La personalità di ciascuno

Senza buttarlo sullo spiritualista o peggio sull’esoterismo, trovo non male riflettere sui nostri comportamenti, come esercizio di introspezione che può avere una sua utilità.
Quel che siamo come esseri umani è ovviamente frutto di tante circostanze. Certo da questa varietà di situazioni, che si incrociano fra loro e siano scelte o subite, usciamo noi come prodotto originale. Lo dimostrano le nostre impronte digitali o meglio ormai il nostro DNA, che ci inchioda ancor di più alla fisicità e dimostra la nostra unicità.
Ha scritto Erich Fromm: ”Il principale compito dell’uomo nella vita è quello di dare alla luce sé stesso, per diventare ciò che potenzialmente è. Il prodotto più importante dei suoi sforzi è la sua propria personalità”.
Così ormai io stesso - come tutti - sono quel che sono, anche se nel tempo ci sono stati tanti me stesso, a seconda dell’età e dei ruoli spesso diversi che ho ricoperto e pesano nel bene e nel male anche le situazioni più personali e familiari. Un succedersi di esperienze da cui emergono pregi e difetti e ciascuno risponde di quello che è e diventato per merito e anche per fortuna.
La cosa certa è che ci sono modi di essere diversi nel rapporto con gli altri. Per esempio: bisogna dire quel che si pensa o è meglio tacere per non disturbare nessuno, anzi il silenzio - modo ad esempio per non schierarsi - potrebbe essere occasione per piacere a tutti?
Il tema per chi faccia politica è molto interessante, perché il dato oggettivo è che, essendoci per fortuna in democrazia il passaggio del voto, si sale o si scende a seconda del consenso che si ottiene. È c’è chi ritiene il fatto di essere “piacione” la sua stella polare e dunque di fronte a scelte fra bianco e nero opta per un sempre indossabile grigio.
Mi è capitato di sentirmi dire, ad esempio per quanto scrivo sul mio Blog, se davvero fosse il caso di farlo in certe circostanze e su temi sui quali forse sarebbe stato più conveniente far finta di niente per non scontentare qualcuno.
Ne ho conosciuti di quelli con più facce, adoperandole a seconda delle circostanze per fare buona impressione a potenziali elettori. Questa idea di alcuni di cambiare a seconda dell’interlocutore o delle circostanze non ha mai fatto per me.
Rari coloro che hanno cercato, per ragioni di opportunità politica, persino di zittirmi e ho sempre risposto che ognuno è quello che è e per me parlare e scrivere in modo franco è una scelta di libertà. Può capitare di eccedere e mi è capitato, quando ho sbagliato, di correggermi e anche di chiedere scusa.
Italo Calvino in Palomar, romanzo del 1983, ha scritto: ”In un'epoca e in un paese in cui tutti si fanno in quattro per proclamare opinioni o giudizi, il signor Palomar ha preso l'abitudine di mordersi la lingua tre volte prima di fare qualsiasi affermazione. Se al terzo morso di lingua è ancora convinto della cosa che stava per dire, la dice; se no sta zitto. Di fatto, passa settimane e mesi interi in silenzio”.
Già, il silenzio. Non invidio né chi si morde la lingua e neppure chi decide di tacere. Dire quel che si pensa - meglio in modo urbano ed educato, specie quando cosi lo è e lo sono gli interlocutori - è essenziale in un mondo nel quale grava il rischio di chiudersi in una dimensione per difetto scarsamente sociale o per eccesso troppo Social.
Già, i Social, dove in troppi si nascondono dietro a nickname, somigliando ai banditi che si mettono il passamontagna durante le rapine per non farsi riconoscere.
Meglio metterci sempre, sia dal vivo così come sul Web, la propria faccia e le proprie idee.

Il busillis dell’Intelligenza Artificiale

Capita ogni tanto di credere davvero che gli alieni siano già fra di noi. Di recente a Roma ho partecipato ad un interessante convegno sull’Intelligenza Artificiale. L’ho fatto perché credo che siamo di fronte ad una tecnologia che risulterà una evoluzione o forse una rivoluzione nel settore del digitale con implicazioni forti sulla società umana. Per cui, prima di trovarmi nelle condizioni di non capire per perdita di conoscenze, meglio lanciarsi all’inseguimento, nei limiti naturalmente delle mie capacità di cogliere la forza propulsiva di certe novità emergenti, applicandone le utilità.
Ebbene, l’alieno, altissimo funzionario statale, alla domanda se si dovessero prevedere leggi sul tema IA ha risposto qualcosa come: “No, non è necessario, siamo in un Paese di legulei e se dovessimo normare la materia rischieremmo solo di fare pasticci”.
Credo che in sala si sia sentito il rumore della mia mascella che cadeva in terra.
Di questi tempi l’Unione europea, nel trilogo, così si chiama il confronto fra Commissione, Consiglio e Parlamento europeo, sta cercando un compromesso fra diverse posizioni per approvare entro fine anno e comunque prima delle elezioni europee un regolamento assai articolato sull’Intelligenza Artificiale. Un regolamento che si applicherà tout court a tutti gli Stati membri e sarebbe il primo caso nel mondo di una normativa regolatoria, che ritengo utile se non indispensabile, con buona pace di chi non lo sapeva, malgrado il rilevante ruolo pubblico..
Per fortuna ho sentito, come indiretta compensazione a consolazione, molte spiegazioni prevalentemente tecniche sul ruolo innovativo dell’Intelligenza Artificiale. Con la certezza che queste tecnologie - perché esiste nel settore una sana competizione - saranno in costante evoluzione e bisognerà in qualche modo rincorrerle per evitare dí cristallizzarsi di fronte a quanto destinato a mutare con impressionante velocità.
Niente di preoccupante, a condizione naturalmente di avere su molti punti una quadro di norme che evitino usi distorti che possano sfuggire al controllo. Questo vale per qualunque tecnologia sin dalla notte dei tempi e dunque le cautele dovrebbero - uso il condizionale - far parte delle buone pratiche.
Certo gli usi dell’Intelligenza Artificiale sono in parte già acclarati, altri sono prevedibili, altri ancora possono stupire e ci sono poi spazi sinora non esplorati che verranno utilizzate con il tempo grazie all’inventiva umana nelle applicazioni. L’impressione - almeno per il settore pubblico - è che per ora si proceda a tentoni con piccole esperienze e manchi una sorta di repertorio che consenta alla politica e alle amministrazioni di lanciarsi con maggior coraggio nell’utilizzo. Sembrerebbe mancare un ponte fra scienza e piena esplicitazione per I possibile utente del novero degli utilizzi, forse per alcuni aspetti prematuri. Bisognerà poi nel pubblico fare i conti con una pigrizia insita in chi, abituato a fare le cose in un certo modo, vede l’innovazione come minaccia per ignoranza o più semplicemente come turbamento del quieto vivere.
Con l’aggravante da non sottostimare di un settore pubblico che per innovare deve seguire regole che allungano i tempi di decisione o, come si dice oggi, di messa a terra. Così quando l’Intelligenza Artificiale fosse infine adoperata per uno qualunque dei possibili terreni ci saranno sempre i tempi trascorsi tra concezione e realizzazione e il rischio sarebbe quello di trovarsi già un passo indietro rispetto alle innovazioni nel frattempo maturate. Una sorta di inseguimento infinito.
Per questa bisogna non mollare l’osso e riuscire, nel rispetto delle regole, ad essere tempestivi.

Bruxelles insanguinata

La settimana scorsa ero al Comitato delle Regioni a Bruxelles. Cenavamo in una birreria al Sablon, quartiere dove ho abitato quando ero parlamentare europeo, e lo facevamo in un tavolo all’aperto grazie al caldo inusuale di quella che in francese chiamano “été indienne”.
Con i miei collaboratori a tavola discutevano di Israele e Hamas, preoccupati di cosa sarebbe potuto capitare in città, vista la presenza nella Capitale belga ed europea di cellule islamiste. Proprio vicino a dove ci trovavamo il 6 giugno del 2014 ci fu la strage islamista al Museo Ebraico di Buxelles alla vigilia delle elezioni europee: un attacco nel cuore dell'Europa, che fece quattro vittime e fu una ferita profonda alle istituzioni europee e all'Unione stessa, alla democrazia, alla convivenza, in un luogo simbolo di cultura e di memoria.
Non molto distante ci furono - con un totale di 32 morti - gli attentati di Bruxelles del 22 marzo 2016, quando avvennero una serie di tre attacchi terroristici coordinati. Due attacchi colpirono l'aeroporto di Bruxelles-National, nel comune di Zaventem, ed uno la stazione della metropolitana di Maelbeek/Maalbeek, nel comune di Bruxelles. All’aeroporto sfuggì alla morte, per combinazione fortunata, Francesca, la storica funzionaria della Valle d’Aosta, che lavora da tanti anni alla Rappresentanza della Regione a Bruxelles.
Fra noi commensali discutevamo delle preoccupazioni che Bruxelles potesse essere di nuovo colpita, concordando sul fatto che non parevano esserci misure particolari da parte delle forze dell’ordine, malgrado l’evidente rischio incombente ben rappresentato dalle vicende passate che ho appena descritto.
Purtroppo avevamo ragione e ieri un attentatore ha colpito di nuovo e l’assassino, un arabo belga, ha ucciso due persone a colpi di mitra e pubblicato un video in cui dice: ”Sono dello Stato Islamico, viviamo e moriamo per la nostra religione”.
Ora tutta l’Europa e direi tutto l’Occidente ha rafforzato le misure di sicurezza. Sappiamo bene come “lupi solitari” simili a questo Abdeslam Jilan ci sono potenzialmente ovunque, come il ceceno che in Francia ha ucciso poche ore fa un professore, ma ci sono anche gruppi organizzati. Basti pensare a Parigi con gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015 compiuti da almeno dieci persone fra uomini e donne. Furono loro i responsabili di tre esplosioni nei pressi dello stadio e di sei sparatorie in diversi luoghi pubblici della capitale francese, tra cui la più sanguinosa è avvenuta presso il teatro Bataclan, dove vennero uccise 90 persone. Fu il secondo più grave atto terroristico nei confini dell'Unione europea dopo gli attentati dell'11 marzo 2004 a Madrid. Allora ci furono una serie di attacchi di matrice islamica sferrati nella capitale spagnola a diversi treni locali, provocando 192 morti (di cui 177 nell'immediatezza degli attentati) e 2057 feriti.
Evocare queste vicende serve come ammonimento contro certa distrazione nostra rispetto ai gravi rischi dovuti alla presenza fra di noi, nel cuore delle nostre società di terroristi sanguinari pronti a colpire. E pone un problema serio di certe complicità di comunità accolte nel tempo, che in passato non sempre hanno vigilato e denunciato la presenza fra di loro di persone pericolose, perché finite nelle braccia dell’Islam radicale.
I temi dell’immigrazione ragionata e non casuale e dell’integrazione necessaria contro la presenza di società parallele restano chiavi di volta dell’accoglienza e bisogna dirlo con chiarezza in occasione di vicenda gravi che minano la necessaria civile convivenza. Altrimenti saranno guai crescenti e il muro delle incomprensioni genera mostri. Abbiamo diritto tutti a vivere sereni.

La guerra e il soldato

Non esiste uomo folle al punto di preferire la guerra alla pace. In pace i figli seppelliscono i padri, in guerra sono invece i padri a seppellire i figli.
(Erodoto)

Il grande storico greco antico forse, se avesse visto il seguito della Storia, avrebbe scoperto con orrore - ma penso ne fosse già consapevole - che c’è chi nel tempo la guerra la vuole e la persegue. Non sono solo dittatori folli, passati e presenti, ma anche chi, sulla spinta di ideologie perverse imbevuto d’odio, si intruppa - come Hamas in queste settimane - con assoluta dedizione per ammazzare senza pietà pure i bambini.
Per questo nell’educazione familiare, nell’insegnamento, nella vita civile bisogna spiegare ai giovani la Storia con i suoi orrori e non bisogna farlo con un pacifismo stucchevole, che dipinge il mondo come se fosse lo scenario di Barbie. Vien da ricordare come esempio un altro Barbie, che non è la bambolina platinata, ma quel Klaus Barbie, comandante della Gestapo a Lione e non caso, per i suoi efferati delitti, il Boia di Lione.
Ogni occasione è buona e purtroppo oggi il caso di Israele e la tragedia Ucraina sono utili per noi genitori per discutere con i nostri figli.
Io per mia fortuna ho ascoltato i racconti da mio nonno della guerra di Libia e della Prima guerra mondiale e ho poi conosciuto altri reduci da quelle trincee. Lo stesso è stato per la Seconda guerra mondiale con familiari che erano stati soldati, partigiani, internati. Anche per questo ho sempre letto avidamente libri sulle guerre vecchie e nuove. Ne ho visto uno scenario in Bosnia Erzegovina nell’ultimo periodo della guerra dei Balcani. Ne ho ricavato la convinzione profonda di quanto male facciano le guerre, ma anche la certezza che in certi casi - duole dirlo - si sono combattute guerre dal lato giusto, come quella contro il nazi-fascismo o come quella degli ucraini contro i russi, per non dire del diritto all’esistenza del proprio Paese degli israeliani che certo non impugnano le armi per chissà quale divertimento.
Cambio scenario. Proprio poche settimane fa è morto ad Aosta Michele Maurino, Maresciallo maggiore dei carabinieri, diventato dopo il congedo dall’Arma presidente dell'Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi di Guerra. Maurino si era distinto nel lavoro instancabile per riportare a casa i resti di militari valdostani uccisi in guerra e sepolti in terre lontane.
Così è avvenuto, con cerimonia ieri al cimitero di Saint-Vincent, per il ritorno nel suo paese di origine - frutto del citato lavoro di ricerca - dell’alpino Giovanni Alessandro Déanoz, ucciso sul fronte albanese a Bozuchi Spadarit il 9 marzo 1941, a soli 21 anni. L’urna con le ceneri del soldato è stata tumulata nel cimitero di Saint-Vincent nella tomba di famiglia insieme alla mamma Maria Adele Thuegaz, straziata quando era viva dal fatto di non avere un luogo dove pregare per il figlio morto al fronte.
Ebbene, questa vicenda dolorosa, simile a molte altre, conferma quanto sia più terribile la situazione di chi in una guerra ha avuto un parente risultato disperso.
Straziante le vicende umane dei morti in guerra: si pensi al monumento ai caduti di Saint-Vincent, nella piazzetta centrale del paese, simile a monumenti che ci sono dappertutto in Valle. Quel lungo elenco di soldati morti rischia nel tempo un’oblio e persino un’incomprensione. Mi è capitato di spiegare a bambini giocosi che si arrampicano talvolta su quel monumento del significato che ha.
Questo andrebbe fatto in modo analogo e approfondito ogni volta che una salma di un soldato torna a casa per capire il contesto. Déanoz è morto, come molti suoi commilitoni, in una guerra d’aggressione illogica e inutile, voluta da quel Benito Mussolini, che oggi qualcuno ancora esalta, distorcendo gravemente la realtà per ignoranza o stupidità.
Per cui va bene rendere gli onori ai caduti, come faremo ritualmente all’inizio di Novembre, ma essendo andato perduto il filo dei ricordi dei protagonisti a suo tempo scevro da belletti reducistici resta, come dicevo, la Storia che va insegnata e spiegata bene. La ricostruzione minuziosa di certe vicende belliche sono un vaccino indispensabile per qualunque cittadino in una democrazia.
Ecco perché anche le preghiere “militari” pronunciate in certe occasioni, senza turbare le tradizioni assodate, dovrebbero addolcire certi passaggi guerreschi e nazionalisti, almeno considerando il quadro nuovo dell’Unione europea.

San Grato contro le cimici

Le “punaises de lit” (cimici del letto) sono diventate in Francia un problema politico per la sua spropositata diffusione e ne hanno discusso all’Assemblée Nationale.
Presenti in Natura sin dai tempi dei dinosauri che ne erano pieni, si sono poi interessati a noi mammiferi e oggi si contano 34 specie diverse che ci pungono, succhiano il sangue e lasciano una macchia rossa che prude sulla pelle.
A me è capitato in un club vacanze di esserne vittima ed è sgradevolissimo. Scriveva giorni fa un giornale francese “11 % des foyers auraient été infestés par des punaises de lits entre 2017 et 2022. Parmi eux, 32 % l’ont été en 2019, un pic, alors que ce chiffre a chuté à 8 % en 2022. Si les données des particuliers sont bien connues, celles concernant les espaces accueillant du public le sont moins et la réalité est difficile à estimer”.
Si parla di cifre impressionanti negli hotel, nei trasporti pubblici, nei cinema e persino negli ospedali. Non è facile eradicare questo parassita e l’edizione francese di National Geographic scrive: “Les déplacements dans le monde ont augmenté ces dernières décennies, ce qui permet aux punaises de lit de se propager à travers le globe et de trouver de nouveaux hôtes tous les jours. Par la suite, les populations de punaises de lit ont largement garni leurs rangs durant ce temps-là, et beaucoup d’entre elles résistent désormais sans mal à une multitude de pesticides du marché”.
Ora sul sito in francese dei Santi Aleteia” spunta come rimedio il nostro San Grato, Patrono della Diocesi valdostana, festeggiato con tanto di reliquie il 7 settembre.
Così si legge nel riassunto iniziale: “Depuis quelques semaines, les médias spéculent sur une potentielle recrudescence de punaises de lit, notamment dans les lieux publics. Un phénomène difficilement quantifiable mais à l’origine d’une véritable psychose que les autorités tentent d’enrayer. (…) Certains sont saisis d’angoisse à l’idée de ramener l’importune bestiole chez eux, quand d’autres vivent un véritable enfer pour s’en débarrasser. Bref, nul ne sait plus à quel saint se vouer. Et si un évêque du Ve siècle se révélait être un intercesseur efficace pour s’en protéger? Saint Grat, évêque d’Aoste, nous semble tout indiqué. Non pas parce que son nom évoque les démangeaisons causées par les piqûres de l’indésirable insecte (quoique la phonétique est assez troublante : saint Grat/san Grato en italien/gratter), mais parce que l’évêque d’Aoste était traditionnellement invoqué pour éloigner les nuisibles des champs. Un domaine dans lequel saint Grat devait exceller puisque la dévotion à son endroit, dont des traces subsistent encore aujourd’hui, était très importante dans la vallée de l’Aoste, à cheval entre la France et l’Italie. Autrefois, sans doute depuis le Moyen Âge, des processions, des messes et des invocations étaient faites régulièrement dans les pays de Savoie, afin de demander au saint valdôtain de protéger les cultures contre les insectes et les animaux nuisibles”.
La descrizione dell’attaccamento dei valdostani è ben riassunta: “Aujourd’hui encore, la dévotion envers saint Grat est vivante. Une procession est organisée chaque année le jour de sa fête, le 7 septembre, dans la ville d’Aoste, dont il est le saint patron. Ses reliques, conservées dans une châsse dans la cathédrale d’Aoste, sont alors portées en cortège dans les rues de la vieille ville. À Charvensod, toujours en Italie, l’ermitage de Saint-Grat est devenu un lieu de pèlerinage. Selon la tradition, saint Grat d’Aoste s’y isolait avec son disciple Joconde pour méditer”.
Così prosegue l’articolo: ”Côté français, saint Grat a été le patron tutélaire de plus de 70 chapelles en Savoie, selon un décompte effectué par Sophie Sesmat, spécialiste en art populaire, pour la commission d’art sacré du diocèse d’Annecy. Une église lui est dédiée à Conflans, sur la commune d’Albertville. Mais c’est dans le petit village de Vulmix, à trois kilomètres de Bourg-Saint-Maurice, que transparaît le mieux l’histoire de sa dévotion. La chapelle Saint-Grat conserve en effet de magnifiques fresques colorées retraçant la vie du saint. Une vingtaine de panneaux peints par un artiste local influencé par les écoles italiennes, semblant remonter à la seconde moitié du XVe siècle. Traditionnellement, saint Grat est représenté portant la tête de saint Jean Baptiste car il serait à l’origine de la translation du chef de saint Jean Baptiste d’Orient en Occident. Une gerbe de blé, symbolisant les cultures qu’il protège, complète parfois son iconographie.
Un saint dont la réputation demeure encore très locale mais qui sait ? Les punaises de lit pourraient bien changer la donne. En effet, dans un acte de foi, pourquoi ne pas lui confier la protection de sa maison, lui qui a su durant des siècles éloigner les nuisibles des champs?”

La vita degli oggetti

Nella casa dei miei genitori, oggi resa triste e vuota dalla loro scomparsa, emergono oggetti dal passato, che specie mia madre era restia a buttare, in una logica di accumulazione tipica di generazioni del passato. Peggio di lei erano i miei nonni materni: li collegava l’idea che certe cose potessero prima o poi tornare utili. Altro che economia circolare! Noi, generazioni dello spreco, stentavamo a capire e invece oggi certe cose rinvenute riempiono di nostalgia e dimostrano un’intrinseca utilità, spesso perché l’ultimo filo che ci lega a papà e mamma che non ci sono più.
Prima o poi in quella casa bisognerà sbaraccare tutto ed è triste ma ineluttabile liberarsi di scenari dell’infanzia, che sono ancora un segno dei posti dove siamo cresciuti e ci sono particolari che solo noi conosciamo e sono come tracce sulla sabbia destinate a sparire con noi. Esattamente come il cumulo di vecchie fotografie con persone scomparse che ci sorridono perlopiù in bianco e nero.
Mi è venuto così da pensare - per un’analogia tutta mia - a certi oggetti che ci sembravano immortali nel loro uso e che, invece, sono spariti di scena, travolti dai cambiamenti.
Ogni tanto io stesso trovo cimeli del tempo che fu: penso per la musica alle cassettine o ai compact disk (CD) e poi al rivoluzionario walkman, ai lettori mp3 o ai floppy disc per conservare i dati. Tutti questi strumenti apparivano già il top della modernità e invece si sono fatti superare a gran velocità da molte novità. Resta cerco - lo ripeto come un mantra usurato - come mai nessuna generazione precedente ha dovuto subire cambiamenti che, per riffa o per raffa, sono legati a quelle che un tempo venivano chiamate nuove tecnologie e oggi sono tutte in modo unitario riportabili alla rivoluzione digitale nel suo complesso.
Riavvolgendo il nastro, ero invidiosissimo di chi sfoggiava il cercapersone, che mi sembrava l’ultima thule ed invece era un fuoco di artificio, spento subitaneamente dall’incalzare dei telefonini, dagli esordi sino agli ultimi mirabolanti modelli che ci ipnotizzano.
Ero così curioso di fronte al primo fax con la sua carta chimica che si arrotolava, mentre oggi sembra un cigolante ferrovecchio, così come quello strano trillo con cui agli inizi ci si collegava faticosamente con il nonno dell’attuale Web.
Oggi che si ascolta la musica con mille accrocchi, mi faccio tenerezza a pensare a quanto agognassi a certe autoradio estraibili che campeggiavano nelle macchine ormai d’epoca come se fosse un trofeo. Le nascondevamo sotto il sedile e il tossico astuto la individuava e spaccava il finestrino per rubarla.
Mi è capitato di rinvenire rullini fotografici o negativi, che sono come sopravvissuti su di un’isola deserta in un cassetto assieme a videocassette di diverso formato e a videoregistratori di cui non si sa bene come disfarsi. Purtroppo la mancata digitalizzazione porterà certi supporti all’oblio e condannerà le relative immagini all’ineluttabile scomparsa.
E cosa dire delle povere mappe stradali cartacee, un tempo preziose e ora destinate al macero e ci si domanda legittimamente come facevamo a raggiungere certe mete senza la voce del navigatore. Chissà che fine avrà fatto il ciclostile con cui da ragazzi si facevano i volantini delle proteste studentesche (ad Aosta la base erano PCI e CGIL, che cercavano di strumentalizzare la nostra ingenuità adolescenziale) e le macchine da scrivere con cui ho iniziato il mio lavoro di giornalista sembrano ottocentesche, cui seguirono i primi computer finiti poi in discarica ormai agonizzanti.
Pensiero in libertà su pezzi di vita e di cuore, che sembrano lontanissimi nel tempo.

L’antisemitismo che aleggia

Il commissario europeo Thierry Breton aveva inviato a Elon Musk una lettera per chiedergli di intervenire contro le informazioni fuorvianti su quanto sta avvenendo in Israele e che circolavano in queste ore in abbondanza proprio su X già Twitter, di cui il bizzarro e geniale imprenditore è diventato proprietario con parecchi cambiamenti al Social che - lo dico incidentalmente - rischiano di pregiudicarne i destini.
La piattaforma X di Elon Musk ha risposto, anche per il rischio di una chiusura manu militari, sostenendo di aver segnalato o rimosso "decine di migliaia" di post sull'attacco di Hamas. Ha detto la Ceo della società Linda Yaccarino. "Dopo l'attacco terroristico a Israele, abbiamo preso provvedimenti per rimuovere o segnalare decine di migliaia di contenuti", in risposta alle critiche dell'Unione europea.
In effetti avevo letto in queste ore su X un mare di fake news, di cattiverie e di polemiche speciose, rese facili specie da chi si nasconde dietro nomignoli che rendono anonimi, refugium peccatorum di molti pavidi.
Interessante che in Francia si discutano in Parlamento meccanismi identificativi che impediscano sui Social di agire mascherati.
È palese, come scrive Franz-Olivier Giesberg su Le Point, un ritorno sulla scena in modo prepotente il mai cessato antisemitismo, che si evidenzia in posizioni politiche ambigue di certe forze politiche, che hanno impedito nel Parlamento italiano di avere un documento unanime sulle vicende in corso ed è una vergogna!
Così inizia l’editoriale: ”Ne tournons plus autour du pot : l’antisémitisme est un et indivisible. Qu’il soit européen ou arabe, il a le même objectif, symbolisé par la rencontre entre Hitler et le grand mufti de Jérusalem Amin al-Husseini, en 1941 : la destruction des Juifs.
Furieusement antisémite est le Hamas, bras armé de l’Iran, né dans le creuset des Frères musulmans, qui a lancé en plein shabbat une nouvelle offensive contre Israël. Dans sa charte originelle, parue en 1988 et amendée depuis, sans en changer l’esprit, il dénonce, comme les nazis hier, le complot juif mondial relayé par la franc-maçonnerie ou… le Rotary et le Lions Clubs. Pour justifier son combat contre les Juifs, il se réfère même à leur « plan » de conquête de la planète, figurant dans les Protocoles des sages de Sion, faux avéré sur lequel s’appuyait aussi Hitler dans son bréviaire Mein Kampf.
«La Palestine est une terre islamique […] pour toutes les générations de musulmans jusqu’à la Résurrection », assure la charte du Hamas, qui entend en finir avec « l’invasion sioniste » pour installer un État théocratique islamique. Y sera ensuite planté « l’étendard de Dieu sur chaque parcelle de la Palestine ». On est prévenu : c’est en un nouveau « chariastan » que ses ennemis veulent transformer Israël, qui, rappelons-le, est la seule démocratie de la région depuis que le merveilleux Liban a été mis en coupe réglée par le Hezbollah, créature de l’Iran”.
Mi fa ribrezzo pensare a chi anche sulle piazze italiane, arabi e occidentali che siano, festeggiano i successi di Hamas e i lutti di Israele. È ora di perseguire questi manifestanti per apologia del terrorismo, perché si tratta di complicità con assassini.
Riprendo il filo dell’articolo, poco più avanti, denunciando anche i partiti in Francia che non hanno di fatto condannato Hamas: ”L’Histoire est faite pour être falsifiée. Depuis des décennies, les antisémito-sionistes prétendent que, pour créer leur État, les Juifs ont envahi puis occupé les terres ancestrales des Arabes. Il y a, hélas, de plus en plus d’incultes pour croire à ces fadaises, à l’instar des députés de la Nupes qui, il y a peu, signaient une motion ignoble contre le « régime d’apartheid » d’Israël alors que les Arabes (plus de 20 % de la population) y ont les mêmes droits que les Juifs. Qu’importe si ces derniers sont là depuis plus de trois millénaires. À force d’être répété, le mensonge devient vérité révélée et les voilà devenus oppresseurs, illégitimes sur leurs terres de toujours.
La Palestine aux Palestiniens ! s’époumonent les antisionistes de Panurge, à LFI (ndr: La France Insoumise di Melenchon, leader della Sinistra) ou ailleurs. Sauf que les vrais Palestiniens, historiquement, ce sont… les Juifs ! Leur pays s’est appelé un jour la Palestine parce que, au IIe siècle de notre ère, après l’une de leurs révoltes, l’empereur romain Hadrien avait décidé, pour mieux les effacer, qu’ils seraient appelés du nom de leurs ennemis de toujours, les Philistins, mot qui se transforma en Palestiniens. L’État juif portait le nom de Palestine quand, après un plan de partage avec les Arabes qui le refusèrent, il fut proclamé en 1948, sous l’égide de l’ONU. Ses fondateurs le rebaptisèrent Israël. La même année, lorsque ses voisins tentèrent en vain de le tuer dans l’oeuf, le quotidien Paris-Presse titra, comme tant d’autres : « Les forces arabes coalisées envahissent la Palestine ».
Autochtone, le peuple juif est apparu étranger sur ses propres terres aux yeux des ignares et des jobards quand, au début des années 1960, à la faveur d’un incroyable tour de passe-passe, les Arabes adoptèrent à leur tour l’appellation de Palestiniens. « Ce peuple n’a rien à faire là », proclame, depuis, l’internationale des antisémites et des antisionistes”.
Quante volte sento ripetere, invece, dell’estraneità per gli ebrei della terra che fu loro!
Il finale è del tutto condivisibile: ”Les grandes consciences intiment à Israël de faire la paix. Mais comment négocier avec une organisation, le Hamas, qui ne vous reconnaît pas, ne veut pas parler avec vous et prône votre propre destruction ? En attendant, les manifestations de joie et d’hystérie éradicatrice, un peu partout en Occident, en disent long sur le nouvel antisémitisme qui se propage dangereusement aujourd’hui via l’islamisme, l’extrême gauche et une certaine bien-pensance médiatique. Comme le dit si bien en une fameuse formule le traducteur américain de la pièce de Bertolt Brecht La Résistible Ascension d’Arturo Ui, satire de la montée du nazisme : «Le ventre est encore fécond d’où a surgi la bête immonde»…”.
Orrori presenti - la bestia immonda - con solidi precedenti nel passato e c’è chi, certo non Israele, vuole farci tornare ad un passato senza democrazia e senza diritti civili.

Lo scorrere delle vite

Penso ai miei figli, ognuno dei tre con il proprio carattere frutto del DNA e della loro formazione culturale, e fa impressione - come genitore - pensare in quale mondo vivranno. Sarò al loro fianco, con i miei pregi e miei difetti, sin che la durata della mia vita lo permetterà. Questo tempo - lo dico con un sorriso - prescinde dalla mia volontà.
Le radici ci parlano dal passato: tempo fa avevo scritto a mia figlia Eugénie, personalità acuta e a tratti caustica, una specie di prospetto di una parte dell’albero genealogico, quello che si muoveva fra Moneglia e Genova sino alla scelta di avere un ramo valdostano, di cui sono i miei ragazzi sono il frutto, con l’apporto essenziale dei rami femminili.
Così rappresentavo rozzamente: “Dunque io sono Eugénie (1997), mio padre Luciano (1958), mio nonno Alessandro (1923), mio bisnonno René (1867), mio trisnonno Paul (penso 1815), mio arcibisnonno Cesare (1771), mio quintavolo Antonio Maria (stesso secolo, probabilmente)”.
Lo scorrere delle vite si affianca al flusso della grande Storia e questo mi ha sempre fatto molta impressione. Per questo mi ha sempre incuriosito un avo precedente, Nicolò Caveri, cartografo, che all'inizio del 1500 disegnò quanto così descritto dalla "Treccani": ”Si tratta di un planisfero a colori su pergamena di ampie dimensioni (cm 115×225), del tipo nord-sud, disegnato secondo il metodo delle "rose dei venti", caratteristico delle carte tardomedievali e rinascimentali, con l'indicazione dei gradi di latitudine (da 71° lat. Nord a 57° lat. Sud). A sinistra in basso si legge la dicitura "opus Nicolay de Caverio ianuensis" ”.
In un suo intervento del 1947 all'"Accademia dei Lincei", il professor Paolo Revelli racconta della probabile amicizia tra il cartografo ed il suo concittadino Cristoforo Colombo (le famiglie possedevano dei terreni confinanti in una zona di campagna), visto che la carta tiene conto proprio delle scoperte colombiane
Quanto mi piacerebbe poterli incontrare questi Caveri del passato. Soprattutto per sapere di loro, del contesto in cui vivevano, del rapporto fra loro e la Grande Storia, fatta da mille cose che mischiano gli eventi di un’epoca con le storie personali.
Così come mi piacerebbe un futuro rose e fiori. Ricordo quel Capodanno che apri il nuovo Millennio: una frontiera temporale e un passaggio psicologico, che ci riempiva di speranze. Scherzavamo fra noi sulla favola del “Mille non più Mille”, che avrebbe angosciato la popolazione nel Medioevo allo scoccare della Mezzanotte del 999. Per poi scoprire grazie all’ottimo Alessandro Barbero con il suo rigoroso metodo storiografico quanto fosse infondata questa paura della fine del mondo: “Andiamo a vedere i cronisti dell'epoca e vediamo se ci raccontano che all'arrivo dell'anno Mille la gente era terrorizzata. Neanche un cronista ne parla”. 
Purtroppo quel che ci viene confermato dal secondo millennio - e crea inquietudine più di date millenaristiche per chi vivrà i decenni a venire - è la stupidità umana. Diceva Albert Einstein con il suo umorismo: ”Due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana, ma riguardo l’universo ho ancora dei dubbi”.
Pessimista? Mai! Mi riconosco, malgrado tutto, in una frase di Victor Hugo: ”L'avenir a plusieurs noms: pour les faibles, il se nomme l'inaccessible. Pour les peureux, il se nomme l'inconnu. Pour les courageux, il se nomme opportunité”.

L’Europa senza guerre

Singolare vedere il mondo da Bruxelles, città dove ho maturato la mia esperienza europeista grazie alla chance di essere finito a suo tempo al Parlamento europeo e alla lunga militanza ancora in corso nel Comitato delle Regioni.
È stato un insieme di casualità, più geografiche che politiche, a far scegliere la Capitale del Belgio quale centro delle principali Istituzioni europee. In fondo questa scelta di avere qui l’Unione europea, come si chiama oggi, ha fatto da collante ad un Paese che contiene due popoli, fiamminghi e valloni, che forse non sarebbero rimasti assieme senza questa occasione comunitaria. L’hanno per altro risolta con un Paese federalista che consente di convivere e Bruxelles è diventato un crocevia di funzionari e politici, che ha seguito il progressivo allargamento dell’Europa con la sola eccezione della Brexit, che i cittadini del Regno Unito si rimangerebbero, se potessero farlo.
Mala tempora currunt in questo pezzo di Storia che scorre in parallelo con la nostra vita quotidiana. La violenza terribile scorre nel sangue versato nella guerra in Ucraina e nell’aggressione cui è stata sottoposta Israele, ma tamburi di guerra li sentiamo ai confini fra Serbia e Kossovo. Migliaia di km, cioè non tanti, ci separano da questi luoghi e basta scorrere l’elenco di guerre nel resto del mondo per capire quanto noi esseri umani siamo ancora imbevuti di incapacità profonda di risolvere i problemi senza farci reciprocamente del male. Con buona pace dei pacifisti, quelli con candore e quelli che non lo hanno. Purtroppo chi guarda al mondo con le lenti rosa lascia anche spazio a chi è senza scrupoli. Di quelli non in buona fede ne vediamo tanti, prima assolvendo la Russia che invade e ora con la comprensione verso Hamas. Vale quanto scriveva Orwell nel 1945: “I pacifisti, in gran parte, sono semplicemente dei filantropi che si oppongono alla vita così com'è, senza andare oltre. Ma esiste una minoranza di intellettuali pacifisti le cui vere, ma inconfessate motivazioni, sono l'odio per la democrazia occidentale e l'ammirazione per il totalitarismo. Tutto sommato, non è difficile ritenere che il pacifismo, così come appare in una parte dell'intellighenzia, sia segretamente ispirato da un'ammirazione per il potere e per la crudeltà”.
Ma torno a Bruxelles, da dove scrivo, dopo aver trascorso giornate nei corridoi dei palazzi sede delle Istituzioni e ringrazio di aver avuto l’opportunità di conoscerne i meandri e soprattutto di capire quanto siamo fortunati ad avere Istituzioni comuni che fanno convivere dal secondo dopoguerra popoli che nei periodi precedenti se ne sono fatti di tutti i colori. Le guerre sono state una ciclica e cinica ricorrenza sul suolo del Vecchio Continente e se la democrazia europea che abbiamo forgiato sarà pure imperfetta e da migliorare, resta il fatto che ha garantito per ora la scelta del dialogo e del confronto rispetto alla violenza delle armi.
Basta andare a visitare i cimiteri militari di Strasburgo, altra città europeista dove si riunisce il Parlamento europeo in plenaria, per capire di che cosa parlo e ogni capitale europea porta i segni delle antiche ferite, rimarginate nel tempo, da quando si è scelto di convivere pacificamente. Invito sempre i giovani, anche nel loro paese natale, a guardare i monumenti ai caduti.
Amo stare a Bruxelles ed osservare le riunioni che si svolgono in questa Babele di traduzioni simultanee. I bar del Parlamento europeo sono luoghi da vedere con questo intrecciarsi di chiacchiere e sorrisi, che fanno bene al cuore, pensando che alle battaglie sanguinose si sono sostituite le discussioni infinite in aula e nelle commissioni con una dialettica spesso colorita ma non pericolosa.
Altrove si risolvono o meglio si complicano i dissidi con la violenza delle armi.

Bon ton da Whatsapp

La mia tesi di laurea era (anzi, fu, visto il tempo trascorso…) centrata sulle lettere scambiate nel Settecento fra gli illuministi milanesi e quelli ginevrini.
Da bambino, in gita scolastica e quando andavo al mare, spedivo cartoline illustrate per far sapere dov’ero.
Nei primi anni in cui ero deputato ricevevo le convocazioni attraverso telegrammi.
Sono tre esempi della messaggistica del passato.
Quella attuale che ci invade è nata nel seguente modo. Ricordo i primi SMS, che si accodarono alla nascita del telefono cellulare, come si diceva agli esordi della tecnologia che ha cambiato il mondo. L’inizio della loro storia risale al 3 dicembre 1992, giorno dell’invio del primo messaggio SMS. Durante la festa natalizia aziendale, il direttore di Vodafone Richard Jarvis riceve un messaggio sul suo cercapersone Orbitel TBU 901 dal collega Neil Papworth, ingegnere informatico. Il primo messaggio, inviato da computer, recitava “MERRY CHRISTMAS“. Il primo SMS scambiato tra due telefoni cellulari, invece, è stato inviato l’anno successivo, nel 1993, con l’esperimento di uno stagista della Nokia, il finlandese Riku Pihkonen.
Ma, saltando altre tappe e altri strumenti successivi di messaggistica, la rivoluzione si è consolidata con Whatsapp. L'applicazione di messaggistica istantanea è stata creata nel 2009 da due ex dipendenti di Yahoo, Jan Koum e Brian Acton. I due volevano creare un'app che desse la possibilità agli utenti di scambiarsi i messaggi gratuitamente, utilizzando il proprio numero di telefono e la rete Internet.
Oggi ne siamo schiavi e vittime di miriadi di gruppi i più vari che si manifestano troppo spesso a suonerie innescate.
L’aspetto significativo che più mi colpisce è il progressivo inseguirsi dello scritto e del parlato, che salgono e scendono a seconda dei momenti. Un esempio lo vedo nel mio figlio più piccolo dodicenne: non si usa telefonare con il telefonino e, a differenza mia che scrivo molto con Whatsapp ma uso molto anche parlare al telefono, allo stato attuale lui non scrive ma invia i vocali.
Già, i vocali di Whatsapp, che personalmente odio e ne ricevo troppo e mi lamento con chi me ne manda, specie in versione con minutaggio del tutto spropositato.
Leggo su La Stampa un illuminante articolo di Nadia Ferrigo.
Così inizia: ”Li detestiamo, eppure li usiamo. Qualcuno prova a difendersi, ma nessuno ci riesce davvero. Siamo in balia della loquacità altrui, costretti a sorbirci minuti e minuti di messaggi vocali che nove volte e mezza su dieci potrebbero essere riassunti in una frase o due. Il sottinteso del vocale è chiaro: io non ho tempo per mettermi a scrivere qualche cosa di sensato ed efficace, quindi tu ora devi trovare il tempo per ascoltare la mia chiacchiera”.
Ho maturato un’idea aggiuntiva: nel tempo dell’ analfabetismo di ritorno, che spesso è pure di andata, e malgrado il correttore autonomistico in molti non sanno scrivere e dunque ricorrono al microfono
Ancora Ferrigo: ”.Chiacchiera tu che chiacchiero io, i vocali sono ormai una dannazione e pure una cafonata, come spiega The Emily Post Institute, organizzazione con sede a Burlington, nel Vermont, che dal 1922 si occupa di confezionare consulenze e consigli di buone maniere”.
Interessante il bon ton anche in questo settore, che in verità - come le e-mail, altra forma analoga alle piante invasive - si sta cominciando a normare con quel che viene chiamato diritto alla disconnessione e cioè non mi devi rompere le scatole, nel settore lavorativo, in certi orari e nei giorni festivi. Ma per gli amici, conoscenti e maniaci dei gruppi non esiste ancora una sanzione anticafonaggine.
Ancora la giornalista per capire la dimensione dell’invasione dei vocali, spesso fantozziani: ”Secondo i dati raccolti da Meta ogni giorno circolano circa 200 milioni di messaggi vocali. La posizione degli esperti di galateo è netta: vietato mandarli. «Bisogna aver chiaro che si tratta di un monologo in cui non è previsto l’intervento di un interlocutore» sentenzia The Emily Post. Non il massimo della sensibilità e del rispetto per gli altri insomma. Pochissime le eccezioni tollerabili alla ferrea regola dell’astensione. Il vocale può avere un senso «solo se il tono di voce ha un significato, come per esempio un augurio di compleanno, o se la questione è assolutamente seria». Insomma va bene per le canzoncine ai bambini e se in fin di vita, in attesa di un’ambulanza, non avete la forza di digitare un messaggio e al vocale affidate le vostre ultime volontà.
C’è una regola aurea da tenere a mente: se chi vi risponde lo fa con un testo scritto, allora è evidente che vuole spezzare questa catena infernale. Aggiungiamo, un’eccezione e un veto. Veto: se dura più di tre, quattro minuti, allora qualsiasi sia il contenuto è legittimo ignorarlo. Se è una chiacchiera, un racconto, con qualcuno con cui si ha grande confidenza, si può ancora fare, ma deve far sorridere”.
Nel mio caso sorriso amaro e pure, nel peggiore dei casi, nessuna replica e il silenzio su Whatsapp imbarazza e parla da solo.
Così si conclude l’utile articolo: ”Sempre The Emily Post ha stilato le regole da rispettare nei gruppi WhatsApp, che sia la chat del lavoro o quella del fantacalcio. Fuori classifica, il vocale mandato nel gruppo: una roba da sabbia negli occhi, inaccettabile. Prima regola, mandare messaggi brevi. Secondo, se sei in dubbio tra inviare oppure no, allora non inviare. Terzo. Le emojis sono tante, carine, simpatiche «ma siete adulti, usate il linguaggio degli adulti. Cosa vuol dire un gattino con i cuori o una ballerina spagnola?». Siamo meglio di così, facciamo un piccolo sforzo.
Quarta regola. «Invitare persone a feste, matrimoni, anniversari, compleanni e altre occasioni con un jpg su un gruppo WhatsApp non è né educato né rispettoso. È solo pigro». Severo, ma giusto.
Regola numero cinque, cattiva ma definitiva. «La maggior parte delle persone si preoccupa dei tuoi pasti, delle tue battute, dei tuoi messaggi di buongiorno, dei meme sui bambini, dei video di persone che cadono o scivolano, delle tue opinioni politiche, dei tuoi figli e delle tue ultime vacanze tanto quanto tu ti preoccupi delle loro. Pensaci prima di condividerle in un gruppo WhatsApp»”.
Extrema ratio: bannare (dall’inglese ban, interdizione!) il molestatore: come una ghigliottina.

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