Il rischio dell’assuefazione

Una delle grandi fregature di noi esseri umani, forse accentuata oggi dalla rapidità attuale dei mezzi di comunicazioni e dalle informazioni che circolano di conseguenza con grande velocità, è l’assuefazione. Un termine medico-scientifico, che significa da dizionario “fenomeno che si verifica nell’organismo per effetto della somministrazione continua di un farmaco (analgesici, tranquillanti, ecc.), per cui viene a diminuire, o addirittura ad annullarsi, la sua efficacia”. Si potrebbe usare abitudine, ma non avrebbe la stessa efficacia nel ragionamento.
Mi riferisco alla guerra in Ucraina e al rischio che mese dopo mese la nostra attenzione tenda ad affievolirsi e diventi una specie di rumore di fondo cui ci si abitui. Fatti che perdano importanza per la ripetitività degli eventi e per una naturale tendenza a far spazio ad altro - anche di meglio di quanto ci spaventa - nei nostri pensieri.
Ho letto in questi giorni il terzo libro di Antonio Scurati su Mussolini con il suo efficace racconto di come maturò la Seconda guerra mondiale nel risiko che portò Hitler (inizialmente con la complicità di Stalin e la mollezza delle Grandi potenze rispetto all’espansionismo nazista) a conquistare l’Europa.
Penso sempre, grazie alla passione per la Storia che ha fatto parte dei miei studi e resta una certezza per meglio capire la quotidianità, quanto sia difficile capire le cose quando le si vive hic et nunc. Lo stesso appunto - come ha dimostrato Scurati con i suoi libri precedenti - valse nell’affermazione inaspettata nei suoi esiti di Mussolini e della sua creatura, il fascismo. Una serie incredibile di situazioni, spesso davvero casuali, costruì una tempesta perfetta, che portò al regime e al Ventennio fatto di drammi e tragedie. Solo degli imbecilli possono nutrire nostalgie per quanto avvenne e questo di questi tempi va detto e ridetto contro il revisionismo storico e la ricerca ridicola dei “lati buoni” della dittatura.
Per questo bisogna posizionare con esattezza cosa c’è dietro il progetto di riconquista di Vladimir Putin nella logica di quello “spazio vitale”, che è un progetto che non va bollato solo come folle, per quanto lo sia. Perché è una realtà concreta e violenta sul campo di battaglia nel disprezzo totale di regole di ingaggio e dei trattati internazionali. Siamo di fronte a quotidiani crimini di guerra che non potranno mai e poi mai diventare nella loro ripetitività qualcosa a cui farsi il callo.
Resta da questo punto di vista stupefacente che in Italia, oggi con posti di responsabilità al Governo, ci siano coloro che, nel corso degli eventi, hanno ammiccato a Putin. Lo stesso vale per quella parte di Sinistra stracciona che cela dietro al pacifismo il vecchio vizio antiamericano e mette assieme con un cinismo vergognoso gli ucraini aggrediti con i russi aggressori.
Esiste, infine, un elemento ancora più grave, che deriva forse dalla logica del “al lupo, al lupo”, che ha segnato molte generazioni ed è stata ereditato nel rischio di ottimismo da chi è venuto dopo. E cioè la convinzione che la minaccia nucleare sia alla fine una specie di bluff, perché dalla guerra fredda in poi il deterrente potente ad un uso delle bombe atomiche è stato frutto della consapevolezza che un conflitto reale avrebbe distrutto tutto senza avere a conti fatti vincitori e vinti. Purtroppo sempre la Storia insegna che farsi illusioni spesso vuol dire anche coprirsi gli occhi con la pelle del salame, senza fare i conti cioè con elementi irrazionali e situazioni contingenti che possono far degenerare le cose.
Ecco perché non ci si può consentire logiche di sottostima o, come dicevo all’inizio, di assuefazione. È bene restare vigili e aiutare gli ucraini senza se e senza ma e senza certi distinguo che puzzano di zolfo assieme a chi se ne fa interprete.

Il settarismo colpisce

Certo ambientalismo settario e monomaniaco fa male alla necessaria mobilitazione in favore dell’Ambiente, che è tema che non può essere considerato per fortuna come esclusivo gruppuscoli a vocazione prevalentemente protestataria.
In democrazia gli spazi di libertà devono essere i più ampi possibili, ma quando la logica fideistica si trasforma in una sorta di ossessione bisogna preoccuparsi.
Questo avviene anche in Valle d’Aosta, dove esempi non ne mancano di comitati che protestano, essendo sempre gli stessi membri con diversi cappelli, con logiche di salti di palo in frasca con una sola logica: essere contro.
Ma oggi mi occupo della storia esemplificativa e in diffusione nel mondo di quelli che entrano nei musei e imbrattano tele famose per protestare contro petrolio e suoi derivati.
Inquadra bene - tratto dalla traduzione fatta da Internazionale - la questione Karin Pihl sul giornale svedese Göteborgs-Posten.
Così scrive: “Negli ultimi anni gli attivisti radicali hanno manifestato per il clima bloccando le strade e incollandosi alle piste degli aeroporti. Ora hanno adottato una nuova strategia. In diverse città i militanti del gruppo Just stop oil hanno compiuto delle azioni dimostrative contro l’uso dei combustibili fossili nelle gallerie d’arte e nei musei. Il metodo è semplice: scelgono un’opera famosa e, per fare clamore, ci s’incollano, scandendo messaggi sul fatto che la fine del mondo è vicina.
In due casi hanno anche versato del cibo sui dipinti prima di incollarsi davanti alle opere”..
Più avanti argomenta: “La tendenza a entrare in musei e gallerie e colpire all’impazzata è pericolosa perché – anche se non è l’intenzione iniziale – si corre il rischio che un’opera finisca per essere gravemente danneggiata nella concitazione. E gli attivisti non hanno scelto delle opere qualunque, ma le più famose del mondo, di valore inestimabile.
L’aspetto più provocatorio, però, è che attaccano l’arte. Fare un sit-in per strada o cercare di fermare il decollo degli aerei sono ovviamente delle idiozie, ma c’è una logica dal punto di vista ambientale. Se non vuoi che le persone prendano l’aereo, ti siedi sulla pista. Il nesso è evidente, anche se ovviamente questo tipo di protesta non ha nessun effetto positivo sulle persone coinvolte o sull’ambiente. Invece, il collegamento tra andare in un museo e la necessità di ridurre la dipendenza dal petrolio non è chiaro. Cosa c’entra Van Gogh con le politiche sul clima britanniche? Niente. Quando gli attivisti gridano “Cosa vale di più, la vita o l’arte?” prendono in ostaggio l’arte, in questo caso il nostro patrimonio culturale. L’idea è che nulla è sacro e che dobbiamo fare come vogliono loro se in futuro vogliamo visitare indisturbati musei e gallerie”.
Ne deriva questo giudizio: “È l’espressione di una combinazione di narcisismo e fanatismo. Narcisismo, perché gli attivisti mettono il loro bisogno di esprimere un’ideologia politica davanti al diritto degli altri di ammirare i quadri più apprezzati del mondo. Fanatismo, perché credono che le loro convinzioni politiche gli diano il diritto di sentirsi superiori a qualsiasi legge o norma sociale”.
Il tono sarà molto diretto, ma fotografa bene il limite di buonsenso che si travalica nel nome di una “fede verde” che diventa patologia simile ad un estremismo religioso.
Aggiunge il giornalista: “È delicato anche il fatto che se la prendano proprio con l’arte. Ancora oggi artisti e scrittori sono imprigionati e addirittura uccisi. È difficile non pensare ai bombardamenti di antiche moschee e chiese da parte del gruppo Stato islamico o all’aggressione contro lo scrittore Salman Rushdie. Voler limitare l’espressione artistica e il diritto delle persone a fruirne per le proprie convinzioni politiche è una forma di mentalità settaria: tutto è considerato secondario rispetto alla lotta e alle idee che la alimentano.
Gli attivisti non puntano a imporre la censura finché non avremo risolto la crisi climatica né hanno esercitato violenza contro le persone. Il loro comportamento, però, trascina nel fango la questione climatica perché si servono di metodi che non appartengono a una società civile. Così facendo, non attirano simpatie al movimento e ai suoi obiettivi”.
Già, esiste in tutto questo una miopia di fondo: l’incapacità di trovare soluzioni e usare il NO come espressione corrente, accompagnata da disprezzo per chi la pensa diversamente. O si si è con loro con le loro soluzioni o si è contro di loro. L’esatto contrario del confronto.
Esempio lampante: le energie rinnovabili come alternativa al petrolio. Poi per i professionisti del dissenso scatta la protesta, quando si vogliono costruire parchi eolici o fotovoltaici e questo vale anche per gli impianti idroelettrici. Non si discute nel merito caso per caso, come giustamente dovrebbe essere, ma si cavalca la protesta per partito preso.
L’Ideologia che sfocia nel Dogmatismo si sostituisce alla Ragione.

Sovranità alimentare e Merito

Non sopporto più le polemiche politiche inutili, quelle che ascolto nel dibattito politico italiano su questioni alla fine futili e ripetitive e mi innervosiscono quelle che subisco talvolta nel mio lavoro in politica, quando parte dell’opposizione è inutilmente aggressiva nel metodo in un gioco delle parti che diventa svilente e non arricchente anche nel merito.
Pensavo al can can nato attorno a due termini aggiunti alla definizione dei Ministeri nella composizione del Governo Meloni.
Il primo è “Sovranità alimentare” aggiunto all’Agricoltura, il secondo è “Merito” appiccicato a Istruzione. Apriti cielo: l’etichettatura ha indignati una parte della Sinistra, che pare farsi incendiaria prima di pensare.
Sulla prima questione - come ben spiegato da Alessandro Trocino sul Corriere - siamo di fronte ad una ricopiatura, avendo Romanha guardato a Parigi: “Anche i francesi hanno dato lo stesso nome a un ministero: Souveraineté alimentaire. Certo, dalle parti di Macron non sono estremisti di sinistra, ma neanche post-fascisti, come i francesi amano definire Fratelli d’Italia”.
Poi aggiunge: “Questa locuzione è stata usata per la prima volta nel 1996 al summit mondiale per l’alimentazione da Via Campesina, che riunisce 182 organizzazioni di contadini di 81 Paesi, per contestare il Wto, appena nato. L’idea era quella di proporre un’alternativa alla liberalizzazione del commercio agricolo e all’industrializzazione dell’agricoltura e dell’alimentazione. Quello contro cui si combatte è la mondializzazione (o globalizzazione) delle politiche agricole. Il modello contestato è quello degli scambi internazionali che grazie all’economia di scala riducono i costi ma tolgono sovranità e soldi ai contadini e alle organizzazioni locali, per favorire le multinazionali agroalimentari”.
E ancora: “C’è anche una definizione specifica data da Via Campesina della sovranità alimentare: «Il diritto delle persone a produrre in maniera autonoma alimenti sani, nutrienti, adatti al clima e alla cultura, utilizzando risorse locale e con strumenti ecologici, principalmente per rispondere ai bisogni alimentari locali e delle loro comunità» “.
Chiosa Michele Serra su Repubblica: “Capitasse, dunque, che la destra scippasse alla sinistra, magari storpiandolo in chiave nazionalista, il concetto di sovranità alimentare, la colpa sarebbe soprattutto della derubata. Molto distratta”.
Sulla questione del merito è, sempre da Sinistra, Pietro Ichino a sgonfiare il caso: “La scuola non può essere fattore di uguaglianza sociale se non impara a valutare e premiare il merito molto più di quanto non lo faccia oggi. Più in generale, è l'intera amministrazione pubblica che ha bisogno di questa rivalutazione del merito al proprio interno; e la sinistra dovrebbe far proprio questo obiettivo perché di un'amministrazione che funziona bene hanno bisogno soprattutto i più deboli e i più poveri”.
E sempre sulla scuola: “Potenziare l'istruzione pubblica significa, certo, investire di più sull'edilizia e le attrezzature didattiche; ma significa soprattutto investire sul miglioramento della qualità dell'insegnamento, cioè sulla capacità e l'impegno degli insegnanti. Questo implica non solo una formazione migliore di questi ultimi, ma anche inviarli a insegnare dove occorre e non dove fa comodo a loro. Implica far sì che la struttura scolastica sia capace di valutarne la prestazione per poter retribuire meglio i più bravi e allontanare dalle cattedre quelli che non conoscono la materia affidata loro, o non sanno insegnarla, o più semplicemente non hanno voglia di farlo. E per valutare gli insegnanti occorre anche rilevare capillarmente l'opinione espressa su di loro dalle famiglie e dagli studenti. In altre parole, potenziare la scuola significa mettere al centro il diritto degli studenti, in particolare dei meno dotati, di quelli che non hanno alle spalle una famiglia colta. Nella scuola pubblica italiana tutto questo finora non si è fatto, perché vi si oppongono i sindacati degli insegnanti”.
Ancora più ruvido quest’oggi sul Corriere Angelo Panebianco: “Le alzate di scudo preventive contro il merito, sono spiegabilissime. Perché chi volesse davvero affrontare questo problema dovrebbe occuparsi anche della qualità dell’insegnamento. Ossia, degli insegnanti. Per esempio, dovrebbe creare carriere su basi meritocratiche. Un tentativo in questa direzione lo fece tanti anni fa il ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer. Venne subito fermato dalla dura reazione della Cgil-scuola. Auguri al ministro competente se vorrà mettere le mani dentro quella tagliola”.
Aggiungo solo che - in una scuola che dev’essere attenta ad ogni alunno in difficoltà o in ritardo - bisogna evitare per contro che il meritevole non abbia gli strumenti per esprimersi al meglio ed è bene ricordarlo per evitare polemiche superficiali.

Le canzoni di una vita

Le canzoni sono la colonna sonora della nostra vita. Basta ascoltarne una e se ci appartiene in qualche modo si accende una lampadina che la collega a qualche evento o più semplicemente riporta alla memoria musica e parole con incredibile spontaneità.
Scrisse argutamente Eugenio Scalfari: “La canzonetta custodisce la memoria. A guardar bene è un contenitore di memoria, probabilmente il più perfetto a stimolare quella parte del cervello che conserva i ricordi del passato, i volti, i luoghi, le vicende, gli amori e i dolori, insomma la biografia delle persone”.
Aggiungeva nella logica pluriuso il grande George Moustaki: “Una canzone? “E teatro, film, romanzo, idea, slogan, atto di fede, danza, festa, lutto, canto d’amore, arma, prodotto deperibile, compagnia, momento della vita”.
Dico sempre e ribadisco che anche su questo nessuna generazione precedente a quella della seconda metà del secolo scorso ha vissuto anche in questo rivoluzioni tecnologiche senza eguali. La solfa è sempre la stessa e volgarmente si dice che siamo passati - anche se so che l’espressione non è esatta - dall’ analogico al digitale. Certi apparecchi con cui si ascoltava la musica erano più meccanici nel senso vero e proprio!
Oggi la musica la si può ascoltare con diverse modalità e con una ricchezza di offerta che fa impallidire noi che andavamo a comprare dischi e musicassette e poi ci siamo ingegnati con walkman, CD, MP3 e iPod sino agli attuali streaming online.
La televisione e la radio sono stati una presenza rivoluzionaria con l’uscita dal monopolio Rai negli anni Settanta. Trasmissioni come l’ancora vivo Festival di Sanremo (che sembra ormai il paleolitico rispetto a XFactor e simili) e il Disco per l’Estate e il Festivalbar dettavano la linea.
Oggi mi pare che, a parte l’ancora crescente dominio angloamericano, si affermi una gigantesca kermesse di canzoni usa e getta con capacità delle major musicali di far emergere successi non solo per abili capacità di costruire personaggi, ma per campagne di marketing che impongono canzoni che appaiono dappertutto e sono spesso prodotti di laboratorio (in sala d’incisione, beninteso).
Eppure, cari lettori, basta poco per capire che cosa distingua il grano dalla pula e i fuoriclasse emergono come esempio per i “nuovi” che spesso durano il tempo di un cerino.
Nelle scorse ore, a proposito di canzoni rievocative, mi sono goduto il concerto del duo - cominciarono già in coppia agli esordi! - Francesco De Gregori e Antonello Venditti. Non solo è stato un tuffo in canzoni che sono state un caposaldo nei
miei decenni passati, ma la scoperta banale di come una band con professionisti di gran calibro e cantanti intonati efficaci facciano faville.
Come ha cantato il grande Francesco Guccini: “La canzone può aprirti il cuore | con la ragione o col sentimento | fatta di pane, vino, sudore | lunga una vita, lunga un momento. | Si può cantare a voce sguaiata | quando sei in branco, per allegria | o la sussurri appena accennata | se ti circonda la malinconia | e ti ricorda quel canto muto | la donna che ha fatto innamorare | le vite che tu non hai vissuto | e quella che tu vuoi dimenticare”.

Esserci ancora

Questi giorni sono dedicati al ricordo delle persone che non ci sono più e penso che tutti riflettiamo in qualche modo nell’occasione sul mistero della morte. Niente di nuovo, pensando che il culto dei morti è antico quanto l’umanità. Anche se molto cambia a seconda delle epoche e delle culture.
Noto, ad esempio, di questi tempi una crescita della scelta di non voler più i propri funerali. C’è chi chiede un annuncio post mortem e talvolta neanche più quello. Così come la scelta della cremazione (che ho chiesto quando verrà il momento) coincide talvolta con la decisione di non aver neanche più una tomba con una dispersione delle ceneri in un luogo amato.
Osservava già qualche anno fa Tiziano Terzani: “Quand’ero ragazzo era un fatto corale. Moriva un vicino di casa e tutti assistevano, aiutavano. La morte veniva mostrata. Si apriva la casa, il morto veniva esposto e ciascuno faceva così la sua conoscenza con la morte. Oggi è il contrario: la morte è un imbarazzo, viene nascosta. Nessuno sa più gestirla. Nessuno sa più cosa fare con un morto. L’esperienza della morte si fa sempre più rara e uno può arrivare alla propria senza mai aver visto quella di un altro”.
Difficile da far capire questi straniamento a chi ha bisogno, invece, di un luogo fisico d’incontro e confesso di aver visto nei miei viaggi cimitero di diverse confessioni religiose che sono evocativi e profondi. Anzi, consiglio sempre e non per scherzo di non farsi scrupoli a visitare dai cimiteri monumentali ai camposanti dei paesini di montagna, da certi cimiteri mediterranei sul mare a verte sepoltura nelle chiese più prestigiose. Può essere anche una sorta di medicina. Scriveva Emil Cioran: “Alla minima contrarietà, e a maggior ragione al minimo dispiacere, bisogna precipitarsi nel cimitero più vicino, dispensatore immediato di una calma che si cercherebbe invano altrove”.
Ha ragione Valérie Perrin: “Credo che ci siano due modi diversi per guardare un cimitero: come un luogo di tristezza e come un giardino "des esprits", un posto pieno di fotografie, di fiori ma anche di epitaffi che parlano d'amore, di bellezza e di resurrezione. Il cimitero è un luogo di tristezza ma anche di struggente poesia”.
Da bambino questa storia del periodo dei Morti mi turbava ed erano giorni con cattivi pensieri. Le visite ai cimiteri con le tombe di amici e parenti erano un rito ripetitivo e mi stupivo di quel mondo che si affannava nei cimiteri con una vera e propria alacrità fra tombe e loculi, che risultava stridente con la solennità dei luoghi dell’eterno riposo.
Ricordo un pensiero fugace, quasi infantile, in una frase di Antonio Tabucchi che si occupava di chi lì ci sta: “Cosa fanno le persone importanti in un cimitero? Dormono, anche loro dormono uguale uguale alle persone che non contarono niente. E tutti nella stessa posizione: orizzontali. L’eternità è orizzontale”.
Pensare alle persone scomparse, specie quelle più care ma non solo loro, alimenta una straordinaria macchina del tempo, che ci consente di evocare momenti e luoghi. E anche di pensare banalmente che pezzettini di chi non c’è più sono rimasti dentro di noi e basta poco per farli rivivere, fosse anche per un momento infinitesimale, che ti fa pensare che con te ci sono ancora o meglio sempre.

Certe tappe della vita

Invecchiare è un destino ineluttabile. E in fondo, al di là di ogni possibile commento, appare risolutivo a proposito il pensiero fulminante di Charles Augustin de Sainte-Beuve: “Invecchiare è noioso, ma è l’unico modo che abbiamo per vivere a lungo”. Per cui chi se ne lamenta dovrebbe pensare a questa implicazione non secondaria, anche se, guardando alla mia mamma che di anni ne ha ormai 92, bisogna sperare di arrivarci come lei in buona salute a certe venerande età e purtroppo certi suoi smarrimenti che arrivano sono un prezzo da pagare nell’ultimo tratto del proprio percorso terreno.
Quel che è certo è che il passare degli anni è segnato dalle solite tappe della vita, alcune felici altre no, come due facce della stessa moneta.
Una delle gioie nel proprio cammino sono le lauree dei propri figli. Laurent si laureò a Piacenza alla Cattolica con la magistrale in Food Marketing (la triennale in Scienze Politiche fu ad Aosta) in periodo Covid con una discussione della tesi on line e come tale piuttosto deprimente. Eravamo a casa solo lui ed io con fiducia nella bontà del Wi-Fi domestico, chiave di accesso a relatore e commissione.
Ora, per fortuna con presenza dal vivo, è toccato a sua sorella Eugénie (che aveva preso la triennale in Architettura a Torino) e questa volta ha concluso la magistrale a Mestre, con discussione della tesi presso Ca' Foscari già vista per noi familiari in video qualche ora prima, seguita infine dalla proclamazione (110/110) in nostra presenza con allegata scappata turistica a Venezia. La sua tesi, molto scientifica, è stata dedicata all’edificio settecentesco noto come “casa delle vigne” (vigna Pallin), che si trova a pochi passi dall’Institut agricole di Aosta. Un pittoresco padiglione che serviva come ospitalità a partire dai primi costruttori, il ramo Passerin d’Entrèves di Châtillon. La tesi ha riguardato in particolare le scandole in ceramica vetriata dai colori sgargianti posti sul tetto, probabilmente prodotte a Castellamonte.
In questa logica delle tappe della vita l’Università, come fu per me è per i miei cari, è una soddisfazione, questa volta da papà trepidante.
Studiare serve? Mi sforzo di ripetere di sì, anche se viviamo troppo spesso una sorta di scetticismo sul punto, mai registrato in passato. E invece lo studio - e non solo a scuola, beninteso, ma in tutte le altre modalità nel corso della propria vita - ti aiuta a crescere perché ogni pezzo di cultura in più è una conquista.
La nostra responsabilità di genitori, per non dire dell’obbligo professionale di chi insegna, veniva ben ricordato da quello straordinario divulgatore di scienza e cultura che è stato Piero Angela: “Nella vita ho imparato che, per ottenere il meglio dalle persone, bisogna riuscire a motivarle: nel caso dello studio, è fondamentale far scoprire quanto una materia possa essere interessante, andando oltre lo strato "duro", e raccontarla con un linguaggio stimolante e creativo”.
E, se necessario, quando bisogna persuadere qualcuno di questa necessità di apprendere e lo vedo con il mio figlio più piccolo, Alexis. che si affaccia inquieto all’adolescenza, adoperiamo il grande e bizzarro Albert Einstein:
“Non considerate mai lo studio come un dovere, ma come una occasione invidiabile di imparare a conoscere l'effetto liberatorio della bellezza spirituale, non solo per il vostro proprio godimento, ma per il bene della comunità alla quale appartiene la vostra opera futura”.
Ma torniamo alla laurea di Eugénie e all’occasione offerta per riflettere su grandi felicità come i figli che studiano e raggiungono la laurea. Io stesso mi sono laureato dopo essere diventato giornalista professionista, inseguendo subito dopo la Maturità quel mestiere che volevo fosse il mio. Ma per me e anche per i miei genitori la laurea era un dovere. E sono stati studi, quando già lavoravo, che mi hanno confermato il senso di una scelta: non fermarsi mai di studiare e ogni elemento nuovo che si apprende, specie quando serve per non restare indietro in un mondo che cambia, è un elemento prezioso per restare contemporaneo e non diventare passato.

Se avessimo la coda

Ci sono cose che fanno sorridere ed sempre una fortuna. In certo grigiore, che talvolta si tinge pure di nero, avere uno svago mentale aiuta. L’umorismo è una dote a cui ogni tanto mi aggrappo.
Ed è quanto è capitato, leggendo su La Zampa (sezione comune su La Repubblica e su La Stampa nella deprecabile omogeneizzazione delle due testate voluta dagli eredi Agnelli) un articolo simpatico di Noemi Penna.
L’incipit è questo: ”Come sarebbe la vita se gli umani avessero la coda? Le storie abbondano nelle mitologie di tutto il mondo. Ma in che modo quell’appendice che l’evoluzione ci ha fatto perdere qualcosa come 25 milioni di anni fa cambierebbe la nostra vita quotidiana?”.
Segue la spiegazione: ”In realtà, tutti noi abbiamo avuto una coda. Questo accade durante la quinta settimana gestazionale e normalmente scompare entro l’ottava. Alcuni neonati, però, possono mostrare questa escrescenza che non si è riassorbita. La “pseudo coda” spunta da una fessura nella colonna vertebrale o da un coccige irregolare: spesso contiene muscoli, tessuto connettivo e vasi sanguigni, ma non ossa o cartilagini, non è funzionale e di solito viene rimossa poco dopo la nascita”.
Su come sarebbe stata la nostra coda, se fosse rimasta?
Risposta: ”I nostri parenti più stretti, ovvero le scimmie del "vecchio mondo" che vivono in Africa, Asia e nell’Europa meridionale come babbuini e macachi, usano la coda principalmente per l’equilibrio e quindi probabilmente anche le nostre non sarebbero state prensili, perché sarebbero un passo indietro nell’evoluzione. Tuttavia, come spiega l’antropologo evoluzionista Peter Kappeler dell’Università di Göttingen, ciò non significa necessariamente che sarebbero inutili. “Una lunga coda pelosa come quella di un macaco potrebbe essere utile per avvolgerci al caldo, come una sciarpa incorporata. E se ci fossimo evoluti per andare in letargo durante l’inverno, le nostre code potrebbero tornare utili come sistema di accumulo di grasso”.
 Nel proseguo dal sorriso si passa alla risata: ”Secondo Jonathan Marks dell’Università della Carolina del Nord le code corte potrebbero rendere difficile sedersi su una sedia. “Chiaramente, se avessimo la coda, avremmo bisogno di ridisegnare i sedili delle auto e i costumi da bagno”. Averne una lunga, invece, altererebbe probabilmente il modo in cui camminiamo. “Una coda in stile T rex ci costringerebbe a piegarci in avanti sui fianchi, tenendo il petto parallelo al suolo piuttosto che in posizione verticale. Una coda da canguro sarebbe difficile da manovrare senza saltare, altrimenti si trascinerebbe fastidiosamente a terra. Sicuramente la nostra modalità di locomozione sarebbe molto diversa rispetto a come la conosciamo”, ha detto”.
Chissà se una coda ci avrebbe permesso di essere sbugiardati rispetto ai nostri reali sentimenti e alle nostre emozioni.
Pensiamo al gatto con due esempi, cominciando dalla coda dritta. Puntata su verso l'alto, a formare un angolo retto con il dorso, è una delle posizioni più classiche: è il segnale di un saluto, il suo ciao ma anche la sua gioia nel vederci, e spesso è il momento prima del contatto, in cui il micio studia chi ha davanti prima di avvicinarsi.
Veniamo alla coda del gatto che si agita velocemente. È un chiaro segnale di agitazione del gatto, forse paura o fastidio, spesso sintomo di rabbia. Guardati intorno per capire cosa lo disturba.
E il cane? Vediamo qualche esempio. La coda tesa, in posizione orizzontale rispetto al corpo, indica uno stato di tensione e nervosismo del cane.
Se la coda è tesa verso l’alto può indicare aggressività.
Quando la coda si muove velocemente da un lato all’altro e la testa del cane è alzata indica eccitazione ed euforia.
Se gli umani avessero la coda, allora sarebbe un bel problema celare i propri pensieri.

Pensando alla Meloni

Occorre avere l’attenzione giusta rispetto alla recentissima nascita del Governo Meloni per capire dove questa prima donna al comando - distantissima dai miei ideali di Presidente del Consiglio - porterà l’Italia. Ha un suo bagaglio culturale che certo obbliga alla vigilanza e che lei tende a oscurare, contando sulla scarsa memoria degli italiani, che comprende anche la Storia nei suoi tratti più dolorosi, Fascismo compreso.
Bisogna, avendo contezza della realtà, affrontare i temi da risolvere nel confronto con Roma, senza svendere le proprie convinzioni e in primis l’adesione - per me indefessa - al credo autonomista e federalista.
Con ogni Governo nazionale con cui mi sono confrontato, quando fui deputato, partivo da un semplice elenco dei temi necessari per la Valle d’Aosta, che ho ritrovato anche in alcune agendine di allora, e che consegnavo in bella copia con il Senatore coéquipier anzitutto al Presidente incaricato prima della formazione del Governo (incontri annullati dalla Meloni con scelta discutibile). Argomenti che ripetevo in aula e persino allegavo ai resoconti parlamentari al momento della fiducia. Da questo elenco toglievo il tema quando veniva risolto e appuntavo in corso di Legislatura novità con priorità per questioni sopravvenute. Poi mi mettevo al lavoro, punto e basta, dentro alla Camera per leggi specifiche o norme utili da infilare dove si poteva, adoperando quando utile il sindacato ispettivo e incontri vis à vis necessari per illustrare le nostre ragioni. Tutto ciò prescindendo dal colore politico del mio interlocutore, spiegando le necessità in modo circostanziato. Cosa più facile con persone con cui eri in lunghezza d’onda, più difficile con altri. Questa è politica: interlocuzione e ricerca di punti d’incontro con gentilezza ma anche, se necessario, battendo i pugni sul tavolo e soprattutto cercando alleanze ed essendo sempre presenti quando ci vuole.
Detto così sembra semplice, ma non sempre lo è stato. Quel che contava è farsi conoscere e conoscere, stando a Roma tutto il tempo necessario e senza preclusioni anche con Ministri che pure non ti piacevano.
Rivendico un buon tasso di successi e il fatto di cui vantarmi di essere stati a Montecitorio ”il valdostano Caveri”, che era quello che dovevo essere.
Sugli indirizzi di questa Legislatura, in senso più vasto, mi riconosco bei filoni indicati sul Corriere dal sempreverde Sabino Cassese.
Il primo: ”L’esecutivo non potrà continuare pratiche che una parte di esso ha criticato dall’opposizione, come le troppe richieste di voti di fiducia per abbreviare l’esame parlamentare degli atti di iniziativa governativa.
Più in generale, la bilancia dei rapporti Parlamento-governo dovrà ritornare a pendere dalla parte del Parlamento. E questo produrrà il ripristino del «figurino» costituzionale, tradito negli ultimi decenni dalla «Costituzione vivente»”.
Il secondo: « Da molti anni, in un continuo crescendo, ministri della difesa, dell’economia, dell’agricoltura, dell’industria, della cultura, del turismo, del lavoro, sono chiamati a rappresentare gli interessi nazionali in consessi internazionali, nei quali occorre esser presenti e ben preparati, per far sentire la voce dell’Italia, per negoziare con perizia, per saper proporre compromessi ragionevoli”.
Il terzo: ”Un altro cambiamento importante nel sistema di governo italiano è quello che deriva dall’esperimento regionale, che ha ormai raggiunto il mezzo secolo di vita. I governi nazionali debbono, in molte materie, non solo quelle definite concorrenti, informarsi reciprocamente, discutere, negoziare, co-decidere con le regioni. E questo si è visto molto bene durante la pandemia, quando le regioni, anche perché forti del loro sistema presidenziale, hanno fatto la voce grossa con i governi nazionali. Una modifica del regolamento del Senato, apportata nel luglio scorso, prevede che la Commissione parlamentare per le questioni regionali possa invitare rappresentanti delle regioni a partecipare alle sedute della Commissione stessa. Questo è un altro raccordo a disposizione anche del governo, per evitare un eccesso di conflittualità centro-periferia.
Gli esecutivi statali, in sistemi policentrici come quelli contemporanei, articolati in tanti governi sub-nazionali e ancora più governi sovra-nazionali, costituiscono un punto di snodo essenziale. Sono tirati da una parte e dall’altra. Proprio per questo hanno acquisito un potere che durante il periodo dei «governi di assemblea» non avevano. Questo richiede non solo tanto lavoro, ma anche la capacità di «aggiustare il tiro» per adeguare strutture e azione di governo ai nuovi contesti. Una delle prime regole di ogni governo è di non rimanere prigionieri delle questioni urgenti, che tendono sempre a prendere la mano a quelle importanti”.
Parole sagge e speranze importanti, che vedo difficilmente realizzabili, ma lo scrivo senza pregiudizi e dunque vedremo dal vivo gli eventi e gli esiti conseguenti.

Gli studenti in carcere

Ringrazio il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di aver accolto la proposta della nostra Sovrintendenza agli studi di effettuare all’interno della Casa circondariale di Brissogne una serie di incontri sulla legalità e la cittadinanza con esperti vari e soprattutto con la presenza dei vertici della struttura e di una rappresentanza dei detenuti.
È un’iniziativa nata in seguito alla firma fra l’allora Ministro della Giustizia, Marta Cartabria, ed il Presidente della Regione, Erik Lavevaz, di un protocollo d’intesa in materia di ordinamento penitenziario.
In passato molte volte ho visitato questo carcere, ben diverso dalla struttura storica della Torre dei Balivi che divenne prigione dal XV secolo, essendo invece una struttura grande nata negli anni Ottanta del secolo scorso e non più limitata detenuti locali. Vedere dal di dentro è ben diverso dal visitarla all’interno a contatto con quella umanità dolente che la abita coattivamente. C’è sempre un brivido e molte emozioni nel percorrere quei corridoi intervallati da cancelli che si aprono e che si chiudono con quelle celle in cui i condannati espiano le loro colpe.
Così è stato per i ragazzi delle scuole, che saranno alla fine circa 300 a varcare quel portone d’ingresso, ricevendo una scossa a contatto con un mondo dì reclusione che ho visto, con un primo gruppo, quanto possa impressionare gli studenti. In senso positivo, naturalmente, come se fosse - nella crudezza dei luoghi e delle testimonianze dei condannati - una specie di vaccino contro il rischio di cadere nell’illegalità.
Ho ricordato ai ragazzi due questioni. La prima è ricordare il come il comma tre dell’articolo 27 della Costituzione, sia chiaro nella sua essenzialità: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Non è così negli Stati non democratici, come avviene oggi con le donne incarcerate in Iran perché hanno manifestato per la loro libertà o i dissidenti politici in galera nella Russia di Putin, tanto per fare due esempi nell’attualità.
La seconda considerazione riguarda propri i giovani. Nella nostra piccola Valle d’Aosta per la prima volta si assiste alla nascita di bande giovanili che non si limitano a ragazzate adolescenziali, ma hanno ormai varcato il confine sul terreno dei reati veri e propri e non sempre penso abbiano coscienza di che cosa significhi e quali saranno le conseguenze gravi sul loro futuro. Chiari gli ammonimenti nelle testimonianze, cui ho assistito, dei detenuti, che nei loro racconti hanno spiegato e ammesso i propri errori che li hanno portati dietro le sbarre e hanno anche ricordato come siano pericolosi certi messaggi violenti e eversivi che vengono da certi rapper alla moda.
In un primo tempo i ragazzi presenti si sono chiusi in un silenzio che esprimeva il loro disagio. Da una parte esiste una crescente difficoltà nelle scuole ad esprimersi oralmente, in una scelta didattica che per ragioni buone e anche cattive tende a fare quasi esclusivamente degli scritti e questo frustra la capacità nell’ esprimersi in pubblico. Dall’altra spesso il silenzio parla, quando sentimenti ed emozioni stentano, specie in circostanze nuove e inconsuete, a trasformarsi in ragionamenti da condividere.
Quando il clima si è sgelato, è stato un piacere constatare, in questi ragazzi che sono quasi alla fine delle Superiori, come l’impatto fosse stato proficuo per compartecipare ad una discussione. Questo in fondo, al di là dei discorsi dei “grandi”, è lo scopo di una visita così impegnativa in un mondo parallelo e autocentrato, che mostra però un volto sconosciuto, che è bene capire e non solo come ammonimento per tracciare il solco della propria esistenza.

Domande Oltralpe

Leggo ogni giorno il quotidiano francese Le Dauphiné, che copre zone d’Oltralpe con cui la Valle d’Aosta ha da una parte una storia comune sotto Casa Savoia e dall’altro territori di montagna assolutamente analoghi ai nostri. Le Alpi hanno, nei loro 1200 km di lunghezza e 300 km di larghezza, straordinarie analogie e analoghi problemi da affrontare e ciò vale a maggior ragione per l’area del Monte Bianco cui apparteniamo.
Il giornalista Sébastien Voinot si pone per il versante francese del tetto d’Europa alcuni interrogativi interessanti anche se traslati sul nostro versante. Io ne scelgo tre.
Prima domanda: Les stations auront-elles encore de la neige en 2050 ? Traggo qualche passaggio dalla risposta: “Avec le réchauffement climatique, de nombreuses stations de ski de moyenne montagne sont menacées par la raréfaction de l’or blanc. La hausse des températures suit un ordre de grandeur de 0,3 degré par décennie, soit près d’1 degré en 2050. Selon le consortium ClimSnow, la durée d’enneigement se réduira d’environ un mois par degré de réchauffement planétaire. Dit autrement, c’est une remontée de l’altitude d’enneigement de 100 à 250 mètres dans 30 ans, ce qui va inévitablement poser la question de la rentabilité de certaines installations”.
Poi con realismo e senza certo catastrofismo “verde”: “Nul doute que les stations du Mont-Blanc vont souffrir, mais difficile d’imaginer des fermetures en cascade d’ici 2050. Dans ce contexte annoncé, l’offre ski devra s’adapter à l’enneigement futur de nos montagnes”.
Seconda domanda: Y aura-t-il encore des camions dans la vallée ?
Risposta: “2032, c’est la dernière échéance la plus réaliste sur la possible ouverture du fameux Lyon-Turin. La création de cette ligne ferroviaire est sans cesse reculée, mais selon toute vraisemblance, elle devrait être ouverte avant 2050.
La promesse pour la vallée de l’Arve, c’est une baisse drastique du transport international poids lourds. Aujourd’hui, 1 700 camions passent par l’aire de régulation de Passy pour rejoindre plus haut, le tunnel du Mont-Blanc.
Dans 30 ans, l’infrastructure sera toujours là, d’autant qu’elle fait l’objet d’un grand programme de rénovation sur 2022 et 2023. Difficile de croire qu’elle n’accueillera plus de poids lourds, mais la réglementation devrait évoluer drastiquement pour ne laisser que des véhicules dits propres, comme ceux très attendus à hydrogène”.
Chi conosce il dossier è cosciente di come la questione sia molto più complessa e non si può non pensare, sapendo del secco non francese del raddoppio del traforo sul percorso attuale, ad un tunnel di base del Monte Bianco che in lunga prospettiva sostituisca - con tecnologie di trasporto diverse dalla strada come l’intermodalità - il vecchio tunnel.
Terza domanda: Qu’en sera-t-il de la fréquentation de la voie normale du mont Blanc ?
“L’ascension du Toit de l’Europe est loin d’être qu’une affaire d’alpinisme. (…) Avec l’avènement des réseaux sociaux qui anoblissent l’accomplissement personnel, le mont Blanc devrait rester un objectif pour bon nombre de sportifs en herbe durant de longues années.
Mais la voie normale est sujette à l’évolution climatique. Le risque ne cesse d’augmenter, année après année, dans le couloir du Goûter, les chutes de pierres sont légion. La fermeture des refuges de l’itinéraire durant 15 jours cet été en est une parfaite illustration. Comment l’ascension des 4 810 m pourra garder ce passage historique, probablement de plus en plus risqué en haute saison ? Le monde de l’alpinisme pourrait proposer un autre itinéraire, moins risqué. Si celui-ci devient plus dur, alors peut-être que cette course en montagne sera moins courue en 2050”.
Il tema è interessante e riguarda l’approccio anche ad altre cime, come per esempio il “nostro” e svizzero Cervino.

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