Dalla cuccia allo Spleen

”Era una notte buia e tempestosa”: è questa la frase con cui Snoopy, il cane punta di diamante fra i Peanuts, inizia le sue storie, scrivendo sulla sua macchina da scrivere, posizionato sul tetto della sua proverbiale cuccia.
Frase che in tanti - che ne conoscono l’origine - usiamo con senso scherzoso in diverse occasioni, e lo fa specie chi come me è figlio di Linus, la rivista di fumetti dove comparivano un tempo le strisce divertenti, ironiche e spesso sagge di Charles M. Schulz. Un’eredità che resta solida pure dopo la sua scomparsa.a dimostrazione che i fumetti sono stati un passaggio importante è che per ora tiene botta.
Ci pensavo rispetto a questi anni difficili e alla terribile difficoltà di mantenere una certa leggerezza di fronte ai momenti che stiamo vivendo e che ci obbligano a tenere a bada i nostri umori.
C’è questa parola - che assomiglia in qualche modo all’incipit un po’ gotico del celebre bracchetto di Linus - che è da prendere, invece, molto molto sul serio. È “spleen”, che sarebbe atteggiamento sentimentale malinconico. È un termine inglese che viene dall’antico francese “esplen” a sua volta di origine germanica si derivazione neolatina, che sarebbe niente altro che la milza. Si tratta dell’estensione metaforica, che si fonda sulla teoria degli umori, elaborata dalla medicina antica, che attribuisce alla milza la produzione di umor nero e il termine ha incontrato favore nella letteratura romantica. Ad essere precisi si tratta del romanticismo oscuro, cui potremmo dire appartenga l’incipit di Snoopy.
La più significativa espressione, ma già in chiave trasgressiva, è la poesia “Spleen” di Charles Baudelaire, che si trova nella prima parte de Les Fleurs du mal, descrivendo uno stato d’animo malinconico e insofferente
Ne ricordo i versi iniziali:
Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle
Sur l’esprit gémissant en proie aux longs ennuis,
Et que de l’horizon embrassant tout le cercle
Il nous verse un jour noir plus triste que les nuits

Baudelaire visse fra il 1821 e il 1867 e - pare che il creatore di Snoopy non lo sapesse - “Era una notte buia e tempestosa” - dice il sito illibraio - fu usato per la prima volta nel 1830, quando il drammaturgo e politico britannico Edward George Earle Bulwer-Lytton (1803-1873) dava alle stampe il romanzo Paul Clifford, che si apriva proprio con la frase “It was a dark and stormy night”. E ancor prima di lui, nel 1807, una locuzione era apparsa nell’opera satirica A history of New York di Washington Irving (1783-1859):
Insomma: padri nobili, che il nostro Snoopy non aveva letto e neppure il suo fido Woostock che avrebbe potuto consigliarlo.
Esiste, insomma, questa idea del dark che, nella capacità umana di scherzare sul triste e persino sul macabro, si rovescia in divertimento.
Halloween incombe e fa ridere chi dice “non è una nostra tradizione” o chi, peggio ancora, sostiene “un attentato paganeggiante alla religione”. Le tradizioni vanno e vengono nella contaminazione culturale e anche - seconda osservazione - nel nostro cristianesimo si mischiano immagini terribili di dolore e di sangue che sono la premessa alla gioia dell’”andate in pace”, che invita al sorriso e all’abbraccio di una comunità.

Il nostro pane quotidiano

Nel quadro di un progetto europeo transfrontaliero diverse località alpine italiane, francesi, svizzeri e slovene hanno celebrato giorni fa il “pan ner”, il pane nero che accomuna la “Civilisation alpestre” come la chiamava l’Abbé Joseph Bréan.
Per noi cinquanta forni dei villaggi di molti comuni della Valle d’Aosta si sono accesi per questa festa con un grande successo di pubblico nel solco di un’antica tradizione della vita comunitaria dei villaggi.
Faccio entrare in campo il grande studioso del francoprovenzale, Saverio Favre, con quanto scritto sul sito regionale dedicato al Patois.
Così dice: ”Autrefois, le pain était si important pour nos communautés qu'il représentait la vie et méritait le respect, voire même la vénération, de la part de tous. De nombreux usages relatifs au pain ont disparu, d'autres ont survécu jusqu'à nos jours, bien que pas partout et parfois avec des variantes ou des modifications. Dans de nombreuses paroisses, pendant la messe de funérailles, au cours de l'offertoire, un parent du défunt portant un cierge donnait un pain au célébrant qui le déposait sur l'autel. Ce pain servait à nourrir les chiens de garde du cimetière, qui devaient empêcher aux animaux sauvages et aux bêtes féroces d'y entrer pour creuser les tombes”.
E più avanti: ”À table, le pain ­ qui était toujours du pain noir, du pain de seigle ­ devait être traité avec un respect particulier : avant de le couper, il fallait faire sur lui le signe de la croix avec un couteau, un geste accompagné parfois de la formule Mon Djeu, manteun-nó todzor de si bon pan, « Mon Dieu, donne-nous toujours de ce bon pain » ; ce même signe de la croix était fait avant de manger le pain béni, au moment de rompre le caillé, sur un champ qui venait d'être labouré, avec le manche du râteau (ou éventuellement avec deux bouts de bois), et en disant, dans ce dernier cas, un De profundis ... pour les âmes de ceux qui avaient labouré ce même terrain autrefois. Le pain ne devait jamais être posé à l'envers sur la table, c'était un manque de respect: selon certains témoignages, si l'on posait le pain à l'envers c'était parce qu'on ne l'avait pas gagné honnêtement. Il ne fallait jamais jeter le pain. Pour souligner la vénération de nos aïeux pour le pain, une personne d'Ayas disait habituellement : Pètoùech alé pa a messa, ma chinqué pa vià lo pan!, « Plutôt n'allez pas à la messe, mais ne jetez pas le pain ! », estimant ainsi que jeter le pain était un péché plus grave que ne pas aller à la messe du dimanche (à l'époque presque tous étaient pratiquants)”.
Ho già parlato dell’ultimo libro di
Vito Teti, che scrive: ”Che il pane, per contiguità metonimiche, è il cibo che nutre e dà il senso, che il pane invera la fatica di chi l’ha prodotto. Di questa pedagogia del valore “filosofico” e culturale del pane resta memoria nelle tante iniziative promosse per la produzione biologica e per un consumo sostenibile, che rimane ancorato al rapporto con la terra, la fatica, la frugalitas”. D’altra parte, nel recitare il Padre Nostro, chiediamo sempre il “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”.
Fa sempre impressione, quando si è in altri Paesi e in Italia in altre Regioni, scoprire quanti pani esistano con diverse forme e gusti a dimostrazione della straordinaria inventiva umana e questo vale per le diverse modalità di impastii e di cottura. Una specie di sinfonia di cereali.

Il Berlusconi “sparlante”

Lo è o ci fa? L’interrogativo su Silvio Berlusconi è legittimo, dopo le uscite pressoché quotidiane da cavallo pazzo che picconano (per usare un verbo che venne usato per le esternazioni bislacche del Presidente Cossiga) la stabilità del centrodestra e fanno imbufalire Giorgia Meloni, ormai piazzata sulle scale di Palazzo Chigi.
Il punto più dolente è un Cavaliere che ai suoi eletti ha rivelato il suo sentimento filorusso (prendendo anche le distanze dal leader ucraino Zelensky) nel corso di un monologo a tratti grottesco.
Elio Vito, che è stato parlamentare di lungo corso prima radicale e poi di Forza Italia, ha fatto un tweet rivelatore almeno di un aspetto. Scrive: “Non faccia l'ingenua anche Meloni, le posizioni di Berlusconi su Putin, Crimea, Donbass, l'Ucraina erano note e ribadite, ahimè, anche dopo l'invasione russa. E lei ci si è alleata, ha preso voti, vinto collegi e le elezioni con Berlusconi. Ora fa l'atlantica, lei, amica di Orban”.
Già, la Meloni ha in corso una straordinaria azione di camuffamento che ha convinto gli italiani, abili nel farsi prendere all’amo come fece lo stesso Berlusconi, delle sue doti straordinarie e soprattutto di aver abiurato le radici neofasciste da cui indubitabilmente arriva.
Ma torniamo a Berlusca e alla sua vera o presunta cena di - spiace usare la parola - rincoglionimento senile.
Ha scritto lo scafato Francesco Merlo su Il Foglio: “Non sente bene da un orecchio, parla un po’ a ruota libera, si confonde sui collegi uninominali, racconta sempre la stessa barzelletta su lui e il Papa in aereo, comincia forse ad assomigliare al personaggio di quel film in cui Michele Placido interpreta un uomo politico che divenuto anziano non riesce più a dire le bugie e dunque dice tutto quello che pensa, eppure... “guardate che Berlusconi era così anche vent’anni fa. La resa scenica è logorata dagli anni, certo, ma l’animus pugnandi è lucido. Silvio a volte fa cose irrazionali che dipendono da un’esorbitante personalizzazione dei conflitti. E ora gli interessa solo una cosa, credetemi e non è politica: lui vuole sfregiare Giorgia Meloni, l’abusiva”. Dice così Fabrizio Cicchitto che è stato il capogruppo del Cavaliere negli anni napoleonici e disastrosi del Pdl, culminati nella notissima e furibonda lite con Gianfranco Fini, forse il climax ascendente dell’irrazionalità di questo Titano ribelle, Silvio Berlusconi appunto, mezzo Prometeo e mezzo Anticristo, anomalo perché in conflitto d’interessi, in conflitto d’interessi perché anomalo, chiamato dal destino a imporsi, a distruggere, a dilaniare anche se stesso in una battaglia e in una sofferenza sovrumane: “Dopo di me il diluvio”. Casini, Fini, Alfano, Tremonti, Scelli, Bertolaso, Brambilla, Samorì, Fiori, Martinelli (quello di Grom), Toti, Parisi... per venticinque anni Berlusconi ha lasciato intravedere ai suoi smaniosi alleati e cortigiani la possibilità di consegnare lo scettro a qualcuno di loro, indicando ora l’uno, ora l’altro, ora tutti e ora nessuno. Insomma ha divorato più delfini lui di qualsiasi altro pescecane, annichilendo persone anche per un nonnulla, e forse soltanto perché, come dice Giuliano Urbani, che Forza Italia la fondò con il Cavaliere nel 1994, “per Silvio è inconcepibile che qualcun altro possa fare il leader e il presidente del Consiglio del centrodestra al posto suo. Tanto meno la Meloni che sembra fatta costituzionalmente per non piacergli. Piccola, donna, giovane e anche un po’ ‘fascistina’ come disse Fedele Confalonieri”. E Salvini allora? “Salvini non è mai stato leader di niente, ha governato con i grillini e non è mai stato in predicato di diventare presidente del Consiglio. La Meloni invece lo manda ai matti. Letteralmente. E’ proprio così, io lo conosco Berlusconi”. E allora eccolo il Cavaliere, che giovedì scorso aveva cercato di ritardare l’elezione di Ignazio La Russa in Senato, a sfregio, come si dice. Ed eccolo ancora, non soltanto imprevedibile ma anche un po’ sadico, mentre si fa fotografare con i famosi appunti su
Meloni “supponente, prepotente, arrogante e offensiva”. Eccolo infine, il giorno dopo, spinto quasi contro la sua volontà da Gianni Letta, dalla figlia Marina e da Pier Silvio ad andare in Via della Scrofa, la sede di Fratelli d’italia. Canossa. Una pace durata lo spazio di una sera”.
Poi - spiace interrompere questa prosa prorompente - la fuga delle registrazioni, destinata forse a proseguire, con cui ha messo macigni sulla strada della Meloni.
Insomma: lo è o ci fa?
Non ho certezze, ma lo spettacolo, anche nei suoi aspetti miserandi, è assicurato.

I figli di Erasmus

“Le idee migliori non vengono dalla ragione, ma da una lucida, visionaria follia”.
Questa frase di Erasmo da Rotterdam, tratta dal celebre e beffardo “Elogio della follia” (una copia era in casa, ereditata dalla biblioteca di mio nonno!), l’ho ricordata in questi giorni ai ragazzi delle Superiori presenti all’Università della Valle d’Aosta per festeggiare Erasmus, programma europeo che ha compiuto 35 anni, che oggi vale per l'istruzione, la formazione, la gioventù e lo sport in Europa, cui collaborano per gli scambi tantissimi Paesi.
Erasmus è un’acronimo - EuRopean Community Action Scheme for the Mobility of University Students – che è stato, però, occasione per ricordare Erasmo da Rotterdam, umanista e pozzo di scienza che girò per tutta l’Europa fra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento e questa sua caratteristica errante era giusto riferimento di un progetto di spostamento nato per gli studenti universitari inviati a studiare per un periodo in Università straniere, poi espanso in diversi settori e soprattutto è possibile andare pressoché in tutti i Paesi del mondo.
Oggi gli interessati sono diventati assai numerosi e la progettualità spazia moltissimo e li elenco non a caso per capire il perimetro: per progetti che interessano il settore dell'istruzione superiore: studenti nell'ambito dell'istruzione superiore (ciclo breve, primo, secondo o terzo ciclo), insegnanti e professori dell'istruzione superiore, personale di istituti d'istruzione superiore, formatori e professionisti in imprese; per progetti che interessano il settore dell'istruzione e formazione professionale: apprendisti e studenti che frequentano istituti di istruzione e formazione professionale, professionisti e addetti all'istruzione e alla formazione professionale, personale di organizzazioni di istruzione e formazione professionale iniziale, formatori e professionisti in imprese; per progetti che interessano il settore dell'istruzione scolastica: dirigenti scolastici, insegnanti e personale scolastico, alunni della scuola pre-primaria, primaria e secondaria; per progetti che interessano il settore dell'istruzione degli adulti: membri di organizzazioni per l'istruzione non professionale degli adulti, formatori, personale e discenti dell'istruzione non professionale degli adulti; per progetti che interessano il campo della gioventù: giovani dai 13 ai 30 anni, animatori socioeducativi, personale e membri delle organizzazioni attive nel campo della gioventù; per progetti che interessano il campo dello sport, i principali beneficiari sono: professionisti e volontari nel campo dello sport, atleti e allenatori.
Un’offerta incredibile per aprire le menti e conoscere realtà diverse dalla propria!
Cosa c’entra la frase iniziale? Dalla follia delle guerre novecentesche è nata la follia dell’utopia visionaria europeista, che si è concretizzata fra alti e bassi, dimostrazione che esistono “follie” cattive e quelle buone. Erasmus, che ha segnato e segnerà molte generazioni con una coscienza crescente dell’importanza della politica comunitaria. Con un solo augurio: che i tanti valdostani “Erasmus” che hanno scelto di restare all’estero dopo questa esperienza o in seguito a questa esperienza sappiano anche tornare da noi o, pur decidendo di restare distanti, aiutino con il loro contributo di idee e proposte la loro Valle d’origine.

Quando un paese si preoccupa

Verrès è il paese dove sono cresciuto. Non ci sono nato perché a partire dalla metà degli anni Cinquanta (io sono del 1958) le nascite in casa con l’ostetrica scemarono a vantaggio della Maternità di Aosta o, per qualche tempo, anche di Ivrea.
Questo mio paese della Bassa Valle con i suoi 2500 abitanti è noto per il castello-fortezza (sede dal dopoguerra del Carnevale storico) e per il complesso della Collegiata e come porta d’accesso della Val d’Ayas. La popolazione ha un senso di comunità, per quanto - in particolare per la vocazione industriale di un tempo - composta da famiglie di varia provenienza (più di 30 nazionalità diverse) che si sono integrate, tranne qualche eccezione e con qualche inquietudine per i seconda generazione, con i verrezziesi originari del luogo. Un simbolo di questo è il coro maschile che ha un repertorio che spazia nel mondo senza dimenticare l’ancoraggio con le tradizioni. Tratto distintivo di questi anni il fatto che con la ristrutturazione di un cotonificio dismesso esiste oggi un polo scolastico di scuole Superiori con un migliaio di studenti, che hanno ringiovanito un paese che soffre come tutta la Valle d’Aosta di un’acuta crisi demografica.
Visto che oggi va di moda il termine lo potremmo definire un bel borgo con una vita di paese simile a molti altri. Il giovane sindaco, Alessandro Giovenzi, che è anche il mio segretario, è un amministratore capace che ha dato una svolta importante alla cittadina.
Quadro quieto, ma proprio il sindaco si trova nelle mani un rovello che pare irrisolvibile. Esistono ragazzi e in certi casi ragazzini che si sono aggregati in una logica da banda e da anni, purtroppo facendo tendenza e anche proselitismo, si dedicano ad atti vandalici e pure a forme di bullismo, spingendosi ormai verso la delinquenza giovanile. Lo dimostrerà a breve un primo passaggio in Tribunale di alcuni di loro.
Ultimo episodio poche sere fa. Dopo una festa di coscritti (sciaguratamente pubblicizzata anche con un’esaltazione di consumo degli alcolici) hanno divelto a Verrès parte di un impianto elettrico, cercato di bruciare le telecamere e sparso bottiglie rotte per tutto il paese
Che fare? Al capezzale del Comune arrivò in passato il Tribunale dei minori di Torino, ma par di capire che - a differenza di altri Paesi europei - in Italia le armi penali per reagire a situazioni di questo genere siano piuttosto spuntate. Si sa che i Carabinieri stanno sviluppando azioni investigative che si immagina daranno nuovi frutti, sperando che poi la Magistratura non sia di manica larga.
Ci sono genitori che reagiscono in modo collaborativo, ma troppi - con una tendenza che stupisce chi ha avuto educazione come la mia - dimostrano di essere giustificativi con il comportamento dei propri figli e pronti a mettere mano al portafoglio per risarcire, come se quello fosse il solo problema e non risultino invece problemi educativi e comportamentali.
Spiace molto che questo avvenga. Come Regione organizziamo a beneficio di studenti e insegnanti, ma anche delle famiglie, incontri mirati su legalità e cittadinanza, che offrono informazioni e strumenti utili. Purtroppo non si riesce a raggiungere tutti e lo spirito imitativo alimentato da cattive compagnie fa uscire dai binari la comprensibile esuberanza giovanile senza che ci si renda conto quanto poco ci si metta a passare da ragazzate a reati.

Dal mercenario alla marmotta

L’arretramento dei ghiacciai e il loro drammatico scioglimento serviranno nel tempo a raccontarci ancora meglio come i cambiamenti climatici del passato abbiano inciso sulla natura delle Alpi e dunque anche sul popolamento delle nostre montagne e sulla presenza umana specialmente in transito.
L’esempio più recente sul nostro territorio, certo più simpatico del rinvenimento di corpi e di materiale di alpinisti scomparsi e imprigionati dal gelo, riguarda la mummia di marmotta rinvenuta lo scorso agosto, sulla parete est del Lyskamm, a una quota di 4.300 metri, restituita dal ghiacciaio. La datazione calibrata al radio carbonio rivela che l’esemplare è vissuto circa 6.600 anni fa, nel Neolitico. L’attendibilità del risultato, pari al 95,4%, attesta l’eccezionalità del dato che colloca la mummia del Lyskamm tra il 4.691 e 4.501 a.C. .
Interessante quanto ha scritto Marco Horat, facendo riferimento alla “mummia” più famosa di tutte, che ho visitato in occasione di mie visite nel Tirolo del Sud: “Quando nel 1991 sulle Alpi italiane vennero casualmente alla luce i resti di Ötzi vecchi di oltre 5000 anni, si parlò giustamente della scoperta archeologica del secolo; ora la più famosa mummia al mondo, insieme a tutti gli oggetti che lo accompagnavano nel suo ultimo viaggio (vestiti, calzature, armi, strumenti vari) si trovano nel bellissimo museo di Bolzano, oggetto di studio continuo e di cure appropriate. Un decennio prima in Vallese, nella regione di Zermatt, sul colle del Teodulo che collega Svizzera e Italia, erano venuti alla luce alcuni frammenti ossei di un uomo con una panoplia di armi e bagagli datati agli inizi del XVII secolo avanti Cristo, che trasportava mentre forse si recava a sud delle Alpi: di qui il soprannome di «Mercenario del Teodulo» che gli archeologi gli hanno scherzosamente dato”.
Sintetizza bene Wikipedia: “Nel 1984, durante un’escursione sugli sci con degli amici nella parte superiore del ghiacciaio del Teodulo, Annemarie Julen-Lehner scoprì accidentalmente un pugnale e una moneta. Tra il 1984 e il 1989, accompagnata a più riprese da suo fratello, Peter Lehner, e da amici o altri membri della sua famiglia, raccolse diverse ossa umane, armi, monete (per un totale di 184 esemplari), resti di mulo, gioielli in argento, unitamente a svariati pezzi di vetro, legno, tessuto, metallo e cuoio, tutti venuti alla luce a seguito dello scioglimento dei ghiacci”.
Così precisa ancora l’articolo: “La presenza di armi portò inizialmente gli studiosi a pensare che si trattasse dei resti di uno dei tanti mercenari che dalla Germania raggiungevano l'Italia, passando per il Canton Vallese, per prestare il loro servizio a qualche potentato locale. L'ipotesi sembrò trovare conferma dall'esame preliminare delle monete, che risultarono coniate in larghissima parte in zecche tedesche e del nord Italia.
Un successivo riesame, promosso dal Canton Vallese a partire dal 2011 e condotto da un team multi-disciplinare di esperti - tra cui antropologi forensi, paleobotanici, glaciologi e numismatici - ha portato a una contestazione della lettura originale, propendendo invece per ricondurre i resti a un esponente della piccola nobiltà (i materiali di cui erano composti gli abiti sono stati giudicati troppo raffinati per essere messi in relazione con un mercenario), probabilmente di origini tedesche, di ritorno da un soggiorno in Italia e deceduto poco prima del 1610.
I materiali sono oggi esposti integralmente presso il Muséé d'Histoire du Valais di Sion. La denominazione di "mercenario" relativa al personaggio è stata mantenuta, ora opportunamente virgolettata, in quanto è con questo termine che si è fatto riferimento ad esso fin dal suo ritrovamento”.
“Incontri” con il passato di questo genere si sono moltiplicati in tutto l’arco alpino a causa dei cambiamenti climatici che hanno portato al ritiro dei ghiacciai. Proprio nuovi metodi di ricerca sofisticati resi possibili dallo sviluppo della tecnologia, hanno dato vita a una nuova branca scientifica: quella dell’archeologia glaciale, che studia i reperti che si sono conservati nel ghiaccio anche per millenni.
Il caso della già citata “mummia del Similaun”, detto Ötzi, dal nome della regione dove fu trovato, Ötztal, è significativo di come un corpo umano e gli oggetti che erano su di lui possano dar vita a ricerche straordinarie. “Ötzi è il corpo umano più esaminato che il mondo abbia mai visto” ha detto il patologo tedesco Oliver Peschel, che si occupa della sua conservazione. Per questo oggi siamo in grado di ricostruire una gran quantità di caratteristiche di Ötzi e della sua vita e questo arricchisce il contesto antropologico della storia alpina. Prepariamoci a nuovi ritrovamenti che ci racconteranno storie avvincenti come questa.

Riflessioni sulla Restanza

Quante volte, percorrendo le nostre vallate valdostane, ci prende il groppo in gola in paesi e frazioni dove ad occhio nudo - senza consultare tabelle demografiche - ci si accorge del drammatico spopolamento. Fenomeno di un abbandono umano dei luoghi, che si acuisce in modo doloroso con la crisi delle nascite che accelera il rischio di morte di intere comunità, alcune delle quali per essere onesti appaiono già spente.
Ecco perché, pur partendo da una realtà distante come la Calabria, ho trovato interessante la lettura di un libro, intitolato La Restanza, pubblicato da Einaudi e scritto da Vito Teti, professore ordinario di Antropologia culturale all'Università della Calabria,
La sintesi in copertina è mirabile: “Partire e restare sono i due poli della storia dell'umanità. Al diritto a migrare corrisponde il diritto a restare, edificando un altro senso dei luoghi e di se stessi. Restanza significa sentirsi ancorati e insieme spaesati in un luogo da proteggere e nel contempo da rigenerare radicalmente”.
I ragionamenti sono in larga parte applicabili anche alla nostra realtà. Provo a riassumere qui alcuni pensieri che condivido e che partono dalla necessità - scrive Teti - di affondare la retorica sul tema contro “l'elogio del piccolo borgo (ma perché non si è parlato di paese?) dal quale lavorare a distanza, a volte da parte di persone che conoscono i paesi interni per flussi turistici vissuti in superficie e senza intima esplorazione dell'alterità. Questa radicale immersione nel quid metastorico e culturale dei luoghi è l'aspetto che piú mi sta a cuore: riabitare i paesi interni, riabitare la montagna, guardare al centro dalla prospettiva inedita ed umanissima della periferia, mi sembra possa essere una delle vie di salvezza per l'intero sistema-Paese”.
Apro una parentesi. Qualcuno avrà sentito questo termine “aree interne”, inventato a suo tempo dal Ministro Fabrizio Barca, che nel dibattito nazionale ha finito per cancellare la parola che ci interessa e cioè Montagna ed è stato un errore epocale. Chiusa parentesi.
Teti si spiega bene in molti passaggi e c’è una frasetta brutale ma realistica nel parlare di certi paesi dove “C’è piú popolo al camposanto che in piazza”.
Ma lo fa con amore e speranza, lui che ha scelto di tornare a vivere nel paese natio della Calabria: “Il mio non è un elogio del restare come forma inerziale di nostalgia regressiva, non è un invito all’immobilismo, ma è solo il tentativo di problematizzare e storicizzare le immagini-pensiero del rimanere come nucleo fondativo di nuovi progetti, di nuove aspirazioni, di nuove rivendicazioni”.
È una militanza attaccante che condivido e che critica chi ci marcia sui “borghi” (definizione fuorviante dei paesi, come già detto): “Promuovere questa «retrotopia» sui media, a mitizzarne la presunta purezza, sono spesso gli stessi che, negli ultimi decenni, hanno creato fortune private e pubblici disastri con una visione urbanocentrica, persone che in tempi recenti ancora hanno considerato i paesi come luoghi di arretratezza e di angusto conservativismo, da cui fuggire e da abbandonare al loro destino. Si tratta di una forma subdola di neoetnocentrismo che incontra una moda esotica, neoromantica, di quanti non pensano al paese come ad un luogo abitabile o da abitare, ad una comunità da inventare in forme del tutto nuove, e che di fatto rischiano solo di porre una lapide dove versare le poche lacrime ancora disponibili, dove esercitare le loro sterili malinconie. Il ritorno al paese viene oggi spesso evocato nell’ambito di una visione estetizzante delle rovine, espressione di una sorta di flânerie contemporanea.”
“Retropia” è il titolo di un libro di Zygmunt Bauman, parola che indica un’utopia che idealizza il passato, considerato più rassicurante.
E invece Teti guarda avanti: “Sulla scena geografica del vecchio e nuovo mondo si affacciano individui e gruppi che hanno bisogno d’inventare il villaggio, le origini, la piccola patria come luogo di una diversità da recuperare, di una superiorità da ostentare. Ci vorrebbe una piú accorta antropologia dei paesi per creare un progetto capace di oggettivare bellezza e valori, di farsi pietra ferma e insieme vento che porta semi in cerca di terra. La memoria è importante. Occorre avere contezza del fatto che la montagna e le aree interne non erano zone improduttive e isolate, ma mobili luoghi di vita. Oggi la montagna, con le sue risorse, con i suoi paesaggi, con le nuove forme di economia, con le nuove sensibilità e consapevolezze, potrebbe tornare a immaginare e a decidere un diverso destino”.
Bisogna farlo in fretta per evitare di “distruggere i mondi quando sono in vita per poi costruire la retorica del pianto e del rimpianto quando sono ormai moribondi o si “pietrificano” in un reliquario in decomposizione.”
Ed è necessario evitare errori: “Nelle spopolate aree interne, nella speranza di attrarre residenti, è stata proposta piú volte la vendita «a un euro» delle case abbandonate dai proprietari. Si tratta dello slogan di una presunta azione di salvaguardia che, però, è rivolta alla vita degli immobili e non a quella delle persone, che punta ad attivare microcircuiti edilizi, che incoraggia le fughe-singhiozzo dalle città invivibili, ma che in nessun modo si configura come un progetto organico teso alla costruzione di nuovi legami comunitari”.
E ancora: “I paesi non si rigenerano con gli slogan, con proposte estemporanee che seducono per fascinazione. Non basta ristrutturare qualche casa per invertire dinamiche di infragilimento umano e di rarefazione dei servizi di prossimità spesso oltre la soglia dell’irrimediabilità. Le soluzioni “facili” aiutano poco ed oscurano la complessità del riabitare possibile dei paesi. Riabitare significa ricostruire comunità, creare le condizioni essenziali per consentire di rimanere a chi vuol restare, per favorire il ritorno di chi vuole tornare, per accogliere chi ha maturato la scelta della vita da paese. Ristrutturare e recuperare immobili è solo un tassello della rigenerazione. A volte, in pochi casi, diventa possibile, ma occorre distinguere la nascita di una nuova comunità da quella di un villaggio turistico aperto solo d’estate. Senza un’offerta adeguata di servizi di cittadinanza essenziali – la scuola, la farmacia, i trasporti locali, la connessione a internet, un presidio sanitario di prossimità – il ritorno in “vita” di qualche casa non sarà sufficiente per consentire un’esistenza dignitosa ai residenti e per contrastare il declino".
Insomma un cantiere di idee e proposte per nulla banali, ma con un spirito da applicare che sia chiaro e con una scelta affettuosa: “«Cura» è una parola densa di significato, è sollecitudine, premura, attenzione, riguardo, e il suo orizzonte semantico racchiude anche l’amore e la pena amorosa. La cura ha un senso vivo anche nella sfera pratica, accoglie in sé tutta l’attenzione necessaria nel rapporto tra l’uomo e le piante, tra l’uomo e gli animali, nel mondo che dividono. La cura è amore che accetta, perché possiamo amare in modo maturo solo ciò che conosciamo nella sua verità e nudità. E i luoghi richiedono amore vero, quello che nasce da una salvifica schiettezza, quello che mette a nudo bellezze e bruttezze per esaltare la profonda complessità del reale. Cura dei luoghi significa anche farsi carico delle verità drammatiche, quelle che tutti vorremmo tacere o edulcorare, nascondere o rifiutare in ogni modo. Cura è saper fare i conti con il dolore. L’avere cura è un paradigma etico, morale, estetico. Cura significa avere attenzione per le persone, per i rapporti, per i legami. La cura ha una visione globale del corpo, del corpo-paese, del corpo-comunità e dell’alterità che al corpo si accosta”.

Guardando a Roma

Il confronto fra idee diverse è importante. Se il dialogo è finto, perché ci si limita ad esporre il proprio pensiero senza prestare attenzione a tesi altrui, allora la democrazia in quanto tale si inaridisce e finiamo, come spesso vedo fare, in una lunga serie di comizietti rivolti ai propri elettori e per null’altro utili.
L’attuale situazione politica italiana mi pare partita male. L’elezione di due “estremisti” alla Presidenza delle Camere - al Senato Ignazio La Russa coi trascorsi neofascisti e alla Camera di Lorenzo Fontana che dice cose gravi sui diritti civili - appare esemplare della scelta di rottura da parte del centrodestra, che si è pure ritrovato franchi tiratori. È passata in fretta l’idea che pareva avere avuto la stessa Giorgia Meloni di dare una delle due Presidenze all’opposizione.
Altrettanto importante è scrutare segni che emergono dalla società verso la Politica e spesso utilmente proposti da commentatori arguti.
Penso ad Antonio Polito su Sette, quando dice: “Consumiamo ormai le leadership quasi più velocemente di come le costruiamo. (…) Forse non è solo colpa del cittadino che va troppo veloce e brucia i tempi. Magari è anche la democrazia che va troppo lenta.
Il 13 ottobre si sono insediate le Camere. Gli italiani ci hanno messo un solo giorno ad eleggere i parlamentari. Loro ci hanno messo diciotto giorni per riunirsi. So perfettamente che ci sono mille buone ragioni perché si prendano il tempo che ci vuole: controlli, proclamazioni, telegrammi di convocazione, formalità varie. Ma intanto, nell’attesa, non solo non può nascere un governo che è già stato partorito dalle urne, ma comincia addirittura a logorarsi prima ancora di esistere: nelle indiscrezioni sui ministri, nei contrasti programmatici, nelle liti vere e presunte. E d’altra parte non è che la burocrazia finisca con l’apertura del Parlamento: voi non ci crederete ma l’ultima volta la convalida degli eletti al Senato è arrivata anni dopo, ben oltre la metà della legislatura”.
Così chiude: “Attenzione, quest’ansia di velocità non è un vezzo modernista. Il contrasto tra il “tempo reale” in cui ormai viviamo e il “tempo istituzionale” in cui vive la politica diventa infatti sempre più dannoso per la reputazione della democrazia: come se fosse una cosa di un’altra epoca, e dunque abbastanza inutile. Oggi le cose si vedono mentre accadono, e l’opinione si forma mentre accadono. La lentezza è una condanna per chiunque. Nessuno del resto comprerebbe un’automobile che promette una velocità di crociera di 130 orari e poi non supera i 60.
Se dunque volete salvare e rilanciare questa nostra malata ma amata e necessaria democrazia, cari parlamentari appena insediati: datevi una mossa”.
Ammonimento che non vale solo in Italia…
Salto di palo in frasca per dire dell’utilità degli spunti per confrontarsi. Ne scrive su Il Fatto Giovanni Belardelli: ”Non si può non notare che Giorgia Meloni, nei suoi discorsi e nelle sue affermazioni pubbliche, utilizza spesso la parola “nazione” per riferirsi a ciò che più comunemente viene da tempo definito come “paese” (o il “nostro paese”). Si tratta di una parola abbastanza desueta nel linguaggio comune, il cui impiego avrà meravigliato qualcuno e indotto magari qualcun altro a collegarla alla tradizione politica da cui la probabile prossima presidente del Consiglio proviene, quasi che il termine abbia una chiara connotazione di destra. Non è esattamente così.
Anzitutto va ricordato che la parola veniva utilizzata senza problemi nella nostra Costituzione (e pure con la maiuscola), ad esempio nel fondamentale art. 67: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Ben presto si trovò però a essere impiegata sempre meno, soprattutto perché molti la mettevano in relazione con l’uso e l’abuso che ne aveva fatto il fascismo e le preferivano dunque il termine “paese” “.
Mi permetto di dire che sarebbe meglio, alla francese, parlare di Repubblica, ma capisco che nazione si sposa in Meloni con il pensiero sovranista e naturalmente centralista, che dovrebbe far tremare i Governatori leghisti che rivendicano un’autonomia differenziata e preoccupare pure noi che speciali lo siamo già e saremo assai probabilmente nel mirino.
Il nazionalismo senza federalismo fa paura.

Limpida Segre

Liliana Segre, classe 1930, ha la stessa età di mia mamma, che a differenza sua e della sua lucidità ormai vive, pur in salute, in un mondo suo scisso dalla realtà.
Mio papà, che non c’è più, avrebbe oggi 99 anni e molte cose dette dalla Segre all’apertura dei lavori del nuovo Senato, da lei presieduta perché decana, le avrebbe certamente condivise.
Vorrei da quella locuzione trarre alcune cose che devono restare passate, cominciando dal commovente incipit in cui ha ricordato il collega Senatore a vita, il già Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, mio amico, che non ha potuto partecipare perché non sta bene.
La guerra in Ucraina è stato il primo argomento: “Incombe su tutti noi in queste settimane l'atmosfera agghiacciante della guerra tornata nella nostra Europa, vicino a noi, con tutto il suo carico di morte, distruzione, crudeltà, terrore...una follia senza fine”. E ha citato la chiarezza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: "la pace è urgente e necessaria. La via per ricostruirla passa da un ristabilimento della verità, del diritto internazionale, della libertà del popolo ucraino".
Poi , la citazione sul centenario della marcia su Roma, atto primo del Ventennio fascista: “Ed il valore simbolico di questa circostanza casuale si amplifica nella mia mente perché, vedete, ai miei tempi la scuola iniziava in ottobre; ed è impossibile per me non provare una sorta di vertigine ricordando che quella stessa bambina che in un giorno come questo del 1938, sconsolata e smarrita, fu costretta dalle leggi razziste a lasciare vuoto il suo banco delle scuole elementari, oggi si trova per uno strano destino addirittura sul banco più prestigioso del Senato!”.
L’elezione qualche ora dopo di Ignazio La Russa, che da giovane sposò il neofascismo, è risultata una ben strana staffetta al comando dell’aula di Palazzo Madama.
La Segre sul nuovo Senato, che ha ricordato essere stato votato per la prima volta anche dai diciottenni è ridotto a soli 200 senatori (una scelta che considero aberrante): “Dare l'esempio non vuol dire solo fare il nostro semplice dovere, cioè adempiere al nostro ufficio con "disciplina e onore", impegnarsi per servire le istituzioni e non per servirsi di esse”.
Sulla politica urlata: “Potremmo anche concederci il piacere di lasciare fuori da questa assemblea la politica urlata, che tanto ha contribuito a far crescere la disaffezione dal voto, interpretando invece una politica "alta" e nobile, che senza nulla togliere alla fermezza dei diversi convincimenti, dia prova di rispetto per gli avversari, si apra sinceramente all'ascolto, si esprima con gentilezza, perfino con mitezza”.
Il successivo riapparire dei franchi tiratori al voto per il Presidente è stato un evidente stridore.
Sul futuro ha così commentato: “La maggioranza uscita dalle urne ha il diritto-dovere di governare; le minoranze hanno il compito altrettanto fondamentale di fare opposizione. Comune a tutti deve essere l'imperativo di preservare le Istituzioni della Repubblica, che sono di tutti, che non sono proprietà di nessuno, che devono operare nell'interesse del Paese, che devono garantire tutte le parti.
Le grandi democrazie mature dimostrano di essere tali se, al di sopra delle divisioni partitiche e dell'esercizio dei diversi ruoli, sanno ritrovarsi unite in un nucleo essenziale di valori condivisi, di istituzioni rispettate, di emblemi riconosciuti”.
E ancora il nodo della Costituzione repubblicana, che sarà assai probabilmente sottoposta a rischi di arrembaggio nei prossimi anni: “In Italia il principale ancoraggio attorno al quale deve manifestarsi l'unità del nostro popolo è la Costituzione Repubblicana, che come disse Piero Calamandrei non è un pezzo di carta, ma è il testamento di 100.000 morti caduti nella lunga lotta per la libertà; una lotta che non inizia nel settembre del 1943 ma che vede idealmente come capofila Giacomo Matteotti.
Il popolo italiano ha sempre dimostrato un grande attaccamento alla sua Costituzione, l'ha sempre sentita amica.
In ogni occasione in cui sono stati interpellati, i cittadini hanno sempre scelto di difenderla, perchè da essa si sono sentiti difesi.
E anche quando il Parlamento non ha saputo rispondere alla richiesta di intervenire su normative non conformi ai principi costituzionali - e purtroppo questo è accaduto spesso - la nostra Carta fondamentale ha consentito comunque alla Corte Costituzionale ed alla magistratura di svolgere un prezioso lavoro di applicazione giurisprudenziale, facendo sempre evolvere il diritto”.
Per questo è stata cautissima sulle riforme: “Naturalmente anche la Costituzione è perfettibile e può essere emendata (come essa stessa prevede all'art. 138), ma consentitemi di osservare che se le energie che da decenni vengono spese per cambiare la Costituzione - peraltro con risultati modesti e talora peggiorativi - fossero state invece impiegate per attuarla, il nostro sarebbe un Paese più giusto e anche più felice.
Il pensiero corre inevitabilmente all'art. 3, nel quale i padri e le madri costituenti non si accontentarono di bandire quelle discriminazioni basate su "sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali", che erano state l'essenza dell'ancien régime.
Essi vollero anche lasciare un compito perpetuo alla "Repubblica": "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". Non è poesia e non è utopia: è la stella polare che dovrebbe guidarci tutti, anche se abbiamo programmi diversi per seguirla: rimuovere quegli ostacoli!”.
Strettamente legato l’appello sulle festività civili, affinché non siano divisive e temo che su questo ne vedremo delle belle: “Le grandi nazioni, poi, dimostrano di essere tali anche riconoscendosi coralmente nelle festività civili, ritrovandosi affratellate attorno alle ricorrenze scolpite nel grande libro della storia patria. Perchè non dovrebbe essere così anche per il popolo italiano? Perché mai dovrebbero essere vissute come date "divisive", anziché con autentico spirito repubblicano, il 25 Aprile festa della Liberazione, il 1  Maggio festa del lavoro, il 2 Giugno festa della Repubblica? Anche su questo tema della piena condivisione delle feste nazionali, delle date che scandiscono un patto tra le generazioni, tra memoria e futuro, grande potrebbe essere il valore dell'esempio, di gesti nuovi e magari inattesi”.
Poi un appello che non si può non condividere e suona come un nobile ammonimento: “Altro terreno sul quale è auspicabile il superamento degli steccati e l'assunzione di una comune responsabilità è quello della lotta contro la diffusione del linguaggio dell'odio, contro l'imbarbarimento del dibattito pubblico, contro la violenza dei pregiudizi e delle discriminazioni”.
E ancora un passaggio istituzionale condivisibile: “Da molto tempo viene lamentata da più parti una deriva, una mortificazione del ruolo del potere legislativo a causa dell'abuso della decretazione d'urgenza e del ricorso al voto di fiducia. E le gravi emergenze che hanno caratterizzato gli ultimi anni non potevano che aggravare la tendenza”.
Infine l’attualità: “Un impegno straordinario e urgentissimo per rispondere al grido di dolore che giunge da tante famiglie e da tante imprese che si dibattono sotto i colpi dell'inflazione e dell'eccezionale impennata dei costi dell'energia, che vedono un futuro nero, che temono che diseguaglianze e ingiustizie si dilatino ulteriormente anzichè ridursi. In questo senso avremo sempre al nostro fianco l'Unione Europea con i suoi valori e la concreta solidarietà di cui si è mostrata capace negli ultimi anni di grave crisi sanitaria e sociale.
Non c'è un momento da perdere: dalle istituzioni democratiche deve venire il segnale chiaro che nessuno verrà lasciato solo, prima che la paura e la rabbia possano raggiungere i livelli di guardia e tracimare”.
Applaudo.

Uso e abuso della Pace

Pace. Se ne parla molto di questi tempi con la guerra non distante da noi e capita, facendo gli scongiuri, di parlare con gli amici con cui si ha più confidenza, chiedendoci reciprocamente e un po’ di sottecchi dove diavolo ci porterà la follia aggressiva della Russia. Con quel detto e non detto del terrore nucleare che potrebbe cambiare le nostre vite in pochi minuti.
Questa parolina, Pace, ha origini note e etimoitaliano così la racconta: “L'etimologia della parola pace si ricollega alla radice sanscrita pak- o pag- = fissare, patuire, legare, unire, saldare (da cui derivano anche altre parole di uso comune come patto o pagare) che ritroviamo nel latino pax = pace. Per cui, la pace è quella preziosa condizione  di armonia, quel sentimento di concordia, di unione che dovrebbe legare individui e popoli, come appartenenti alla stessa famiglia umana. Tale auspicabilissima quanto utopica condizione presuppone però che ogni individuo, prima ancora di essere in pace con gli altri, sia in pace con sé stesso...”.
Il finale apre un mondo di riflessioni, come il dizionario del rimpianto linguista Tullio De Mauro, che ne coordinò i lavori.
Dopo le definizioni classiche, tipo
“condizione di un popolo o di uno stato che non sia in guerra con altri o non abbia conflitti, lotte armate in corso al suo interno” oppure “ristabilimento di tale condizione dopo un periodo di guerra” spunta quella che più mi piace. Eccola: “nei giochi infantili che prevedono una lotta, un combattimento, formula per chiedere la cessazione momentanea del gioco”.
Sappiamo che non è solo così. Proprio nell’infanzia capitava di bisticciare con un amico e dopo molta tribolazione arrivava quel fatidico e intenso: “facciamo pace?”. In questa frasetta si concentra molto della percezione più semplice di quello che potremmo chiamare un sentimento.
Così come quello spontaneo moto che ti porta di fronte ad un panorama montano a dire, quando ci si sente in uno stato di calma contemplativa, “Che pace!”.
Esiste poi nel cristianesimo quel suo uso plurimo e antico, che va dal “riposi in pace” al “scambiatevi un segno di pace”, dal “in alto i nostri cuori” nella prima parte della preghiera eucaristica sino al finale beneaugurante della
Messa “andate in pace”.
In questi giorni si parla molto del pacifismo e del suo uso assai diverso secondo le circostanze rispetto alla tragedia ucraina e all’aggressione russa. Si tratta dell’ennesima occasione per distinguere buona e cattiva fede fra chi manifesta con sincera partecipazione e speranza e chi - con incredibile logica filorussa spesso condita dal solito antiamericanismo - adopera la pace in modo strumentale e paradossalmente violento verso chi è stato aggredito e si difende.
Scriveva sul pacifismo George Orwell nel 1945: “Esiste una minoranza di intellettuali pacifisti le cui vere, ma inconfessate motivazioni, sono l'odio per la democrazia occidentale e l'ammirazione per il totalitarismo”.
Parole dure che denunciavano una triste realtà, come si vede da certe comparsate di personaggio invitati in televisione che paiono pupazzi con Putin come ventriloquo, per non dire dei cortei che evitano di manifestare davanti all’Ambasciata russa per non disturbare il manovratore.

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