere che fine avesse fatto, che ha cessato di essere pubblicata nel 2007 e per altro ne avevo davvero perso le tracce.
Scopro ora, nella mia curiosità di lettura onnivora, l’esistenza ancora di una versione francese nel Québec, che ricorda moltissimo quella versione italiana piena di curiosità e ovviamente riflette la vicinanza anche del Canada francese con gli States.
Per capire la linea editoriale e lo stile propongo con un sorriso un elenco di doti dei funghi. In questi giorni ne ho mangiati una certa dose grazie al dono di amici appassionati nella loro ricerca, quest’anno particolarmente esaltati dalla copiosa nascita dei gustosi saprofiti. Ho una certa nostalgia di quando da bambino, specie nei boschi di Pila, si partiva tutto assieme in famiglia a caccia di funghi, gran parte dei quali tagliati in piccoli pezzi e messi a seccare al sole. Ho poi stampata nella memoria una memorabile mattinata di ricerca sotto la pioggia con un caro amico purtroppo scomparso nella zona del Mont Avic (non era ancora Parco!). Fradici ma felici del buon bottino!
Per gli amanti dei funghi sintetizzo alcuni punti dell’articolo citato.
1. Les champignons triomphent: le marché global devrait atteindre 90 milliards $US d'ici 2028 (il était à 63 milliards en 2022). Les champignons de Paris (blancs et bruns, petits et grands) et les shiita-kés sont des variétés populaires qui comptent pour environ 90% des champignons consommés aux États-Unis. Le Canada est l'un des plus grands exportateurs du monde; les champignons de Paris comptent pour 90% de la culture (dont plus de la moitié est produite en Ontario).
2. Pauvres en glucides, riches en antioxydants et en vitamines B et D, ils constituent une source de protéines et sont un substitut abordable à la viande. Le steak, le blanc de poulet et le bacon se déclinent aujourd'hui dans des versions végé tariennes à base de champignons. En Allemagne, des climatologues ont montré qu'en remplaçant seulement 20% de la viande consommée par une protéine microbienne, le taux de déforestation pourrait diminuer de plus de la moitié d'ici 2050.
3. Les champignons créent sous terre un réseau de filaments, le mycélium, qui contribue à la décomposition des matières organiques végétales et animales, ajoutant ainsi des substances nutritives dans le sol. Suivant un schéma complexe d'impulsions électriques, ce réseau fait circuler de l'«information» qui permet aux arbres, par exemple, de se préparer à une invasion d'insectes.
4. Le plus grand champignon du monde (une colonie en fait) est un armillaria ostoyae (champi gnon couleur de miel) qui couvre une surface de 965 hectares dans les Blue Mountains, en Oregon. De son côté, le yarsagumbu (champignon chenille) originaire du Tibet est parmi les plus chers. Surnommé le «Viagra de l'Himalaya», il aurait des propriétés aphrodisiaques.
Vi risparmio la logica tiritera sui pericoli dei funghi velenosi, che periodicamente ammazzano qualche incauto che li coglie e li mangia. Così come evito di segnalare approfonditamente l’uso in psichiatria dei famosi funghi allucinogeni.
Scritte queste poche righe, resta inteso che la raccolta dei funghi è una passione, ma anche un mestiere. Ricordo un mio coscritto, che purtroppo é mancato, che con campava raccogliendo e vendendo funghi che raccoglieva anche all’estero. Così come, pensando a certe leccornie come i funghi fritti, non posso non evocare qui il ristorante ”da Giovanni” di Quincinetto, autentico tempio dei funghi.

Barbie si ricicla al cinema

Quando avevo letto di un film sulla bambolina Barbie (di questo si tratta, anche se esiste una certa reticenza ad ammetterlo), pensavo ad una melassa zuccherina di esaltazione targata Mattel.
Mi riferisco alla produttrice di giocattoli statunitense con sede a El Segundo, che è periferia di Los 
Angeles e ho visto la loro mega sede con i miei occhi. Si tratta per altro della seconda azienda del settore del mondo per fatturato dietro a Lego. Non stupisce che ora pensi al cinema, visto che la città dov’è nata, che ospita Hollywood, è un mecca del cinema piena di studios.
Su Barbie scriveva tempo fa Beatrice Manca su Fanpage: “A quasi 65 anni, Barbie è più in forma che mai. Il film di Greta Gerwig con Margot Robbie ha ridato nuova linfa a una delle icone del Novecento: la prima bambola adulta, inventata nel 1959 per ispirare le bambine di tutto il mondo a essere ‘tutto ciò che volevano essere'. La storia di Barbie ha attraversato i decenni: le donne cambiavano e Barbie cambiava con loro. Dietro questa fortunata invenzione c'è una donna: Ruth Handler, che fondò l'azienda Mattel insieme al marito Elliott e Harold Matson. Osservando la figlia giocare con i bambolotti ebbe una folgorazione e decise di creare una bambola adulta, ispirata alla tedesca Bild Lilli, con le forme da pin up e il nome della sua bambina. Nacque così Barbara Millicent Roberts o, per gli amici, Barbie”.
Barbie, che ha la fortuna di restare sempre giovane e bella, ha un anno meno di me e, anche se non ho mai giocato con le bambole, l’ho vista crescere - non di statura… - con me, essendo stato un giocattolo amato da molte delle mie coetanee e non solo. Visto che mia moglie Mara, ben più giovane di me, aveva in collezione di Barbie impressionante con tutti gli accessori vari che necessitavano, compreso quel poverino inutile di Ken, dipinto dal film con la giusta ironia.
Anche Mara era prevenuta al momento della visione e più avanzava il film e più era divertita dai messaggi “politici” a vantaggio del mondo femminile di cui il film trasuda. Direi una giusta esaltazione del ruolo femminile, senza certe sgradevolezze del femminismo duro e puro.
Osserva direi coerentemente l’articolo già citato: ”Barbie ebbe un impatto dirompente nel mercato dei giocattoli. Fino ad allora, infatti, le bambine giocavano con i bambolotti, immedesimandosi già nel ruolo di madre. Ma Ruth Handler (moglie del cofondatore della Mattel Elliot Handler) capì che la figlia e le sue amiche cercavano un giocattolo in cui immedesimarsi, non qualcosa da accudire”.
Ha scritto il sito Il Post: ”A livello di critica il film ha ottenuto soprattutto giudizi positivi, con qualche eccezione. Gran parte della critica l’ha definito molto divertente, sia per la sua capacità di prendere in giro la Mattel – l’azienda che produce le Barbie e anche il film – pur includendola in un ruolo centrale nella sceneggiatura, sia per la sua rappresentazione bonariamente assurda dei ruoli di genere. Per alcuni è un capolavoro: sull’Independent Clarisse Loughrey ha scritto che «Barbie è uno dei film mainstream più fantasiosi, immacolati e sorprendenti della memoria recente – una testimonianza di ciò che può essere raggiunto anche nelle viscere più profonde del capitalismo»”.
Ho letto critiche pro e critiche contro e queste ultime spesso oscillano fra snobismo e militanza politica, in cui spiccano gli antimericani d’ordinanza, spesso eredi dei cineforum dà Fantozzi che ulula contro la Corazzata Potëmkin (“una cagata pazzesca!”, che è stato per molti un riscatto contro certi intellettualoidi).
A me, ma direi in sintonia con mia moglie con cui - come dicevo - ho visto il film e ho discusso, Barbie è risultato una sorpresa: nulla di banale con molte riflessioni interessanti senza essere noioso o moraleggiante. Si sorride molto e penso che questa sia stata l’intenzione degli sceneggiatori e del regista e già si sa che Mattel porterà sullo schermo altri suoi giocattoli di grido. Tipo Barney il dinosauro viola, il popolare gioco di carte UNO, Major Matt Mason l’ astronauta giocattolo che ha ispirato Buzz Lightyear, Polly Pocket la linea di bambole in miniatura e Big Jim una delle figure più celebri degli anni 70.

L’addio alle cabine telefoniche

Mi mette tristezza la rimozione definitiva ad Aosta delle poche cabine telefoniche sopravvissute. Intendiamoci: morte erano già morte e restavano come cimelio del tempo che fu, investite senza scampo dall’incedere di sua maestà il telefonino, di cui siamo ormai schiavi. Ci pensavo in modo fulmineo, guardando una specie di annuncio mortuario affisso dalla Telecom sulle predestinate alla scomparsa con data di cancellazione, mentre rientravo al lavoro dopo aver dimenticato il telefonino sulla scrivania, ottenendo in una riunione di due ore uno strano spazio di libertà.
Impossibile spiegare ai giovanissimi che cosa siano state le cabine telefoniche nella vita delle generazioni come la mia. Erano l’unico legame con il mondo. Mi vedo, nella cabina che c’era alla pesa pubblica di Aosta, amoreggiare al telefono con la fidanzatina. Oppure in una delle cabine vista Arco d’Augusto, mentre detto una notizia quando ero giovanissimo corrispondente RAI. C’erano poi le cabine delle vacanze: quando ero al mare ad Imperia la mia preferita era vicino all’edicola dei giornali sul lungomare. In Valle d’Aosta la mappa mentale delle cabine (o dei telefoni a scatti nei locali) era esercizio di memoria, così come avere a mente i numeri di telefono, che ho ancora in testa, mentre oggi non so neppure il telefono dei miei figli, perché tanto ce l’ho registrato!
Trovo sul sito Upgo.news, scritto da Maya Sonetti, un riassunto mirabile della storia delle cabine, che funge ormai da epitaffio. Raccontata la storia avvincente delle cabine rosse inglese, vero e proprio arredo urbano del passato, e ricorda poi la storia italiana: “Le prime cabine telefoniche sono state installare in Italia (nelle più grandi città) nei lontani anni cinquanta, quasi 30 anni dopo l’installazione londinese. La prima cabina telefonica in Italia in venne installata il 10 febbraio del 1952, in Piazza San Babila a Milano. È curioso sapere che l’iniziativa dell’installazione non derivò dal Comune di Milano o da enti dello Stato, bensì dall’azienda concessionaria Stipel”.
Già la Stipel, ricordo confusamente quando ero bambino i miei genitori, con il severo telefono nero a rotella che campeggiava nell’ingresso di casa, che chiamavano le “signorine” della Stipel per mettersi in linea con il numero desiderato. Sembra il Giurassico e invece il tempo trascorso non è così eterno.
Più avanti scrive Sonetti: “Negli anni sessanta/settanta del XX secolo le cabine telefoniche italiane divennero un elemento immancabile delle città italiane. Basti pensare che solo nel 1971 in Italia vennero c’erano ben 2500 cabine e che alla fine degli anni settanta tale numero ammontava a 33000. Era l’epoca in cui le cabine telefoniche erano ormai largamente diffuse in tutte le città”. In tasca avevamo tutti il gettone o lo ottenevi con l’inserimento delle monete necessarie, che ad un certo punto sostituirono pure il gettone.  Ancora l’articolo: “Il 1976, invece, è l’anno in cui vennero usare le prime schede telefoniche prepagate. Al tempo era soltanto un esperimento che, però, ebbe un discreto successo tanto che negli anni successivi le schede aumentarono a dismisura. Oggigiorno, però, sono soltanto degli oggetti di collezionismo simili ai francobolli o alle banconote antiche”.
Dal telefono a disco si passò poi a quello a tastiera, mentre gli ultimissimi modelli – non solo più monopolio Sip-Telecom – avevano una forma più moderna. Fra gli anni Novanta e Duemila inizia la fine di queste cabine telefoniche e dei telefoni in esse contenuti e l’ultimo gettone telefonico venne prodotto il 31 dicembre 2001. Amen.
La vera fine tardò ancora, come annota Sonetti: “I telefoni pubblici, – e le cabine telefoniche annesse, – sono state considerate dalla Repubblica Italiana come non più strettamente necessari soltanto nel 2010. La decisione venne comunicata alla cittadinanza tramite una delibera dell’Agcom a sua volta pubblicata nella Gazzetta Ufficiale. Proprio alla fine del 2010 Telecom Italia decise di rimuovere tutte le cabine telefoniche presenti sul territorio dello Stato Italiano. Tuttavia l’intero processo venne considerato come molto lungo e difficile da svolgere, motivo per cui alla rimozione delle oltre 103.000 cabine presenti sul territorio dell’Italia nel 2011 (la rimozione doveva avvenire nell’arco di 4 anni e terminare nel 2015), Telecom preferì sostituire le cabine con quelle di nuova generazione. Molte cabine vennero comunque rimosse (nel 2012 si stimava il numero delle cabine telefoniche sul suolo italiano in 97.376), mentre la maggior delle restanti venne modernizzata.  Ciononostante, il Governo Monti decise di continuare la rimozione di tutte le cabine telefoniche tranne quelle presenti negli ospedali, scuole, caserme, aeroporti, stazioni. Telecom Italia, dal canto suo, continuò a modernizzare le cabine telefoniche italiane mettendo a punto la “Cabina telefonica intelligente”. Quest’ultima venne ufficializzata e installata per la prima volta e in via del tutto sperimentale a Torino, il 2 aprile del 2012. Oltre a offrire la possibilità di effettuare la chiamata verso un qualsiasi numero mobile o fisso, questa cabina includeva anche l’accesso al web a un serie d’informazioni utili alla persona”.
Tutto inutile: le cabine erano ormai nel braccio della morte e la definitiva decapitazione è segnata. Ogni tentativo di riuso ha assunto aspetti divertenti e purtroppo inutili: dalle serre urbane o fioriera alla cabina acquario, dalla libreria libera al microbar, da sede di un defibrillatore a stazione di ricarica per le bici elettriche. Niente da fare….

Un ricordo affettuoso di Giorgio Napolitano

Giorgio Napolitano, di cui piango la scomparsa alla fine di una vita intensa e piena di politica nobile e vera, è stato un esempio di rettitudine e pure un'amicizia preziosa. Ero capogruppo del "Misto" quando divenne presidente della Camera nel 1992 e resse per due anni quel ruolo nel pieno del marasma di "Tangentopoli". La frequentazione ravvicinata mi consentì di apprezzarne le doti professionali (la politica, con buona pace dei "borbottoni", ha una sua professionalità, che comporta studio e fatica) e umane. Poi io ero la "mascotte" della capigruppo ed il presidente - che non lesinava il suo sarcasmo con chi non gli risultasse proprio simpatico - ha sempre avuto con me un atteggiamento di simpatia.
Così è stato anche al Parlamento europeo, quando eravamo gli unici italiani presidenti di Commissione. Specie a Strasburgo, quando facevamo le petit déjeuner assieme, visto che andavamo allo stesso albergo, così capitava di ascoltarlo davvero "dietro le quinte", mentre nelle occasione ufficiali non sbagliava mai una virgola con quel suo understatement con bagliori di ferocia per chi non capiva o fingeva di farlo. Esisteva in lui la scuola da cardinale del vecchio Partito Comunista Italiano, come altri che conobbi come Nilde Iotti, Giancarlo Pajetta, Ugo Pecchioli. Ma a questo si accompagnava uno spessore culturale non solo fatto dalla Politica, ma da quella logica da intellettuale a tutto tondo che ormai sta scomparendo con quella generazione. Vorrei qui ricordare la sua profonda conoscenza del Federalismo e fui onorato quando mi chiese di far parte della sua Associazione federalista, proprio considerandola una patente di quella serietà che non dispensava in modo così facile. Per questo mi era spesso capitato di cogliere in lui quella amarezza per il crescere nella politica, anche in ruoli importanti, di "parvenu" senza sostanza e pure di ladri.
Lo votai con trasporto per il suo primo settennato e mi capitò spesso di incontrarlo. Sempre misurato e colto, ma - come mi è già capitato di scrivere - con sprazzi di umorismo partenopeo frammisto a quel distacco anglosassone, che gli ha creato odi e amori, come capita a molti politici di rilievo.
Mi fa piacere evocare altri momenti, quando ad esempio quando ero Presidente della Regione accolse con gioia al Quirinale il Premio Saint-Vincent di giornalismo nel solco di una tradizione purtroppo a scomparsa e la sua visita in Valle d’Aosta nel 2011 mi valse un abbraccio nell’aula del Consiglio da consigliere regionale semplice. Proprio in quella occasione disse cose importanti sulla nostra autonomia speciale, che ben conosceva e rispettava. Ascoltò poi e si complimentò un mio discorso nell’aula del Senato sul regionalismo e l’Europa, quando ero Capo della delegazione italiana al Parlamento europeo.
Ricordo come messaggio postumo per il futuro il passaggio memorabile di un suo discorso del 2014: "La critica della politica e dei partiti, preziosa e feconda nel suo rigore, purché non priva di obbiettività, senso della misura, capacità di distinguere ed esprimere giudizi differenziati, è degenerata in anti-politica, cioè, lo ripeto, in patologia eversiva. E urgente si è fatta la necessità di reagirvi, denunciandone le faziosità, i luoghi comuni, le distorsioni, impegnandoci in pari tempo su scala ben più ampia non solo nelle riforme istituzionali e politiche necessarie, ma anche in un'azione volta a riavvicinare i giovani alla politica valorizzando di questa, storicamente, i periodi migliori, più trasparenti e più creativi. Un tale impegno, volto a rovesciare la tendenza alla negazione del valore della politica, e anche del ruolo insostituibile dei partiti, richiede l'apporto finora largamente mancato della cultura, dell'informazione, della scuola”.
Ciao, Giorgio!

Contro i negazionisti

Le parole vanno sempre trattate con grande attenzione, sia che le si pronunci sia che le si scriva. E bisogna sempre, nel limite del possibile, pesarle per come ci escono e come vengono recepite. Scriveva Luigi Pirandello: “Come possiamo intenderci se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e il valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro?”.
Sono stato ad una bella manifestazione nelle scorse ore in cui sono diventati “giusti fra le Nazioni” due abitanti di Saint-Vincent, paese dove vivo. Il riconoscimento a Monsignor Louis François Alliod e al medico Osvaldo Salico è avvenuto, grazie a Pigi Crétier attento cultore della storia locale, che ha ricostruito in modo certosino le azioni coraggiose dei due a protezione di famiglie ebree, che sono riuscite a sfuggire alle persecuzioni nazi-fasciste, che si sarebbero concluse in un campo di sterminio. Questo lavoro ha sortito il riconoscimento da parte dello Yad Vashem di Israele che decide in merito. Una cerimonia a tratti commovente e certo lo è stata per me la lettura da parte di mio figlio Alexis di un piccolo brano tratto da un libro di Primo Levi, pensando che suo nonno, per aver aiutato ebrei in fuga a raggiungere la Svizzera dopo le orrende leggi razziali di Mussolini, è stato considerato “giusto” dalla Comunità ebraica di Torino.
Ma torniamo alle parole. Ne propongo tre alla vostra attenzione e di fatto nascono nell’alveo delle reazioni del dopoguerra alla immane tragedia degli ebrei e della soluzione finale del nazismo, di cui il fascismo fu squallido complice, seguendo la follia hitleriana. Si tratta di revisionismo, riduzionismo e negazionismo.  La prima parola non è una parolaccia: è legittimo, nel limite del razionale, che ogni storico possa modificare, documenti alla mano, teorie storiche anche consolidate. E’ avvenuto spesso e ancora avverrà. Ma sull’Olocausto agisce in maniera più o meno evidente il riduzionismo, che tende a sottostimare la tragedia della Shoah e i crimini nazisti. Sono gli stessi che in Italia cercano i lati “buoni” del fascismo con un cumulo di menzogne o giocano con il benaltrismo, spostando l’attenzione sui gulag, sulle foibe e cioè sugli orrori del comunismo, come se servissero da chissà quale lenitivo rispetto alla singolarità terribile dell’Olocausto. Infine il negazionismo rifiuta aprioristicamente qualunque documento o testimonianza che attesti l’esistenza dello sterminio. Ha scritto Bernard-Henri Lévy: “Si crede che i negazionisti esprimano un’opinione: essi perpetuano il crimine. E pretendendo d’essere liberi pensatori, apostoli del dubbio e del sospetto, completano l’opera di morte. Occorre una legge contro il negazionismo, perché esso è, nel senso stretto, lo stadio supremo del genocidio”. Le leggi, per fortuna anche in Italia, sono state fatte, ma non riescono a fermare la fogna a cielo aperto del negazionismo.
Oggi il termine negazionismo si espande: lo abbiamo visto in maniera drammatica con i movimenti anti-vaccinisti. Gli argomenti portati a discredito delle vaccinazioni sono completamente infondati: presenza di mercurio o alluminio nei vaccini antimorbillo, connessioni con effetti collaterali gravi di cui si è ampiamente dimostrata ogni infondatezza (dovrei essere morto da tempo secondo certi annunci mortuari dei No-Vax) Tali inesattezze scientifiche sono comunque spesso mescolate sapientemente con elementi complottisti e con argomenti di sicuro impatto comunicativo (soprattutto in Italia): governi e politici corrotti, scienziati prezzolati, produttori dei vaccini rapaci. Un’accozzaglia di cose che oggi si allargano da parte degli stessi soggetti in una specie di delirio collettivo. Mi limito a ricordare le logiche filorusse sulla guerra in Ucraina, ribaltando la realtà dei fatti oppure chi sbeffeggia il cambiamento climatico in corso come se fosse una grande cospirazione e aggiungerei chi pensa che IT-alert sia chissà quale terribile minaccia alla propria privacy.

L’allarme delle 12

Da sempre è stato un mio pallino – e ne ho parlato in varie sedi – questa questione di come avvertire la popolazione in occasione del manifestarsi di allerta di vario genere. Nasce tutto da certe situazioni di angoscia che molti di noi di noi hanno vissuto in occasione dell’inondazione dell’ottobre del 2000, quando in poche ore caddero in Valle d’Aosta 500 millimetri di pioggia, causando fra il 14 e il 15 di quel mese un disastro in molti Comuni con un bollettino tragico di 24 morti.
Abitavo all’epoca a Feilley, frazione di Saint-Vincent che si sporge sulla Mongiovetta. L’interruzione dell’elettricità e la scomparsa dei segnali telefonici creò una situazione di isolamento, mentre una parte del paesino veniva evacuato a causa di un rischio frana. Ero deputato e parlamentare europeo, quindi con dei doveri istituzionali, che si concretizzarono non solo nei giorni successivi con una serie di sopraluoghi nelle zone sinistrate utili per le misure urgenti che vennero poi assunte con un decreto legge al quale lavorai personalmente. Ebbene, quell’esperienza dimostrò che una larga parte della popolazione non aveva potuto essere allertata e neppure indirizzata opportunamente nel momento topico dell’emergenza e nei giorni successivi esisteva un problema oggettivo per fornire informazioni utili.
Credo che nel frattempo i Comuni si siano maggiormente attrezzati con gli appositi piani di Protezione civile, che corrispondono anche a piani più vasti a dimensione regionale. Restava un problema di allertamento, che oggi esiste non a livello popolare, ma – ad esempio con appositi sms – viene indirizzato a decisori di vario livello. Per questo sono molto contento che finalmente anche in Italia, sapendo ormai che i telefonini hanno una diffusione capillare, si stia testando (in Valle d’Aosta sarà oggi alle 12) quel IT-alert, vale a dire il nuovo sistema di allarme pubblico nazionale. Tutti i dispositivi accesi riceveranno all’ora del test un messaggio in italiano e in inglese (quando sarà gestione locale bisognerà aggiungere il francese!), che sperimenterà il sistema.
Dice il comunicato ufficiale: “Superata la fase di test, IT-alert consentirà di informare direttamente la popolazione in caso di gravi emergenze imminenti o in corso, in particolare rispetto a sei casistiche di competenza del Servizio nazionale di protezione civile: in caso di maremoto (generato da un terremoto), collasso di una grande diga, attività vulcanica (per i vulcani Vesuvio, Campi Flegrei, Vulcano e Stromboli), incidenti nucleari o emergenze radiologiche, incidenti rilevanti in stabilimenti industriali o precipitazioni intense. È importante sottolineare che IT-alert non sostituirà le modalità di informazione e comunicazione già in uso a livello regionale e locale, ma andrà a integrarle”.
Ovviamente sarà interessante vedere come il sistema si dovrà regolare successivamente a livello locale, nel caso nostro pensando alla particolarità del territorio alpino.
Il caso vuole che un alert assolutamente identico a quello che farà allarmare il nostro telefonino l’ho sperimentato di persona di recente negli Stati Uniti. Nello spostamento verso Los Angeles, specie nel tratto in partenza da Las Vegas, ci siamo trovati per strada con l’incombenza di un uragano, che aveva investito la zona. Con periodicità allarmante sia il mio telefonino che l’iPad ricevevano messaggi di aggiornamento, mentre la pioggia battente allagava le zone che attraversavamo con molti mezzi incidentati al lato della strada. In quel caso le lingue erano inglese e spagnolo e certamente l’utilità di sapere sino a quando bisognava essere vigili è risultata importante per evitare il peggio.
Sul nostro territorio valdostano ci potranno essere ulteriori sperimentazioni, anche legate alla diffusione della fibra ottica e degli altri sistemi via Web non solo per avere contezza dei rischi in corso, ma anche per sapere con esattezza il da farsi in caso di emergenza.

Messaggio dal passato

Capita ogni tanto che in occasioni ufficiali o in riunioni ristrette io citi mio zio Séverin Caveri, uomo politico decisivo per decenni nella politica valdostana e uomo di profonda cultura. Qualcuno mi dice con affetto che nel citare lui limiterei in qualche modo me stesso.
Penso che non sia così e che sia, invece, un necessario riconoscimento non solo familiare. Anzi, una sorta di risarcimento per un uomo a cui si sarebbero dovute dedicare piazze (una sola ad Aosta!) e strade e la stessa Union Valdôtaine non sempre sembra ricordare un suo esponente che ha guidato il Mouvement in acque difficili.
Mi piace oggi, per la sua evidente attualità, estrapolare qualche pensiero da un suo brillante discorso del 1945, quando i valdostani riempivano le piazze e la “question valdôtaine” era importante in Italia e figurava sulle pagine dei giornali in Italia e non solo.
Riguarda il ruolo dell’UV e suona come musica in un’epoca in cui personalmente spero nelle réunification o come altrimenti la si vuole chiamare, di cui scrivo oggi per l’ultima volta in attesa del lieto evento.
Sia chiaro che le parole che riporterò valgono in primis per me. Così Caveri: “L'esprit d'exclusivisme doit être étouffé: la maison de l'Union doit avoir les portes et les fenêtres ouvertes: tous peuvent entrer.
Pour nous il n'y a pas de différence de couleur: il y aura parmi nous des conservateurs et des progressistes, des croyants et des incroyants, des partisans et des internés, les ouvriers de la première heure et de la dernière: pour nous ils ne seront que des valdôtains.
Nous n'avons pas des buts cachés, des buts mystérieux ou ténébreux.
Notre action se développera à la lumière du soleil.
Notre but est un seul: travailler tous ensemble pour la petite patrie”.
La politica non è folklore, come giustamente sottolineato: ”Il faudra d'autre part éviter que l'Union Valdôtaine se réduise au rôle d'une Famija Turineisa, qui s'occupe des costumes de Gressoney et de Courmayeur.
Le folklore est une bonne chose, et peut être un moyen indirect.
Mais ce n'est qu'un aspect et un des moins importants de notre action.
D'autre part nous ne devons pas être des admirateurs outrés du passé: ceux qui ne regardent pas le présent et ne regardent pas vers l'avenir, sont semblables à ces personnages de la Bible, qui ont été transformés et figés en des statues de sel, tandis qu'ils se retournaient vers la cité morte”.
Ancora un concetto: ”L'étude de notre histoire sera un moyen formidable de valdôtanisation, surtout des jeunes, mais nous devons dans le même temps concevoir les problèmes valdôtains d'une manière moderne.
Sans cela, on nous considérera comme des restaurateurs de vieilleries.
Il ne s'agit pas de ça.
Il faut démontrer que les vieux, que les réactionnaires sont les autres, ceux qui conçoivent l'état unitaire et centralisé comme un Dieu, ceux qui conçoivent la Nation comme un mythe ou comme un bloc homogène.
La conception moderne de l'état ne peut plus être celle de Hégel ou celle des unitaires du siècle passé.
Les hommes modernes se sont aperçus que les petites patries sont plus vivantes que jamais et qu'en tuant les petites patries, les grandes patries deviennent des abstractions stratosphériques.
Donc nous sommes nous les jeunes et les modernes: les vieux et les réactionnaires sont ceux qui nous fatiguent les oreilles avec la prose patriotarde”.
Mamma mia, che attualità, pensando a certi discorsi sentiti in Italia in questi tempi proprio attraverso la condannata retorica patriottarda!
Infine un pensiero a me molto caro: ”Nous devons éviter de tomber dans un nationalisme régional.
Les valdôtains ne doivent pas penser d'être le peuple élu. Nous ne devons pas faire de la démagogie valdôtaine. Nous devons reconnaître nos défauts afin de pouvoir les corriger”.
Dobbiamo svolgere questa funzione salvifica di autocritica per sapersi difendere da errori e omissioni.

La montagna e la politica

Un convegno a Courmayeur, organizzato dal parlamentare europeo Alessandro Pansa, mi ha permesso - in un panel qualificato e pluralista - di pensare ad alcune cose rispetto alla delega che ho, intitolata “politica nazionale per la montagna”. Non è un addendo di cartapesta, ma una specie di dovere morale per chi sia valdostano e voglia essere lancia in resta per temi che riguardino i montanari di ogni dove.
Si tratta, per altro, della materia di cui mi occupo, come referente, nella Conferenza delle Regioni ed è per questo che tempo fa, in modo assai fruttuoso per i temi affrontati, ho invitato ad Aosta tutti gli assessori regionali che si occupano della montagna. Direi che vale la pena - lo dico spesso – ricordare, perché serve meglio a descrivere la varietà di situazioni geografiche e territoriali, il termine al plurale e cioè “montagne”. Aggiungo che la stessa differenziazione emerge se allarghiamo lo sguardo all’Europa e persino al mondo, visto che esistono problemi comuni, pur con diversi gradi di sviluppo, che meritano una vera e propria Internazionale dei montanari.
Pensavo l’altro giorno agli esordi alla Camera ormai tanti anni fa e all’idea di occuparmi non solo delle montagne valdostane, ma della politica nazionale per la montagna. Creammo al tempo con altri colleghi una “force de frappe” notevole, che operava sulla legge Finanziaria su temi specifici e su settori cruciali. Le leggi quadro su guide alpine e maestri di sci ancora in vigore - solo per fare un esempio - furono frutto di un lavoro mio e di pochi altri. Nel 1994 venne approvata la legge sulla montagna ancora in vigore, rimasta purtroppo lettera morta nella parte applicativa e questo lo si deve alla palude della burocrazia (e di certa politica), che a Roma boicotta le leggi di iniziativa parlamentare.
Studiammo come Valle d’Aosta una proposta innovativa e alcune idee figurano nella nuova legge che dovrebbe approdare a breve in Parlamento, cui ho contribuito nel corso di recenti riunioni nel mio ruolo di dialogo con il Governo per tutte le Regioni e Province autonome, di cui vanno rispettati poteri e competenze. Mesi fa ne discutemmo, come dicevo, ad Aosta. Con una constatazione già sperimentata: è facile sulla montagna raggiungere intese bipartisan se ci si mette buonsenso e passione. Ci possono essere differenze, tuttavia mai irrisolvibili.
Intanto, per essere concreti e non limitarci - come altri fanno - a comunicati stampa e a convegnistica che lasciano il tempo che trovano per chi si esibisce, abbiamo come Valle d’Aosta e a beneficio di tutti rilanciato uno studio del 2007 sui sovraccosti nei diversi servizi in montagna (scuola, trasporti, energia, scuola…) per far capire che avere soldi e competenze non è un privilegio, ma una necessità dovuta anche alla necessaria reazione ai rischi derivanti dal cambiamento climatico sulle montagne e per contrastare il calo demografico che pesa sempre di più.
Un lavoro che va fatto anche in chiave europea, ricordando che va concretizzato l’articolo l’art. 174 dei Trattati che evoca - e fu una bella battaglia quando ero a Bruxelles- la particolarità dei territori montani, con una direttiva che aiuti ad avere una classificazione seria per evitare all’italiana di avere montagna dove la montagna non c’è. Vecchia storia tristissima… Ci sono poi temi ineludibili ed è il caso di limitare l’espansione sulle Alpi di lupi ed orsi, che vanno protetti ma senza che il sovrannumero impedisca attività tradizionali come l’allevamento e minaccino popolazioni locali e turisti.
Al centro deve restare il ruolo dei montanari contro le tentazioni “colonialistiche” di chi vorrebbe dirci cosa fare dei nostri territori, come se fossimo dei minus habentes. Per questo riflettiamo sull’eredità della Dichiarazione di Chivasso in occasione dei suoi 90 anni, facendo un documento che - nel ricordo di quelle radici - si adegui ai tempi che viviamo e a nuove sfide.

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