Quelli che tenevano per gli ayatollah

Ho già detto quanto mi spezzi il cuore seguire ogni giorno le vicende iraniane e il tentativo attraverso vaste proteste popolari di liberarsi dalla odiosa dittatura teocratica.
L’Occidente per molto meno si è mobilitato, mentre questa volta esistono molte amnesie e questo è frutto di una certa incomprensione degli eventi. Le condanne a morte e le esecuzioni sono solo la punta di un iceberg che mostra la ferocia di un regime che ha trasformato un intero Paese in una prigione nel nome dell’ integralismo religioso.
Il fatto che a ribellarsi siano state anzitutto le donne suona come un contrappasso per gli esponenti della Repubblica islamica, fissati in maniera grottesca con il corpo femminile, imprigionandolo con regole incompatibili con elementari diritti di libertà.
Un amico l’altro giorno, avendo letto che avevo denunciato la cecità occidentale che assecondò l’arrivo al potere degli Āyatollāh, quel titolo di grado elevato che viene concesso agli esponenti più importanti del clero sciita, come alternativa alla “occidentalizzazione” dell’Iran, mi ha mandato un suo contributo al dibattito con un ritaglio di giornale.
Scriveva Edoardo Castagna nel 2009 su Avvenire e l’articolo poteva essere apparso ieri: “Le sbandate storiche della sinistra italiana, negli anni Settanta, sono note: dall’entusiasmo per la Rivoluzione culturale e il Libretto rosso di Mao, a quello per le "mirabili" imprese di Ho Chi Minh e Pol Pot. Ma non era necessario che vi fosse un comune – realmente e ipoteticamente – retroterra ideologico marxista per accendere le speranze dei gauchiste nostrani: afflitti da un odio cieco verso tutto ciò che era vicino – la nostra società, il nostro sistema economico, la nostra religione, la nostra cultura –, s’infiammavano per qualunque cosa fosse o apparisse altro. Così, quando trent’anni fa l’ayatollah Khomeini fece il suo trionfale ritorno nell’Iran che aveva appena scacciato lo scià per instaurare la Repubblica islamica, dalle colonne della stampa di estrema sinistra si levarono gridolini estasiati”.
Poi si spiega ancor meglio l’abbaglio: “Capofila dei pasdaran nostrani era Lotta continua: il quotidiano a Teheran aveva inviato un Carlo Panella che non perdeva occasione per definire «stupendo» tutto quanto osservava – la cacciata dello scià, la guerriglia nelle strade, i processi a porte chiuse, le esecuzioni sommarie, l’instaurazione della più rigida shari’a – in reportage trionfalmente intitolati «Una giornata in cui inizia il cammino della vittoria», oppure «In quattro milioni riempiono il vuoto di potere», «Il popolo assapora la vittoria impossibile». Un entusiasmo che, alla lunga, stancò gli stessi lettori della testata: va bene che gli ayatollah erano dei buoni anti-americani, ancorché islamici, e non dei retrogradi filo-capitalisti come i cattolici di casa nostra, però sempre dediti alla religione "oppio dei popoli" erano. E infatti si mobilitarono, i lettori, contro Lotta continua in una lettera intitolata con elegante ironia «Se l’ayatollah alza la sottana, Lc diventa musulmana?». Dubbi liquidati come echi veteromarxisti dalla redazione. Appena un filo più misurato Il Manifesto, che pure fu ugualmente sedotto dal movimento di massa in azione a Teheran. Certo, il fatto che tale massa fosse ispirata da una religione mandava «in crisi epistemologica» i compagni, che di conseguenza blindavano il loro entusiasmo per il barbone di Khomeini con la constatazione che ai fatti d’Iran «è difficile applicare le nostre categorie occidentali». Il mensile culturale Re nudo, dal canto suo, teorizzava: «Il cosiddetto dibattito sulla spiritualità in passato aveva suscitato perplessità. Ma l’evolversi della situazione persiana ha fatto diventare il rapporto tra liberazione e spiritualità un argomento attuale». Sempre, beninteso, purché la spiritualità non sia quella cristiana”.
Comprensibile che su Avvenire ci possa essere una stoccata così e Castagna affonda la lama: “L’atteggiamento dell’estrema sinistra rappresentò soltanto la punta avanzata di una simpatia, di una benevolenza riservata agli ayatollah anche da gran parte della pubblicistica moderata – per quanto riuscisse a essere davvero 'moderata' la stampa italiana degli anni Settanta. Ecco allora che il Corriere della Sera riportava una serie di corrispondenze del filosofo Michel Foucault. In teoria ottima scelta, visto che si trattava dell’autore della Storia della follia; invece di notare quella dei fanatici islamici al seguito di Khomeini, però, Foucault sembrò volersi esercitare in proprio. E così la lotta politica in atto in Iran, subito prima la cacciata dello scià, veniva descritta il 22 ottobre del 1978 in questi termini: «La situazione sembra essere sospesa a una grande tenzone tra due personaggi dal blasone tradizionale: il re e il santo; il sovrano in armi e l’esule inerme; il despota con, di fronte, l’uomo che si erge con le mani nude, acclamato da un popolo». E in effetti Khomeini veniva quasi unanimemente descritto, dalla stampa dell’epoca, come un "santo", mezzo profeta e mezzo eremita; si leggevano corrispondenze come quella di Paolo Patruno su La Stampa del 25 gennaio 1979, che informava i lettori sulla monacale scansione della giornata dell’"esule inerme" a Neauphle-le-Château, appena fuori Parigi: «La giornata dell’ayatollah comincia alle 3, per la prima preghiera e la meditazione, che durano fino alle 7; poi un breve riposo fino alle 9, quando iniziano le visite e le consultazioni, interrotte poi dalla preghiera di metà giornata. Il pranzo è frugale, ridotto al piatto nazionale...». Sul Corriere Renato Ferraro non era da meno: «Gli erano state offerte ville lussuose, ma aveva rifiutato: 'Voglio una casa semplice, una vecchia bicocca'». E via di questo passo; d’altra parte, per tornare a Foucault, si parla del «vecchio santo in esilio a Parigi». Lo Stato che sarà creato da un santo, naturalmente, sarà uno Stato perfetto: il filosofo francese già pregusta la futura Repubblica islamica, dove «le libertà saranno rispettate; le minoranze saranno protette e libere di vivere a modo loro, a condizione di non danneggiare la maggioranza; tra uomo e la donna vi non vi sarà disuguaglianza»... Insomma, concludeva Foucault il 26 novembre, sarà «l’insurrezione di uomini dalle mani nude che vogliono sollevare il peso formidabile che grava su ciascuno di noi... È forse la prima grande insurrezione contro i sistemi planetari». Il profetismo khomeiniano finì per contagiare lo stesso Foucault: «Sento già degli europei ridere. Ma io so che hanno torto». Un entusiasmo contagioso”.
Roba da brividi dopo tanti anni, cui si aggiunge una conclusione evidente: “Anche firme insospettabili si sentivano in dovere, magari parlando di tutt’altro, di versare il proprio obolo al tifo filo-khomeinista: Leo Valiani, Corsera del 3 gennaio 1979, parlando di democrazia in Occidente e Guerra fredda, osserva per inciso che «nell’Iran i giorni dell’assolutismo imperiale sembrano contati». Ancora freddino, rispetto a Francesco Alberoni, che sulla stessa testata il 1 gennaio aveva scritto: «La liberazione cessa di essere un prodotto della dominazione culturale dell’Occidente e diventa una autoliberazione nel nome del Corano... La rivoluzione iraniana è la manifestazione più spettacolare della rinascita islamica. Una civilizzazione culturale infatti si espande quando è in condizione di assorbire i movimenti che sorgono per sfidarla ed è in una fase di rinascita quando si dimostra capace di assorbire i movimenti delle altre civilizzazioni». Eppure qualcuno capace di leggere fin dal primo momento i pericoli nascosti – nemmeno troppo – nell’islamismo al potere ci fu. Sul Nouvelle Obsevateur Maxime Rodinson annotava, sempre nel gennaio del ’79: «Khomeini non è Robespierre o Lenin, forse nemmeno Savonarola, Calvino o Cromwell. Ma può tendere al Torquemada». E già nell’estate Oriana Fallaci avrebbe affrontato in un celebre faccia a faccia l’ayatollah, quello durante il quale lo sfidò sfilandosi il chador cui era stata costretta. Al ritorno dall’Iran, scrisse: «A me sembra fanatismo del genere più pericoloso. E cioè quello fascista». Che aveva mandato in visibilio Lotta continua: convergenze casuali?”.
Gli opposti estremismi hanno purtroppo evidenti elementi di contiguità, al di là della propaganda degli uni e degli altri.

Giovani che si bruciano le speranze

Sempre difficile leggere la realtà e capire modificazioni a carattere sociologico da applicare al mondo quotidiano di prossimità dove viviamo, che è poi il primo interesse. Eppure bisogna averne coscienza non solo per capire i comportamenti, ma anche - nei limiti del possibile - per vedere quali reazioni avere.
Ho capito che non bisogna parlare di baby gang in Valle d’Aosta. Lo dicono gli esperti di ordine pubblico e non ho competenze tali da esprimermi in modo difforme.
Resta il fatto che - gli ultimi episodi riguardano certe corse dei pullman notturni vandalizzzati - esistono “bande” (sarà una definizione giusta?) o meglio forse “cattive compagnie”, che spadroneggiano anche nella piccola Valle d’Aosta in determinate circostanze. Sono forme di teppismo insopportabili, che potrebbero essere raccontate da Sindaci di molti Comuni della Valle. Il bene pubblico diventa oggetto di distruzione, come se scegliere gesti di questo genere fosse qualcosa di eroico per gruppuscoli di giovinastri (termine datato, che rende bene l’idea).
Sono violazioni a regole elementari di convivenza, che nulla hanno a che fare - lo ripeterò sempre - con certe ragazzate endemiche in epoca adolescenziale. Anzi, noto con preoccupazione che si superano certi limiti e si piomba in reati veri e propri, ma per i minorenni esistono vasti spazi di comprensione e specie i più giovani lo hanno capito in fretta.
Devo dire che si scarica molto spesso sulla Scuola una forte responsabilità su certi comportamenti. Contesto questo scaricabarile. Da noi si organizzano un mare di incontri in aula sulla legalità su temi i più vari, il cui impatto si scontra contro un fenomeno inquietante, benché - sia chiaro - minoritario.
Troppo spesso le famiglie allertate del raggiungimento di livelli di guardia nicchiano o minimizzano.
Ci pensavo l’altro giorno, premiando gli insegnanti delle scuole valdostane miei coetanei di recente andati in pensione. Apparteniamo a generazioni i cui genitori mai avrebbero messo in dubbio le autorità costituite, cominciando dai doveri scolastici. In caso di uscita dal seminato, mai sarebbe successo di avere nei nostri cari degli avvocati difensori. Anzi, a punizioni si aggiungevano punizioni in una logica di buonsenso ormai infranta.
Molte famiglie non solo dimostrano spesso una benevolenza infondata, ma ingaggiano polemiche e esibiscono giustificazioni, anche a fronte di comportamenti sbagliati. Questo beninteso apre una prateria ai ragazzi che sbagliano, come se fosse una sorta di lasciapassare.
Sembra essersi rotta una sorta di passaggio fra generazioni. Scriveva Italo Calvino: “Ciò che i genitori m’hanno detto d’essere in principio, questo io sono: e nient’altro. E nelle istruzioni dei genitori sono contenute le istruzioni dei genitori dei genitori alla loro volta tramandate di genitore in genitore in un’interminabile catena d’obbedienza”.
Attenzione, questo non vuol dire conservatorismo. Scriveva, infatti, Hannah Arendt: “L'educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l'arrivo di esseri nuovi, di giovani. Nell'educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balìa di se stessi, tanto da non strappargli di mano la loro occasione d'intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d'imprevedibile per noi; e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti”.
Questo può avvenire, facendo capire fin da subito che i comportamenti sbagliati e borderline al limitare della delinquenza minano certe speranze, le loro anzitutto.

La posta in gioco in Ucraina

Ho letto ieri il discorso pronunciato da Oleksandra Matviichuk, che presiede una ONG ucraina, al momento in cui ha ricevuto - assieme a due altre ONG, una russa e una bielorussa - il Premio Nobel per la Pace. Una scelta in meritata chiave antirussa per l’aggressione all’Ucraina.
Ne riporto nella versione in francese qualche passaggio, per la sua rilevanza. Il primo mi ricorda mio papà: “Les survivants de la seconde guerre mondiale ne sont plus de ce monde. Et les nouvelles générations ont tendance à considérer les droits et les libertés comme des acquis. Pourtant, même dans les démocraties développées, les forces qui remettent en question les principes de la Déclaration universelle des droits de l’homme gagnent du terrain. Ce n’est pas parce que les droits humains ont été garantis par le passé qu’ils le seront à l’avenir. Nous devons continuer, sans relâche, de protéger les valeurs de la civilisation moderne”.
E prosegue con come una vera e propria lezione da impartire ai nostri figli, spiegando che cos’è la Russia: ”La paix, le progrès et les droits humains sont inextricablement liés. Un Etat qui tue les journalistes, emprisonne les militants et disperse les manifestations pacifiques représente une menace pour les citoyens, mais aussi pour l’ensemble de la région, et pour la paix dans le monde entier. En conséquence, le monde doit répondre de manière adéquate à ces violations systématiques du droit. Il faut que les droits humains aient autant de poids dans les décisions politiques que les bénéfices économiques ou la sécurité, en particulier dans le domaine de la politique étrangère.
La Russie, qui anéantit sans répit sa propre société civile, est un parfait exemple de ces Etats qui enfreignent systématiquement le droit. Pourtant, les pays du monde démocratique ferment les yeux, depuis longtemps. Ils continuent de serrer la main aux dirigeants russes, de construire des gazoducs et de mener leurs affaires. Cela fait des décennies que les troupes russes perpètrent des crimes dans différents pays, en toute impunité. Le monde n’a pas réagi comme il aurait dû à l’agression et à l’annexion de la Crimée, un cas sans précédent en Europe depuis la fin de la seconde guerre mondiale. Aussi la Russie a-t-elle cru qu’elle pouvait faire tout ce qu’elle voulait”.
Poi l’evidente tragedia per il popolo ucraino: ”Aujourd’hui, la Russie s’en prend volontairement aux civils pour mettre un terme à notre résistance et occuper l’Ukraine. Les troupes russes détruisent intentionnellement immeubles d’habitation, églises, écoles, hôpitaux, bombardent les couloirs d’évacuation, enferment les gens dans des camps de filtration, multiplient les déportations forcées, enlèvent, torturent et tuent des personnes dans les territoires occupés.
Le peuple russe sera responsable de cette page abjecte de son histoire et de cette tentative de restaurer son ancien empire par la force”.
Questa è una vecchia questione: i popoli che supportano e sopportano i dittatori sono o no responsabili? La risposta da parte mia è chiara: sono complici. Lo dimostra chi in Russia reagisce o muore assassinato o condannato a finire in prigione e questo nel silenzio della maggioranza che segue ancora Putin, sondaggi alla mano. E sono complici anche i biechi filorussi di casa nostra e speriamo che si capisca prima o poi chi è stato al libro paga di Mosca.
Infine pubblico solo un ultimo pensiero finale della Matviichuk: ”Cette guerre n’est pas une guerre entre deux Etats, mais entre deux systèmes : l’autoritarisme et la démocratie. Nous nous battons pour pouvoir construire un Etat où les droits de chacun sont garantis, les autorités doivent rendre des comptes, les tribunaux sont indépendants et la police ne réprime pas violemment les manifestations pacifiques d’étudiants sur la place centrale de la capitale du pays.
Sur le chemin qui nous conduit au sein de la famille européenne, nous devrons surmonter le traumatisme de la guerre”.
Il dolore ucraino è davvero terribile e la loro tragedia è come un brivido anche per noi, pensando ad un Natale su cui incombe e non accadeva da decenni la paura nucleare.

Oggi la giornata internazionale della Montagna

Il tempo trascorre troppo in fretta: sono passati ormai vent’anni dalla celebrazione dell’Anno internazionale delle montagne.
Lo scrivo non a caso l’11 dicembre, che da allora è diventata la giornata mondiale dedicata dalle Nazioni Unite alle Montagne (quest’anno dedicato alle donne) e che ho festeggiato più o meno ogni anno nel ricordo straordinario di quella esperienza, visto che ebbi l’onore di essere Presidente del Comitato italiano.
Ero parlamentare europeo, reduce da anni a Montecitorio, dove avevo imbastito una gruppo parlamentare Amici della Montagna, che era una macchina da guerra che si batteva per ottenere risultati piccoli e grandi in favore delle popolazioni e dei territori della montagna. Per questo si sceglieva la Finanziaria o qualche legge in transito per presentare soluzioni a problemi concreti. Una lobby buona che attraversava l’intero arco costituzionale e collaborava con tutte le associazioni, compreso quel Club Alpino Italiano, che mi invitava ai congressi annuali e che ora - vedi come cambiano le cose - si offende perché scrivo che non riconosco più un sodalizio che scende nell’agone politico in Valle d’Aosta contro un progetto funiviario come le Cime Bianche, prima che se ne conoscano i contenuti e la fattibilità tecnica e economica. A difendere il CAI, senza che ne abbia bisogno, scende in campo - per capire che alleanze hanno scelto - il meglio della Sinistra estrema valdostana, quelli per il NO duro e puro per qualunque cosa. I vertici del CAI o sono ingenui o nella storica associazione, cui la Valle d’Aosta diede un contributo sin dalla sua nascita con grandi personalità significative e molti esponenti autonomisti illustri ne hanno fatto parte, sta avvenendo - come ho detto - un cambio di DNA. Non parlo di ambientalismo in senso generico, ma di una discesa in campo squisitamente politica inusuale per un’associazione che dovrebbe raccogliere tutti. La reazione piccata nei miei confronti, dimenticando che ho dedicato anni a favore della montagna e far finta di niente sulle alleanze locali ora benedette dalla sede centrale, è ridicola e ingiustificata e merita forse un esame di coscienza e un confronto con le forze politiche locali che governano la Regione e non con i soli protestatari di professione all’opposizione. Questione di sostanza e non di forma. Solo dal dialogo possono nascere, come dimostra il caso della vicina Svizzera proprio con lo sviluppo del turismo alpino, impianti di risalita compresi, scelte condivise a vantaggio dello sviluppo e di una montagna abitata. Il resto è cascame ideologico, cui si contrappone e credo vada fatto - anche con il CAI - un dialogo fattivo e non solo su Cime Bianche.
Fatemi tornare al 2002 e a ricordi straordinari alla scoperta della ricchezza delle diverse montagne italiane con Bruxelles, come centro nevralgico per confrontare quelle europee con la lotta, infine riuscita, di inserire i territori montani nei Trattati europei e non fu semplice.
E poi, per me, due visite simbolo. La prima in Kirghizistan, il Paese che domandò alle Nazioni Unite l’indizione dell’Anno internazionale sulle tracce del geografo valdostano Jules Brocherel, che ne scrisse, essendo fra i primi scopritori assieme a quel personaggio che fu il Principe Borghese. E poi Quito, la capitale dell’Ecuador, per parlare delle montagne dei Paesi più poveri, cui noi popoli alpino dobbiamo proporre una cooperazione allo sviluppo degna di questo nome. All’epoca ci abitava Eloise Barbieri, alla quale chiesi se esistessero problemi d’insicurezza. Lessi la sua risposta al rientro e mi scriveva di non girare la sera e la notte per rischi di aggressioni. Con Enrico Borghi, al tempo Presidente Uncem, scorrazzammo inconsci del pericolo e a dir la verità vedevamo che gruppetti che ci guardavano come fossimo stati dei marziani.
Periodi indimenticabili della mia vita con il destino della montagna nel cuore. Impegno che mantengo ancora oggi capitanando la questione per la Conferenza delle Regioni.

Credere a Babbo Natale

Esiste un’età in cui smettere di credere a Babbo Natale?
L’interrogativo è interessante e - a scanso di equivoci - chiarisco in premessa che la mia generazione aveva Gesù Bambino come riferimento principale, mentre Babbo Natale era già esistente, ma sullo sfondo
Comunque sia, resta chiaro che esiste un’età in cui il vecchio che vive nel Grande Nord sparisce in un battibaleno dalle attese dei nostri figli, che sia per mano di amichetti maliziosi o cugini stronzi oppure ancora per una serie di indizi che abbattono il mito senza suggeritori esterni.
Non ricordo quando mi accorsi personalmente della mistificazione e non ho un momento preciso in cui questo capitò con i miei figli ormai grandi, Laurent e Eugénie. Diciamo che “pluf!” sparisce d’improvviso con un pezzo per altro indelebile della propria infanzia e spiace che il personaggio declino nelle fantasie infantili.
Ora il dado è tratto anche per il piccolo Alexis, quasi dodicenne, che nutriva già dei dubbi tempo fa e oggi fa semblant de rien nell’ approssimarsi del Natale. Così, direi con intento piuttosto truffaldino a meno che non sia davvero un’anima candida, ha chiesto a noi genitori- mica stupido! - di portarlo a Rovaniemi in Lapponia presso quel quartier generale di Babbo Natale che i Finlandesi hanno attrezzato in grande pompa.
Così, nel breve tempo di un finesettimana, siamo volati lassù dove la notte incombe in modo inquietante a Dicembre. Ero stato in zona nel tempo del sole di Mezzanotte nella bella stagione ed ero rimasto sotto choc, situazione che si è ripetuta all’inverso con il buio che la fa da padrone.
Esperienza simpatica e avvolgente: dalla gita con la slitta trainata dalle renne a quella con i cani, dal bagno (bagno!) nelle acque ghiacciate con apposita muta alla gita notturna in motoslitta per vedere l’aurora boreale (ma il cielo era coperto!). Tutto compresso in poche ore. Ma il top è stato l’incontro con Lui, Babbo Natale, molto più credibile di certe mezzecalzette che si spacciano per lui senza un pizzico di stile. È stato molto gentile, ha preso la letterina e si è fatto pagare per la foto di rito. D’altra parte è sempre sulle spese con tutti i regali che deve portare a tutti i bambini del mondo…
Aggiungerei che questa visita mi ha convinto di una cosa importante: Babbo Natale esiste di certo e permettermi di non essere melenso, dicendo che il personaggio resta nei nostri cuori a qualunque età. Per cui, molto più prosaicamente, direi che visto che ci sono amiche che credono alle creme contro la cellulite, amici convinti che nel calcio non si vendano le partite, persone sicure che Conte sia un grande statista, famiglie che preferiscono un cane a un bambino, allora perché non cedere al fascino di Babbo Natale come fede natalizia?
Credo non faccia male a nessuno!
Poi, invecchiando, si diventa inevitabilmente bambini e dunque si chiude un po’ il cerchio. Ricordo quando i miei figli più grandi erano piccoli e andai vestito da Babbo Natale alla scuola di Moron, come da tradizione a rotazione fra genitori. Mio figlio non mi riconobbe, mia figlia invece mi beccò in un battibaleno malgrado il gran travestimento e fu la sola. Ero deputato all’epoca e la Dirigente scolastica di allora, oggi militante della sinistra estrema (e lo era già allora…), sostenne che la mia era stata…propaganda politica, sfidando il senso del ridicolo, sepolta ovviamente da una sonora risata. Babbo Natale quell’anno non le portò neppure un pacchettino. Giusta vendetta è per questo sono andato a casa sua a Rovaniemi in pellegrinaggio.

Guardare gli altri

Capisco che ci siano già abbastanza problemi nel mondo autonomista, che mi auguro ormai indirizzato verso una ricomposizione unitaria seria che sarebbe salutare, per non guardare troppo a casa degli altri. E mi pare per essere onesto che ogni schieramento in Italia sia impegnato in fase di revisioni più o meno profonde, che sortiranno assai probabilmente scenari nuovi. È interessante anche capire quanto durerà l’honeymoon con l’opinione pubblica di Giorgia Meloni, vista la capacità dell’elettorato non solo italiano di far salire personalità ai vertici per poi liberarsene in gran fretta.
Credo che sia dunque legittimo seguire gli eventi altrui per chi voglia tenersi informato e abbia legittimamente la necessità di formarsi un’opinione per capire come orientarsi.
La tenzone interna al PD - e prossimamente su questi schermi nella Lega - offre spunti interessanti e condivido, per cui la riporto, l’opinione assai schietta di Aldo Cazzullo, tratta dal Corriere di qualche giorno fa: “La candidatura di Elly Schlein non è il «ritorno al massimalismo»; è il tentativo della nomenklatura del Pd di nascondersi dietro una bella figura (non voglio dire figurina) per sfangarla ancora una volta e cambiare tutto affinché nulla cambi; con il retropensiero che i veri giochi per Palazzo Chigi si faranno tra anni, quando si tornerà alle urne. Con questo non intendo sminuire Elly Schlein, che ha una bella storia alle spalle, ed è una persona (non voglio dire personaggio) che dà speranza, include, mobilita. Ma, secondo la mia opinione, ha un’esperienza politica e amministrativa troppo limitata per guidare un grande partito e, in caso di vittoria elettorale, un governo”.
Segnalo ancora un punto. Mi pareva di aver capito che prima di approdare al PD la Schlein, mai iscritta e eletta sempre come indipendente, agisse in una galassia più a sinistra con a una certo punto una predicazione - che la situa ideologicamente - per una rinascita dei Verdi. Stupisce il padrinaggio della sua candidatura di un vecchio democristiano come Dario Franceschini.
Aggiunge Cazzullo: “Nelle democrazie moderne, avere un leader è importante. Lo era già ai tempi della Prima Repubblica, di De Gasperi e Fanfani — un gigante politico di cui si parla troppo poco —, di Craxi e Berlinguer. Senza Berlinguer (ce lo siamo già detti) il Pci non sarebbe arrivato al 34% dei voti. Di Berlinguer in giro non se ne vedono. C’è semmai un tentativo di aggregare il «partito degli amministratori» — Stefano Bonaccini, Dario Nardella, forse Matteo Ricci —, presidenti di Regione e sindaci che in questi anni sono riusciti a tenere insieme l’elettorato borghese e parte di quello popolare. Vedremo se riusciranno a trasferire con successo la formula a Roma, coltivando il dialogo con Renzi e Calenda e nello stesso tempo cacciando l’ombra che grava su di loro: essere troppo amici — o non essere abbastanza nemici — di Renzi e Calenda”.
Prima o poi il Terzo Polo dovrà capire bene dove andare e se la convivenza di due galli in un pollaio funzionerà.
Capisco la necessità di un leader, ma credo che più personalità a confronto possano e debbano convivere nella stessa compagine politica proprio per evitare, anche nei partiti, il rischio di derive autoritarie. L’equilibrio di poteri è sempre utile, anche per i leader.

L’ultimo istante

Mio papà se n’era andato a 86 anni, mia mamma poche ore fa a 92. Entrambi si sono spenti per la consunzione dell’età e ci si rassegna - cosa fare di altro? - a questo disegno del destino.
Ricordo, quando lamentavo lo stato di lento degrado di mio papà con un mio caro cugino, Paolo, quale fosse stato il suo commento: “Pensa a chi come me li ha persi troppo presto!”. Era ancora studente, in effetti, quando morirono entrambi i genitori a distanza di poco tempo. Anche lui poi morì troppo giovane per quella malattia che falcidia senza guardare in faccia nessuno.
Certo è che quando la morte ci tocca da vicino rifletti necessariamente sulla vita e sul distacco dai propri cari. Più invecchi, per altro, e più perdi familiari e amici.
Ricordo a questo proposito gli ultimi periodi della vita di mio papà, quando invocava quasi di morire, sfinito com’era da una condizione di salute sempre peggiore. E diceva di nascosto da mia mamma: ”Non ho più fratelli e sorelle, se ne sono andati gli amici più cari. Non posso fare più niente, che resto a fare?”.
Non c’erano parole convincenti di consolazione da dirgli in quel tratto di vita che contraddiceva l’essenza stessa di mio padre, uomo iperattivo, sempre sorridente in una sua profondità d’animo che celava ansie che in parte derivavano dall’esperienza del campo di concentramento, che l’aveva bollato per sempre appena ventenne.
Con mia mamma gli ultimi mesi sono stati una sua e nostra tribolazione con un mondo del passato che riemergeva con evidente distacco dal presente sino purtroppo ad una specie di silenzioso oblio, parlando lei solo più con i suoi occhi diventati tristi. Uno sfregio, quella condizione fisica e mentale degradata, rispetto alla sua bellezza di un tempo e a quel suo carattere puntuto, spento dalla vecchiaia.
Cosi vanno le cose e sono argomenti ricorrenti con i miei coetanei, impegnati anch’essi al capezzale di genitori anziani, che ridiventano bambini. Penso alle lotte fatte assieme a mio fratello affinché mia mamma accettasse in casa una badante per aiutarla. Esperimento inutile scontratosi con la sua cocciutaggine di fare da sola sino al crollo e alla decisione difficile di trovare una casa di riposo per vivere l’ultimo miglio. Lì si era trovata bene, ma il logorio dell’età ha fatto il resto nell’ineluttabilità del ciclo della vita. Ma con la giusta consapevolezza da parte nostra, nel suo caso, di un’esistenza che era stata felice, piena di cose belle, giunta com’era ad un’età veneranda sino a quel fine vita difficile.
Condizione finale che dimostra sempre di essere un confine inquietante, quando di fatto priva di cognizione e di energie fisiche in quello stato di languore che ferisce chi lo subisce e chi assiste impotente. Un tema importante, che in Italia è un tabù e va detto che il testamento biologico non è una soluzione che non mi convince molto, mentre sarebbe preferibile affrontare il tema, in scienza e coscienza, dell’eutanasia, quando il proprio stato di salute diventa nient’altro che un calvario per sé e per gli altri che stanno vicini.
Per fortuna quella senescenza che deforma e umilia anche le persone più care svaporerà grazie ai ricordi più belli e ci accompagneranno anch’essi - se così sarà - verso quell’età profonda in cui pian piano, come tutto in Natura, ci avvicineremo all’ultimo istante, verso il mistero dell’Aldilà.

La gabbia dell’estremismo

Ho sempre odiato gli estremisti e gli estremismi di qualunque colore siano e di qualunque pasta siano fatti. Chi è federalista aborrisce in modo equanime chiunque celebri, all’estrema destra come all’estrema sinistra, progetti politici contrari ai diritti umani, alle libertà e al principio di sussidiarietà.
Eppure bisogna riconoscere come l’estremista spicchi per la virulenza delle sue intenzioni, per la violenza nei suoi comportamenti, per i settarismo che lo unisce con propri simili e per il disprezzo profondo per chi non la pensi come lui. In genere lavora come un matto in favore della sua ideologia, in modo maniacale e integralista, accecato com’è dalla logica di un pensiero unico e non negoziabile.
Li ho visti e le vedo in azione questi faziosi. Sono gruppuscoli insignificanti e la sola esistenza è la grancassa mediatica, la petizione chiassosa, la denuncia facile, il dileggio verso chi combatte le loro idee. Lo fanno spesso nel nome di principi nobili e sbandierando quella democrazia che nelle loro sette – spesso con tanto di guru leader – non esiste affatto. Ma la cecità aiuta e trasforma in falange macedone anche gruppetti di persone che si fanno forza fra loro, cementando quelle convinzioni che li rendono irragionevoli. Inutile infatti il colloquio o la discussione. Come dei robottini istruiti, anche dopo lunghe interlocuzioni, tornano al punto di partenza, convinti che quella inamovibilità sia degna di medaglia di fedeltà.
Colpa loro e dei loro ispiratori? Certamente sì, tuttavia con un necessario distinguo. La colpa è anche nostra, in senso generale, perché consentiamo troppo spesso a minoranze chiassose non quello che è un loro ruolo legittimo, ma permettiamo a certi sproloqui di occupare spazi eccessivi, privi della proporzionalità rispetto a quanto contano. C’è una sovrarappresentazione di fenomeni marginali che si fanno forti nella loro fermezza di mettersi contro per partito preso in una logica detestabile di continua contestazione. Si diventa così antagonisti di professione e di fatto. Ha scritto Giovanni Sartori: “La visibilità è garantita alle posizioni estreme, alle stravaganze, agli «esagerati» e alle esagerazioni. Più una tesi è sballata, e più viene reclamizzata e diffusa. Le menti vuote si specializzano in estremismo intellettuale, e così acquistano notorietà (diffondendo, si capisce, vuotaggini)”.
L’antidoto esiste ed è la mobilitazione dei silenti contro i rumorosi. Il levarsi di tutti coloro che per quieto vivere non si fanno avanti. Una forma di assenza che lascia inevitabilmente lo spazio agli altri che gridano forte e si affermano.
A peggiorare tutto ci si sono messi i Social che fanno da aggregante fra chi la pensi in un certo modo grazie ad algoritmi che premiano l’unicità di idee e allontanano chi avrebbe da ridire. Una stanza piena di persone indottrinate poste solo di fronte a chi condivide le medesime convinzioni. Il contrario esatto della democrazia, che avrebbe nel dialogo il segreto per progredire. Chi resta fermo nelle sue convinzioni senza spazi alcuni di dialogo diventa inutile, chiuso nel suo estremismo e purtroppo i Social diventano una gabbia per chi decide di non confrontarsi.

Aspettando il Natale

Non so bene come si possa definire il periodo prenatalizio. Si potrebbe dire che è un vortice che ci travolge oppure, più convincente, un lungo scivolo che ci dà una certa ebbrezza per poi finire bruscamente. Mi riferisco a cene e pranzi più meno augurali, a bicchierate e aperitivi, ma anche alla ricerca dei regali e quegli obblighi sociali per gli auguri, così come allestimenti vari a carattere festoso.
Per chi faccia politica e amministrazione c’è anche quel Moloch che è la Finanziaria: la chiamo così per semplificare, anche se nel tempo – a Roma come ad Aosta – si sono aggiunti documenti di programmazione, leggi e leggine, ma soprattutto fioccano le tabelle, quelle che danno i numeri.
Ho passato molti anni ad occuparmene in ruoli vari e specie alla Camera, dove la complessità era più accentuata. Era un periodo piuttosto tosto, per chi si impegna, e ricordo nottate intere alla Commissione Bilancio a vigilare su norme utili da non veder sparire o su emendamenti da far approvare con le complesse negoziazioni e la necessità assoluta di esserci. Se ti distrai può capitare di tutto e dunque bisogna non muoversi e svegliarsi con i caffè.
Diversa è stata ed è l’esperienza in Regione, dove vivi in una logica di costruzione vera e propria. Da Presidente della Regione dovevi avere non una visione settoriale, come mi capita oggi, ma una visione d’insieme e la navigazione fra cifre e obiettivi è sicuramente più difficile. Era anche l’occasione, però, per avere una visione d’insieme in meandri spesso non noti. La Valle d’Aosta è piccola, ma ha una sua complessità e vastità di materie di cui occuparsi.
Gli strumenti di programmazione, invece, sono molto interessanti. Ho sempre pensato che la loro forza sia quella di guardare avanti e non solo al contingente, che potrebbe essere anche più facile per chi lavora solo in logiche elettoralistiche di breve termine, che traguardano al massimo le elezioni che verranno. Invece è giusto guardare avanti con qualche accortezza. Bisogna zigzagare nella pastoie burocratiche che rischiano di far diventare troppo vecchie scelte che sono state fatte per tempo, ma non concretizzatesi nei tempi dovuti. E bisogna avere la flessibilità necessaria contro pianificazioni da socialismo reale: ci sono infatti avvenimenti imprevisti che devono essere affrontati con calma e determinazione. Pensiamo all’irrompere nelle nostre vite con effetti drammatici sulla nostra comunità, come la pandemia e gli stessi effetti della guerra in Ucraina hanno aperto scenari imprevisti, cui reagire.
So bene come di fronte a questo e cioè rapidità nelle realizzazioni e capacità di adattamento di fronte a situazioni nuove la democrazia rappresentativa e i meccanismi democratici non dimostrano sempre la reattività necessaria in questo nostro mondo sempre più veloce. Ci sono ampi margini di riforma: penso ai tempi delle Assemblee parlamentari e a certi riti ormai obsoleti con – ad esempio – legislazioni troppo corpose e difficoltà a modificarle rapidamente, ma anche gli strumenti amministrativi, i loro apparati e il parlar per atti finiscono per sembrare modalità di scelta al rallentatore. Così è e i necessari cambiamenti, per chi ci vive dentro, sono oggetto di attenzione per la consapevolezza che bisogna evitare fossati fra Politica e Società.
Fortuna che in questa temperie di pensieri e di preoccupazione arriva, con la sua calda e avvolgente ripetitività, il Natale è quanto ci occuperà o meglio ci distrarrà rispetto ai problemi quotidiani. So che è una parentesi abbastanza fugace e gennaio troneggia con la ripartenza del nuovo anno, ma distrarsi un po’ è salutare.

La casa dei ricordi

Con mio fratello Alberto sapevamo bene che mia mamma, purtroppo non più autosufficiente e ricoverata in una struttura, non sarebbe più riuscita a tornare nella casa di famiglia, dove noi stessi siamo cresciuti.
Eppure la casa l’abbiamo lasciata così senza toccare nulla e solo ora che lei ci ha lasciati dovremo occuparcene, come può avvenire in certi punto e capo che propone la vita.
Avevo a suo tempo messo da parte un articolo di Antonio Polito sul Corriere nel quale mi ero del tutto immedesimato e da oggi vivrò quei medesimi sentimenti.
Così Polito: “Chi ci è passato sa che è un’esperienza che segna: come spingere il tasto fast rewind e riavvolgere il nastro della tua vita. Chiudere la casa dei genitori che non ci sono più. Svuotarla dei mobili e degli oggetti. Scegliere quale tenere e quale no delle mille cose che hanno accompagnato le giornate della tua infanzia, i fermenti della tua adolescenza, e che avevi lasciato dietro di te quando te ne sei andato, pensando di non rivederle mai più”.
Così in questi mesi in cui mamma era via, destinata a un crescente oblio con una sorta di commovente ritorno alla sua infanzia e a fantasie che intenerivano, ho vissuto - passando in casa - la sensazione viva di ritrovare oggetti evocatori di mille storie di vita vissuta. Mia mamma non buttava nulla e più invecchiava è più accumulava. Esiste lì qualcosa di più di un genius loci, ma cose che sono come penati.
Racconta - ed è interessante - lo stesso Polito: “C’è invece una pratica in Svezia che ho sempre trovato molto civile e che chiamano dostadning: consiste nel «fare le pulizie della morte» prima del tempo, appena si va in pensione, per liberarsi del superfluo e scegliere l’essenziale, e così risparmiare ai figli, quando sarà il momento, la fatica fisica e psicologica che sto facendo io adesso. Si vede che i miei genitori non la conoscevano. Ma credo che in quel loro accumulare senza fine ci fosse qualcosa di più dell’ignoranza di stili di vita più sobri e nordici, e cioè un molto mediterraneo concetto di focolare, che attribuisce alla casa un valore diverso dalla sua semplice funzione abitativa”.
Così è anche per noi che viviamo sulle Alpi. Ma alla fine Politico conclude con un’osservazione che mi colpisce: “Forse bisogna lasciare ai figli questo compito, quasi un rito di passaggio: si diventa davvero adulti solo quando si chiude la casa del padre”.
Aggiungerei…e della madre, pensando a loro, i miei genitori: la coppia che mi ha amato ed è stata anche fiera di me. Più invecchi e più ne sei consapevole.

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