La crisi spegne i minibar

Ho vissuto per anni una parte della settimana in hotel nei giorni in cui ero al lavoro a Roma e lo stesso è avvenuto a Bruxelles e a Strasburgo.
Un oggetto classico nella stanza, assolutamente tentatore, è sempre stato il minibar o frigobar, che saliva di contenuti ghiotti a seconda delle stelle. Era del tutto evidente quanto fosse una preoccupazione dei manager alberghieri il fatto che si consumasse senza pagare. Per cui la cauzione con carta di credito era diventato un fatto ossessivo. Il gruppo Accor aveva creato un sistema automatico basato sul peso per cui quando prelevavi qualunque cosa la reception ne prendeva nota. Mi spiegarono poi i receptionist che clienti disonesti avevano trovato vari modi fraudolenti per aggirare il congegno.
Da tempo, ma non ci avevo fatto troppa attenzione, avevo notato frighi sempre più spogli- spesso una sola bottiglietta d’acqua - segno che la lotta fra guardie e ladri aveva portato al progressivo svuotamento. Ora leggo Jessica Gourdon su Le Monde che annuncia una svolta ulteriore: “Une mignonnette de whisky, un sachet de pistaches, une canette de Schweppes… Les minibars, ces petits réfrigérateurs nichés dans les chambres d’hôtel, vivent leurs dernières heures sur secteur. Débranchés, remisés, recyclés : les hôtels s’en débarrassent. Ces cubes réfrigérés viennent rejoindre le panthéon des objets en voie de disparition dans les chambres d’hôtel, comme les coffres-forts, les couvertures ou les bouteilles d’eau en plastique.
Cet hiver, Accor a fait du débranchement de ses minibars un axe de son plan de communication sur ses économies d’énergie. Le groupe va mettre hors service 51 000 minibars en France, principalement dans les Novotel et les Mercure. « Cela représente une économie d’énergie de 7,5 GWh, ce qui équivaut à la consommation électrique annuelle de 1 600 foyers », affirme l’entreprise, qui précise qu’un minibar représente « entre 30 et 50 % de la consommation électrique d’une chambre » “.
Ma questa storia, ammantata di buone intenzioni in seguito al cambiamento dei costumi, ha anche dell’altro. Leggiamo: “Affichée comme un engagement écolo, la fin des minibars arrange bien les établissements : ce service constitue une gageure pour les gestionnaires d’hôtel, et pour les femmes de chambres qui doivent vérifier chaque jour si une canette manque à l’appel. « C’est un centre de coût pénible, avec une comptabilité difficile à établir, et qui fonctionne sur l’honnêteté. Si quelqu’un nie avoir consommé telle ou telle chose, c’est compliqué de prouver le contraire », observe Vanguelis Panayotis, du cabinet de conseil en hôtellerie MKG”.
E ancora proprio sul cambio dei modi di vivere: “Surtout, les hôteliers veulent pousser les clients à utiliser les espaces communs, dont les surfaces ont eu tendance à s’agrandir et à se moderniser ces dernières années : bars, espaces de coworking, restaurants… Au Too Hotel, un hôtel de luxe branché qui vient d’ouvrir ses portes au sommet des tours Duo, à Paris, aucun minibar dans les chambres. Laurent Taïeb, le patron, a aussi supprimé le room service (la possibilité de commander dans les chambres), un dispositif qu’il juge rarement satisfaisant. « On propose à nos clients soit d’aller au restaurant ou au bar de l’hôtel, soit de se faire livrer avec un service type Uber Eats. On réceptionne les sacs à la réception et on leur monte », explique l’entrepreneur.
« Le minibar fait partie d’un temps révolu. Avant, les clients voulaient trouver dans leur chambre d’hôtel ce qu’ils avaient chez eux : une canette fraîche, une télé avec Canal+, un téléphone, une barre de céréales. Aujourd’hui, on vient dans un hébergement pour l’expérience originale qu’il offre, l’ambiance, les rencontres qu’il permet », poursuit Karim Soleilhavoup, directeur du groupe Logis Hôtel”.
L’evoluzione è interessante contro certe solitudini che si possono vivere, stando chiusi nella stanza. In effetti la socialità aumenta se ci si deve muovere!

Il politico e i pregiudizi

Esistono le cose concrete e poi ci sono i pregiudizi, che in qualunque caso ci rendono peggiori e pure un po’ fessi e a tratti inutilmente cattivi. Si tratta di uno specchio deformante.
La definizione da dizionario del pregiudizio suona più o meno così: “Idea opinione concepita sulla base di convinzioni personali e prevenzioni generali, senza una conoscenza diretta dei fatti, delle persone, delle cose, tale da condizionare fortemente la valutazione, e da indurre quindi in errore”. Diceva Voltaire: “I pregiudizi sono ciò che gli sciocchi usano per ragionare”. E precisava meglio: “Il pregiudizio è un’opinione senza giudizio”.
Pensavo al lavoro - ripeto, al lavoro - che ho fatto per larga parte della mia vita: la politica. Forse dovrei scrivere più opportunamente il politico e me fregio con fierezza e senza complessi.
Sentite, però, come suona, “il politico”, e pensate oggettivamente a quale reazione stimola appena pronunciata.
L’esperimento è facile: la rete diffusa di pregiudizi rispetto ai politici senza alcuna distinzione agisce in fretta e crea d’emblée un senso di antipatia e di rigetto senza troppi distinguo - come dicevo - fra buono e cattivo.
Qualcuno penserà che ho bel coraggio a difendere la categoria. E in fondo chi lo sostiene non ha tutti i torti. A fare notizia sono le cattive notizie e sono piene le cronache negli anni di politici disonesti, incapaci ed arruffoni. Questo diventa un elemento decisivo: sul banco degli accusati ci va tutta la categoria, com’è avvenuto nella logica della Casta, che ha fatto precipitare anche chi non lo merita nello stesso pentolone e solo accennare una timida difesa suscita ironia se non sarcasmo.
Sapendo che l’antipolitica esiste ed è cosa seria, non mi ci metto io a fare l’avvocato difensore. Ma osservo almeno una sola questione e cioè una delle madri di tutti i pregiudizi e che considera il fare politica sia espressione massima del dolce far niente, di una forma estrema di pigrizia se non di parassitismo.
A questa arrière pensée mi ribello e non per un riflesso corporativo. Ma perché posso testimoniare di come, per chi lo faccia seriamente, la vituperata politica - e ragioni di disprezzo di sicuro ce ne sono - sia attività totalizzante e faticosa.
Quando trovo chi con sorrisino e aria di sufficienza mi apostrofa “Eh! Il politico…” vedo in quella sospensione da puntini una sentenza del genere: “questo non ha mai fatto un tubo, beato lui”.
Allora mi piacerebbe fare un gioco e metterli nei miei panni in alcuni dei ruoli elettivi che ho ricoperto, cercando sempre di fare il mio dovere. Scoprirebbe giornate senza orari, problemi da risolvere, dossier da studiare e molto altro ancora, compresa una volontaria rinuncia a momenti di vita privata.
Non lo scrivo per fare la vittima e so bene che ci sono lavori più faticosi e certo meno gratificanti è peggio pagati. Ma il pregiudizio di essere considerato un nullafacente vita tutto rosa e fiori nella bambagia con annessi privilegi da califfo è davvero insopportabile.
Però ci ho fatto il calo e dunque “crepi l’astrologo!” e con lui chi vive di invidia e di gelosia. Ne ho conosciuti tanti e, senza pregiudizio, ho sempre pensato quanto sia triste la loro vita.

Perché non piace il POS?

Condoni e sanatorie, tranne rari casi, sono sterco del diavolo. Nel senso che servono come se fosse denaro per comprarsi i favori di pezzi di elettorato. Il caso di Ischia è così tragico da non avere bisogno di troppe parole. La cosiddetta “pace fiscale” serve per fare l’occhiolino a chi non ha fatto il proprio dovere di contribuente.
Ha scritto Sergio Ricossa: “In fatto di morale, il fisco è due volte peccatore: quando fa pagare tributi ingiusti, e quando concede sanatorie, amnstie e condoni agli evasori”.
Interessante dal punto di vista psicologico è il favore degli attuali governanti verso il denaro contante e i dubbi verso l’uso della moneta elettronica. Si tratta di una scelta anacronistica e che certo piace a chi fa il “nero” nelle transazioni economiche e deve usare quel denaro, per così dire “spacciandolo”.
Sul Foglio fa sorridere l’arguzia di Saverio Raimondo, che usa l’antica ma sempre valida tecnica dello sfottò: “Giorgia Meloni deve essere di quelle (pardon, quelli: è il Presidente) che si dimenticano sempre il pin del proprio bancomat, con conseguenti rossori e sudori freddi: altrimenti non si spiega questa guerra al Pos e ai pagamenti elettronici. Sembra dettata da un odio personale, un capriccio, visto che non c’è alcuna ragione al mondo per essere contrari a una transazione economica elettronica”.
È più avanti scherza: “Forse alla base c’è un trauma, come in “Marnie” di Alfred Hitchcock: in passato deve essere successo che Giorgia Meloni in un negozio è andata per pagare con il bancomat, e il Pos le ha detto “transazione negata”. (Parafrasando Woody Allen: le parole più brutte al mondo non sono “ti odio”, e nemmeno “è maligno”, ma “credito insufficiente”). Possiamo immaginare l’imbarazzo, la vergogna, l’umiliazione che avrà provato Giorgia Meloni, sempre così indipendente, tutta d’un pezzo, nel fare la figura della povera – i tanto odiati poveri! – proprio di fronte a un piccolo commerciante, sua base elettorale. Con il peso dello sguardo giudicante altrui addosso, sentendosi assediata più che dai giornalisti, Giorgia Meloni avrà assicurato il commerciante che i soldi sul suo conto ci sono – detestando la balbuzie che improvvisamente avrà increspato il suo eloquio e il rossore che ne avvampava le guance tradendone le fragilità – e avrà chiesto di riprovare, ma niente: seconda transazione negata. La vergogna si sarà trasformata in rabbia, la rabbia in sproloqui contro i poteri forti. Avrà chiesto dov’era il bancomat più vicino, sarà uscita sotto la pioggia, e una volta trovata una banca e aver letto sullo schermo “sportello fuori servizio” avrà imprecato contro Soros. Da lì il trauma, che oggi finisce in manovra finanziaria”.
Una risata talvolta fa più effetto di tante concioni. Anche a me capita di farlo per non prendersi troppo sul serio e per non prendere troppo sul serio gli altri.
Poi il giornalista si fa un pochino più serio: “Si tratta del primo, vero passo falso di Giorgia Meloni; un passo che l’allontana da quella gente alla quale lei dice di appartenere, che si vanta di rappresentare. Il bancomat ha svoltato le nostre vite comuni proprio nei micro-pagamenti, perché ha debellato il resto in ramini. Chi le vuole tutte quelle monetine che adesso torneranno a infestare le nostre tasche, a sfondare i nostri portafogli? Sono inutilizzabili, persino le macchinette le sputano via. Vuoi innalzare il tetto al contante? Allora però alza anche il pavimento, io le monetine da 1, 2 o 5 centesimi non le voglio! Mi è chiaro che il ragionamento di Meloni è macro-economico: togliere l’obbligo del Pos è un bonus alla piccola evasione, per rilanciarne i consumi e l’impresa. Il problema è che questa manovra garantisce alla piccola evasione il mantenimento dello status quo, ma non gli dà gli strumenti per crescere e fare un reale scatto economico e sociale. Il governo dovrebbe attuare politiche ben più strutturali per aiutare i piccoli evasori a diventare grandi evasori – che è la vera disuguaglianza, il vero divario economico che affligge questo paese”.

La crisi dei regimi autoritari

Cercare di informarsi è doveroso. Personalmente cerco di farlo quotidianamente e trovo interessante che ciò avvenga in una logica, per così dire, crescente. Dalla cronaca locale, quella di prossimità, sino alla politica internazionale.
Non è mai tempo perduto. Sapere le cose aiuta a crescere e trovo che sia un obbligo di cittadinanza.
Intendiamoci: mi capita anche di seguire notizie leggere e vengo regolarmente preso in giro quando, uscendo dal seminato delle questioni di cui mi occupo, entro sul terreno esilarante del gossip.
Oggi, invece, sarò serio e mi occuperò di un tema stimolante. Da tempo, in un’alleanza che mette i brividi, ci sono Stati - Iran, Russia e Cina- che cavalcano l’idea del crollo dell’Occidente.
Ne scrive su Le Monde, segnalando una sorta di contrappasso, Gilles Paris: ”Liés sans être formellement alliés par une combinaison de facteurs militaires, politiques et économiques, comme par la conviction du déclin supposé de l’Occident, un autre moteur de cet axe informel, les régimes de ces trois pays partagent désormais, à des degrés cependant très différents, une même forme de rejet.
La République islamique iranienne est confrontée depuis bientôt trois mois à une contestation radicale de ses fondements religieux, qui a pris de court un appareil répressif pourtant aguerri.
Après avoir précipité, depuis son invasion de l’Ukraine, une fuite des cerveaux qui pourrait se révéler dévastatrice à long terme, la Russie se réduit pour l’instant à des échecs militaires qui l’affaiblissent jusque dans son « étranger proche ». En a témoigné, mercredi 23 novembre, la réunion aigre-douce de l’Organisation du traité de sécurité collective, une alliance regroupant d’anciennes républiques soviétiques, dominée par Moscou, au cours de laquelle Vladimir Poutine a été toisé par des partenaires dubitatifs.
La stratégie zéro Covid de Xi Jinping a nourri enfin en Chine une exaspération sociale inédite, moins de six semaines après le 20e congrès du Parti communiste (PCC), qui voulait pourtant mettre en scène la supériorité du marxisme aux caractéristiques chinoises”.
È una questione molto interessante, che conferma come ci si debba tenere ben stretta la pur usurata e talvolta vituperata democrazia occidentale, che resta sempre migliore delle forme varie di autoritarismo.
Torniamo a Paris: “Efficacité, stabilité : telles étaient leurs vertus présumées face au désordre identifié à l’Ouest. Il s’agissait alors de ce que Moscou et Pékin promettaient à leurs administrés en échange de leur silence, mais ces promesses ont été balayées par les épreuves.
Le ressort de la fierté nationale dont jouait le régime iranien pour avancer dans un programme nucléaire conçu comme une assurance-vie ne joue plus. Le poids sur les Iraniens des sanctions internationales que cette ambition a déclenchées est trop lourd, depuis trop longtemps.
L’aventurisme impérial de Vladimir Poutine a également remis en cause le contrat tacite imposé à la population russe qui voulait que cette dernière devait d’autant mieux y consentir qu’elle n’aurait pas à payer le prix du sang. La victoire aurait peut-être pu le faire accepter sans trop de dommages, mais ce sont au contraire les défaites qui s’accumulent depuis l’automne sur les fronts ukrainiens.
La réorientation de la direction chinoise opérée par Xi Jinping, qui ne fait plus de la croissance et de ses dividendes le cœur de sa politique économique, a produit le même résultat. Cette remise en cause de l’exhortation à l’enrichissement prêtée à l’ancien numéro un chinois Deng Xiaoping, alors combinée avec le rôle préservé du PCC, ébranle également un pacte de confiance rongé par le taux de chômage élevé de la jeunesse chinoise (18 %)”.
Insomma: casca il mito del dirigismo e degli uomini forti al comando e dei regimi autoritari che funzionano perché impongono senza discussione alcuna, perseguitando qualunque forma di opposizione. Teniamoci stretta la democrazia.
Oggi, ricorda Paris, fenomeni particolari potrebbero agire come un terremoto: “Dans les trois pays, l’enfermement idéologique et l’ossification des régimes produisent les mêmes résultats. La direction iranienne paye le prix de la décision stratégique de mettre un terme à l’apparence du pluralisme incarnée par un courant présenté comme réformateur, opérant à l’intérieur du système. Faute de cette soupape, ce dernier est aujourd’hui rejeté en bloc sans qu’un fusible puisse remplir son office”.
Vedremo dove andranno i diversi rivolgimenti.

Il conto alla rovescia

È sempre molto difficile distinguere le reali radici di tutto ciò che è classificabile come “tradizione”. Quel che è certo è che c’è stato un punto di partenza, prima del quale una certa tradizione ancora non esisteva.
Ha scritto su questo Jean D’Ormesson: “Qualcuno ha detto che la tradizione è un progresso che ha avuto successo. Non bisogna mai dimenticare che quello che facciamo e diciamo diventerà tradizione per chi verrà dopo di noi.
Non ci si deve quindi accontentare di trasmettere ciò che si è ricevuto, bisogna aggiungere del nuovo. Così, ogni generazione abbandona una parte delle tradizioni del passato e aggiunge qualcosa di suo”.
Ci pensavo ora che stiamo entrando nel “Christmas mood”, come dicono gli anglofoni, mentre i francesi adoperano “Ambiance de Noël”. È in italiano? Non vado molto più in là di “clima natalizio” o “spirito natalizio”.
Come si fa a non citare il racconto di Charles Dickens: “Si vestì, col meglio che aveva, e uscì per la via. La gente si riversava fuori, com’egli l’aveva vista con lo Spirito del Natale presente. Camminando con le mani dietro, Scrooge guardava a tutti con un sorriso di soddisfazione. Era così allegro, così irresistibile nella sua allegria, che tre o quattro capi ameni lo salutarono: “Buon giorno, signore! Buon Natale!” E Scrooge affermò spesso in seguito che di tutti i suoni giocondi uditi in vita sua, i più giocondi, senz’altro, erano stati quelli.
Per la cronaca “capi ameni”, cioè persone bizzarre è espressione ormai del tutto sparita nel suo uso in italiano!
Nella mia infanzia esisteva sia l’albero di Natale, allestito con le sue luminarie fuori di casa, sia il presepe, che ho curato io stesso da bambino in un allestimento abbastanza impegnativo.
Oggi a casa campeggia in soggiorno un albero di Natale (facendo attenzione alla sua accensione per i costi dell’energia elettrica su cui vigilare) con il complemento subito sotto di un villaggio natalizio Lemax che, un pezzo all’anno, è costituito da miniature in plastica illuminate. Questo è un esempio di una novità nata direi per caso, che è già diventata tradizione perché mette di buonumore.
Ma ce n’è una seconda che fa sorridere e che serve ad allestire nel concreto e nell’immaginario l’avvicinamento al Natale. E che ha avuto anche, con tutto il resto, a far digerire i momenti grami della pandemia sotto Natale con quel senso di costrizione che rese ancora più difficili quelli momenti.
Mi riferisco al calendario dell’Avvento che da domani diventerà sino al 25 dicembre un appuntamento mattutino imperdibile, con l’apertura di una casellina al giorno.
Focus racconta chi lo inventò: “Il Calendario dell'Avvento fu inventato da Gerhard Lang, un editore protestante, originario di Maulbronn (Germania), nel 1908.
Al tempo in Germania c’era già l’usanza di aspettare la festa della nascita di Gesù facendo 24 piccoli pacchettini da scartare, uno al giorno, dal 1 dicembre al giorno di Natale. Ma Lang fece qualcosa in più: preparò un calendario con un disegno per ogni giorno. L’anno seguente introdusse il dettaglio delle finestrelle, dal cui interno spuntavano angeli o piccoli Gesù Bambino da ritagliare o assemblare”.
Ormai se guardate sul Web c’è di tutto, più profano che sacro, come calendario dell’Avvento.
Senza essere irrispettoso, io avrò ogni giorno da domani a Natale un pezzo di cioccolato, mia moglie prodotti di bellezza, Alexis snack americani. Per gli adulti anche una birra al dì.
Pensierini che conducono al Natale con un vero e proprio conto alla rovescia.

Informare senza vedere tutto nero

Con i colleghi di ALCOTRA (acronimo che sta per "Alpi Latine Cooperazione Transfrontaliera"), che comprende Valle d'Aosta, Piemonte, Liguria, AUVERGNE-RHONE-ALPES, Provenza-Alpi-Costa Azzurra, siamo saliti con la Skyway Monte Bianco sino ai 3.466 metri di Punta Helbronner.
L’occasione era il lancio del nuovo periodo di programmazione di Interreg Italia-Francia, che ci porterà sino alle porte del 2030.
Al Pavillon, con Arpa Valle d’Aosta e Fondazione Montagna sicura, abbiamo parlato di cambiamento climatico e nessun posto poteva essere migliore di un luogo simbolico a carattere europeo.
Proprio alla vigilia avevo letto su Internazionale quanto scritto da Elizabeth Kolbert sotto la voce “Narrazioni”. Eccolo: “Le narrazioni sono ‘storie’ socialmente costruite che danno un senso agli eventi”, fornendo così “una direzione all’azione umana”, osserva un articolo pubblicato di recente sulla rivista Climatic Change da un gruppo di ricercatori europei. Le narrazioni sul cambiamento climatico, scrivono i ricercatori, di solito “vedono tutto nero”. Spesso enfatizzano i pericoli. Quando non descrivono gli ultimi disastri (incendi, alluvioni, carestie), ne annunciano di ancora più gravi (incendi più grandi, alluvioni più estese, carestie che minacciano intere regioni). Questo approccio, sostengono i ricercatori, può essere controproducente: “Le narrazioni della paura possono diventare profezie che si autoavverano”. Se le persone credono che le cose possono solo peggiorare, si sentono sopraffatte. Se si sentono sopraffatte, tendono ad arrendersi, garantendo così che le cose andranno sempre peggio. Una dieta a base di cattive notizie porta alla paralisi, che produce altre cattive notizie”.
Parole importanti e condivisibili per i padrini del catastrofismo, che è ben diverso da chi informa della oggettiva drammaticità ma usa toni che finiscono per nuocere.
Ancora l’articolo nel suo equilibrio: “Quello che serve, invece, sono narrazioni che “diano alle persone la possibilità di agire”. Queste narrazioni dovrebbero proporre una “storia positiva e coinvolgente”, indicare “dove si vuol andare” e descrivere i passi per arrivare a questa destinazione metaforica. Anche le storie positive possono autoavverarsi. Le persone che credono in un futuro migliore sono più propense a impegnarsi per raggiungerlo. Quando si impegnano, fanno scoperte che accelerano il progresso. Lungo il percorso, costruiscono comunità che rendono possibile un cambiamento positivo. “L’ottimismo è una scelta”, sostiene Christiana Figueres, la diplomatica costaricana che ha guidato gli sforzi per far approvare l’accordo sul clima di Parigi. “Conoscete qualche sfida che l’umanità abbia affrontato con successo e che sia cominciata con pessimismo o disfattismo?”, si è chiesta Figueres in una conferenza di qualche anno fa. “Non ce n’è una”, ha detto, rispondendo alla sua stessa domanda”.
Applausi in favore di una informazione seria e di impegni fissati e non demagogici nel segno della sussidiarietà: ognuno può fare del suo nella sua famiglia e nella sua comunità, poi si sale la scala dal locale al regionale, dal nazionale all’europeo fino al globale. Livelli senza i quali opportunamente coordinati non si rema nella stessa direzione.

L’autonomia differenziata non deve fare paura

Parlavo l’altro giorno con Arno Kompatscher, Presidente del SüdTirol, di questa storia dell’autonomia differenziata e concordavamo sul fatto che da troppo tempo se ne attende l’applicazione e che la novità potrebbe permettere anche alle Speciali qualche nuovo spazio politico e amministrativo.
Per capirci ricordo anzitutto i contorni di questa autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario. Si tratta di una potestà riconosciuta dall'articolo 116 della Costituzione dopo la modifica avvenuta con la riforma costituzionale del Titolo V approvata nel 2001. All’epoca mi occupai attivamente di questa riforma come membro della Commissione Affari Costituzionali della Camera e seguii anche questa novità.
Così recita l’articolo 116 della Costituzione, al terzo comma prevede: "Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell'articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all'organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all'articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata".
Per capire meglio ricordo che l’ambito delle materie nelle quali possono essere riconosciute tali forme ulteriori di autonomia concernono: tutte le materie che l'art. 117, terzo comma, attribuisce alla competenza legislativa concorrente. Tali materie sono: rapporti internazionali e con l'Unione europea delle Regioni; commercio con l'estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.
Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”.
La richiesta di maggiore autonomia è stata avanzata da nove regioni (Lombardia, veneto, Emilia-Romagna, Piemonte, Liguria, Toscana, Marche, Umbria e Campania), in due si è svolto un referendum nel 2017 che ha confermato la richiesta (Lombardia e Veneto) e oltre a queste ultime anche con Emilia-Romagna e Piemonte si è giunti alla fase di intese tra rispettive Regioni e governo.
La riforma si è impantanata da anni e in queste settimane, con totale miopia, alcuni Presidenti delle Regioni del Sud hanno chiesto di lasciar perdere.
Su Formiche Giovanni Guzzetta, costituzionalista di grande competenza e vecchio amico, critica questa scelta, cominciando dal Presidente della Campania: “Un esempio delle distorsioni di una discussione che merita invece ben altra compostezza e serietà emerge dalla polemica del presidente De Luca con il ministro Calderoli, titolare del dicastero competente. De Luca, peraltro in buona compagnia con altri (non tutti) governatori di regioni del Sud, ritiene nelle proprie dichiarazioni che, intorno al tema dell’autonomia, si voglia consumare una spaccatura del paese a tutto vantaggio delle regioni del Nord, aumentando ulteriormente diseguaglianze purtroppo conclamate”.
L’affitto successivo crea curiosità:
“Il paradosso è che, se, invece, si abbandona il terreno della polemica e delle dichiarazioni, e si guarda ai fatti, si scopre che lo stesso De Luca, nel 2019, trasmetteva al governo, nella persona del Presidente Conte, una proposta di avvio di un negoziato per il conferimento di autonomia differenziata alla Campania. La notizia non è solo rilevante in sé, ma anche per il contenuto di quella proposta, soprattutto su due particolari profili intorno ai quali più accesa è la polemica. Il primo è quello delle materie da conferire. Nella proposta della Campania compaiono anche, ad esempio, istruzione e sanità, quelle su cui più accesi sono i toni dello scontro.
Il secondo profilo riguarda il tema della copertura finanziaria dei trasferimenti di competenza. Il discorso, molto tecnico, va, in questa sede necessariamente semplificato. In sostanza nella polemica pubblica ciò che più accende gli animi è il sospetto che tali coperture siano fatte sulla base della c.d. “spesa storica” che, a legislazione vigente, lo Stato attua per finanziare le funzioni che andrebbero, in prospettiva, trasferite alle Regioni. Il criterio della spesa storica, dice De Luca e con lui altri oppositori dell’autonomia differenziata, danneggerebbe le regioni del Sud a tutto vantaggio di quelle del Nord. Il punto è che nessuna proposta del governo, attuale o passato, ha mai ritenuto che, a regime, questo dovesse essere il criterio di calcolo, immaginando semmai un’applicazione in via transitoria in attesa dei nuovi criteri elaborati nell’ambito delle riforme del federalismo fiscale previsto dall’art. 119 Costituzione (altro capitolo nel quale l’inattuazione della Costituzione dura ormai da decenni)
Ebbene, la notizia è che anche la proposta di intesa avanzata dalla Campania proponeva, per accelerare il processo, che, sempre in via transitoria, potesse applicarsi il criterio della spesa “a legislazione vigente”, cioè la spesa storica”
Insomma: una figuraccia quella di De Luca!
Chiude Guzzetta: “Insomma ci troviamo di fronte a un caso esemplare di come si sviluppano molti dibattiti politici in Italia. La retorica delle contrapposizioni e il frontismo ideologico non ha nulla a che vedere con le questioni reali di cui si dovrebbe discutere. Una democrazia delle parole, che danneggia spesso irrreparabilmente la democrazia delle decisioni.
Alimentare questo tipo di scontro, così distorsivo e ideologico, non è bene per la vita delle istituzioni e per la serenità dei cittadini. Genera allarme, accende gli animi e rischia di alimentare bolle di conflittuali sociali, prive di una vera sostanza, ma drammaticamente incendiarie”.
E aggiunge in coda: “Quanto detto non significa ovviamente che le soluzioni siano semplici e che basti uno schioccar di dita per realizzare questo capitolo del nostro travagliato regionalismo. Ma l’opzione zero del sabotaggio della Costituzione e della sua inattuazione non può essere la soluzione per nessuno.
Tanto più che l’impostazione ideologica dello scontro finisce inevitabilmente per oscurare il dato che il Sud di questo paese non è una palla al piede da sopportare in nome dell’unità, ma un’area nella quale i margini di crescita e le potenzialità di sviluppo sono un’opportunità enorme, i cui margini di realizzazione sono direttamente proporzionali all’ampiezza del gap che la separa dal resto del paese.
Una politica autenticamente meridionalista non può mai attestarsi sulla difesa dello status quo. Anche perché lo status quo umilia già abbondantemente la condizione dei cittadini comuni che vivono e vogliono continuare a vivere in quei territori”.
Il caso del PNRR, che ha riversato somme enormi prevalentemente al Sud con problemi di spesa enormi, dimostrerà che le polemiche contro il Nord servono a certi Presidenti “Masaniello” come strumento elettoralistico.

Uniti si vince e si cresce

Giuseppe De Rita, che è stato ed è affezionato amico (insegnito nel 2013 quale “ami de la Vallée d’Aoste”) e frequentatore radicato (per anni Presidente della Fondazione Courmayeur) della nostra Regione, ha osato sul Corriere occuparsi di un tema cruciale in Italia e pure da noi.
Lo presenta così: “In un ambito politico ancora infestato dal novero delle cose da disprezzare (i partiti, le oligarchie, la casta e quant’altro) può sembrare controcorrente la crescente propensione ad una «domanda di partito», al bisogno cioè di poter fare riferimento non ad avventurose leadership personali, ma ad una macchina organizzativa capace di confrontarsi pubblicamente con idee, proposte, poteri, istituzioni”.
Lo dico anche con logica autocritica ed è per questo che bisogna, con umiltà ma senza rinnegare le ragioni che mi spinsero a lasciare l’Union Valdôtaine, dire che è assai positiva un’apertura al dialogo da parte del Mouvement, avvenuta in vista di una possibile réunification con una lettera che propone un percorso a VdaUnie-MOUV’ e ad Alliance Valdôtaine, che sono già sulla strada della federazione fra di loro. Si tratta di un passo decisivo per riunire le energie in un logica pluralista e non personalista, che darà solidità al mondo autonomista per affrontare le tante sfide in campo.
Su questo ruolo delle forze politiche De Rita è tranchant: ”Eppure, nella maggioranza di governo come nell’opposizione (a destra e a sinistra, si sarebbe detto una volta) si può intravedere un desiderio o un bisogno di «fare partito». Ed è un fenomeno che circola non solo fra gli inquieti soggetti politici oggi in campo, ma anche in un elettorato stanco del succedersi di offerte politiche troppo personalistiche”.
L’area autonomista è ricca di personalità varie di tutte le estrazioni ed esperienze e di età che coprono dai più giovani ai più vecchi ed è un patrimonio decisivo per l’avvenire.
Il sociologo chevronné guarda all’Italia, ma si può applicare anche da noi e - lo ripeto - senza risparmiare nessuno, me compreso: ”Se si guarda anzitutto al panorama attuale, si vede che esso da anni è pieno di proposte politiche costruite sulle persone: da quella, risultata oggi vincente, dell’attuale Presidente del Consiglio a quelle dei due leader laterali della maggioranza di governo, a quelle dei tre o quattro segmenti di potenziale opposizione. Si corre sempre su un impulso e una decisionalità di tipo individuale, in quanto tutti questi protagonisti non hanno dietro le spalle un vero partito organizzato; si blindano con stretti circuiti di fedeltà personale; e si assestano su coalizioni occasionali e senza intima coesione; con la conseguenza di una spettacolare «ronda del piacere» dove vince la vitalità e/o la furbizia spregiudicata dei soggetti più vitali. Ma con questa vitalità non si va molto lontano e si comincia a sentire il bisogno di avere strutture organizzate capaci di gestire la crescente ambiguità dei problemi sociopolitici e dell’opinione pubblica”.
La conclusione va letta d’un fiato: ”Questo bisogno comunque non cresce solo in chi fa professionalmente politica, va crescendo anche nel magmatico e sfuggente mondo dell’elettorato. Un elettorato che si sta stancando di rincorrere gli appelli generici dei potenziali leader; la loro attrazione mediatica improbabile; la furbizia delle loro strategie personali; le tante onde di consenso che vanno e che subito scompaiono; la moltiplicazione di personaggi carismatici destinati a durare, se sono bravi, per qualche lustro (Berlusconi, Bossi, Grillo), o per pochi anni (Fini, Salvini, Renzi, Zingaretti, ecc.).
L’elettore medio, un po’ cinico e sconsolato, si domanda di fronte a ciò cosa ci dobbiamo aspettare: l’arrivo di un uomo forte; nuovi e più freschi protagonisti della personalizzazione della politica; o la maturazione consolidata di quelli che già ci sono? Oppure la rottura della tendenza in atto e il crescere di una domanda di organizzazioni politiche capaci di fare coscienza e mobilitazione collettiva?
Rispondere affermativamente a questa domanda rischia di scatenare l’inferno in una opinione pubblica che da trent’anni a questa parte si è abituata a disprezzare i partiti e le loro macchine organizzative («meglio i partiti leggeri che d’apparato») e a non sopportare i processi decisionali complessi (a favore di procedure facili e labili, magari le mitiche primarie). Sono passati trent’anni da Tangentopoli, che spazzò via il valore stesso della «forma partito»: trent’anni non bastano per un ripensamento sull’obbligata dimensione organizzata del fare politica? Dobbiamo aspettare ancora perché il pendolo torni indietro verso un approccio più realista della catarsi dei primi anni ’90? Forse è ragionevole non forzare la mano, ma cominciamo intanto a prendere coscienza del fatto che la politica senza organizzazione diventa per alcuni un’esaltante avventura, per il sistema un’ambigua palude populista”.
Tanti valdostani aspettano da noi che l’originalità della proposta autonomista, che ci differenzia dalla modellistica italiana, torni ad essere un luogo unico di aggregazione in cui dibattere e confrontarsi, sapendo che uniti, forti e coesi si vince e si cresce.

Un Trattato che è una chance

Un anno fa venne firmato il Trattato del Quirinale, che si occupa di una cooperazione rafforzata fra Italia e Francia. Pane quotidiano per noi valdostani per ragioni culturali dovute alla nostra storia e alla nostra posizione geografica e chi se ne dimentica fa un torto al buonsenso, ma anche all’utilità di rapporti che fanno crescere.
Per me il Trattato è motivo di giubilo perché si tratta di una miniera di possibilità in cui scavare per chi crede utili per noi i rapporti con i territori d’Oltralpe, le loro autorità e l’insieme delle popolazioni.
Per capire come basta poco affinché gli scenari mutino sono sufficienti poche righe. Il Presidente Sergio Mattarella è stato un protagonista assoluto con il Presidente francese Emmanuel Macron di questo Trattato e per fortuna è rimasto a vigilare. Ben diverso è l’approccio della neoPresidente Giorgia Meloni rispetto al suo predecessore, Mario Draghi, uomo dal curriculum europeo che ben comprende i rischi del provincialismo di chi inalbera in modo polemico le bandiere nazionali.
Questo è un approccio che non ci può appartenere se vogliamo credere ad un nostro ruolo storico di cerniera fra Italia e Francia, senza il quale si impoverirebbe la nostra autonomia. Non si tratta di essere filofrancesi ma di essere francofili e cioè di dimostrare simpatia per un mondo con cui abbiamo avuto e abbiamo rapporti di vicinato privilegiati e l’uso del francese è una chiave che ci agevola nei rapporti, creando un evidente legame di maggior confidenza e di comprensione della cultura francofona che ha un dimensione mondiale.
Ho partecipato ieri ad un seminario organizzato da Università italiane e francesi sulla cooperazione transfrontaliero, di cui in Valle siamo evidenti protagonisti ormai da una trentina di anni.
Scorrendo il Trattato, emergono elementi assai stimolanti. Intanto nelle premesse spicca la specificità dell’Arco alpino, che per noi ovviamente è il punto di giuntura con la Francia da tempo immemorabile con i Colli e infine con il Traforo del Monte Bianco Tunnel ormai gravemente acciaccato e dovrà essere un argomento perché il Trattato parla di infrastrutture e trasporti.
Ma ci sono anche temi che fanno tremare i polsi, come l’energia e il cambiamento climatico. Molto concreta è la collaborazione nel settore universitario con un ruolo dell’Università della Valle d’Aosta e fra Parchi, pensando ai Parchi confinanti del Gran Paradiso e della Vanoise. Ma un punto cruciale, per il nostro bilinguismo scolastico, è l’insegnamento, così come lo scambio più forte degli insegnanti e naturalmente degli allievi.
Nodale sarà il Comitato per la cooperazione transfrontaliera che dovrebbe dare impulso a tutto il sistema e sarebbe bello che il Sommet politico annuale si svolgesse da noi per la prima volta per l’evidente significato anche simbolico.
In fondo si tratta di un pezzo di cammino in cui, almeno per quel che mi riguardo, vedo qualche scintilla federalista della mitica Europa delle Regioni, che esiste nei fatti, ma patisce purtroppo di guinzagli degli Stati e di un’Europa ancora troppo debitrice degli Stati.
Ogni azione diversa - che pure nasce da interstizi “nazionali” - va sfruttata senza complessi d’inferiorità e mettendoci cuore e cervello.

Assieme per le Alpi

Sono stato a Trento per la chiusura della Presidenza trentino-tirolese della strategia macroregionale alpina. La si chiama con l’acronimo Eusalp" (in inglese "EU strategy for the Alpine region"), che i francesi in ossequio alla loro lingua e contro lo strapotere dell'inglese chiamano "Suera" ("Stratégie de l'Union européenne pour la Région alpine"). Sarebbe stato meglio usare il latino con un comprensibile “Alpes”.
Ricordo che come perimetrazione si tratta della vasta zona transfrontaliera - di cui facciamo parte - che coinvolge 46 Regioni appartenenti a sette Stati: Italia (Lombardia, Liguria, Friuli e Venezia Giulia, Veneto, Provincia autonoma di Trento, Provincia autonoma di Bolzano, Valle d'Aosta e Piemonte), Austria, Svizzera, Francia, Germania, Liechtenstein, Slovenia.
Parliamo di un'area di 400mila chilometri quadrati, che investe una popolazione di 70 milioni di abitanti, con un "PIL” stimato di oltre tremila miliardi di euro, ma la cifra è probabilmente superiore.
Ho sempre ricordato come ci siano due movimenti che ci interessano. Ce n'è uno orizzontale, che guarda il massiccio alpino in tutto il suo sviluppo, usando il famoso esempio della cerniera, che non è una novità ma una costante millenaria nei rapporti reciproci, quando gli Stati nazionali neppure esistevano. Ce n'è un altro che lavora su di una dimensione verticale corta che lega il versante Sud e quello Nord attraverso strumenti vecchi e nuovi di cooperazione.
Entrambe le geometrie complementari, tenendo conto della vecchia "Convenzione Alpina" e dei suoi Protocolli, dovrebbero ragionare in termini di vera cooperazione territoriale senza quelle ingerenze statali in negativo che proprio sulla "Convenzione Alpina" hanno pesato, rendendola pressoché inutile, con i Ministeri dei rispettivi Stati che in modo dirigistico e con lo stampino troppo ambientalista hanno cercato di mettere il naso ovunque, anche laddove poteri e competenze risultano solidamente su base regionale. 
Bisogna per questo valorizzare gli aspetti politici della dimensione alpina in chiave europea ma con ruolo essenziale delle Regioni per capire meglio come le comunità abbiano reagito in diverso modo ai medesimi problemi da affrontare. Un terreno fertile e indispensabile, perché ognuno nel proprio ambito - compresa la nostra Autonomia speciale - possa farsi forte non solo attraverso l'interscambio di buone pratiche, ma facendo sistema assieme agli altri "alpini" nel rapporto con le autorità europee e quelle statali.
Facendo attenzione che le grandi città del sistema, prevalentemente subalpine, non “schiaccino” la dimensione montana vera e propria.
Paul Guichonnet, il più grande studioso della “civilisation” delle Alpi nella sua veste di geografo e ai storico, ci ha lasciato purtroppo quattro anni fa, dopo aver dedicato la sua vita intera a studiare le “sue” montagne e le popolazioni che le vivono, scriveva: “Les Alpes sont, certainement, les montagnes les plus singulières et attachantes de la Terre. Au cœur du Continent européen, berceau de la civilisation industrielle développée, elles séparent et unissent, tout à la fois, le monde méditerranéen et les façades nordiques et océaniques du continent, dont elles constituent l'ossature majeure».
Le sue conclusioni sono espresse con grande efficacia in una breve frase: «la recomposition d'un espace alpin, moins subordonné et asservi, ne pourra se faire que dans le cadre de l'intégration européenne».
Avere grazie ai suoi studi che molto mi impressionarono ho compartecipato nel mio lavoro alla spinta per avere e la ottenemmo, nel quadro dell'Unione europea, questa strategia macroregionale delle Alpi in analogia a quelle già in sviluppo attorno al Mar Baltico, al fiume Danubio e al Mare Adriatico.
Ma la politica - e in primis gli eletti della montagna alpina - ci devono credere e evitare che la macroregione alpina sia un luogo per soli dialoghi tecnici su specifici argomenti, ma diventi luogo di confronto e di crescita della politica. Altrimenti resterà una creatura debole e infruttuosa.
Scriveva l'Abbé Joseph Bréan, riprendendo un tema caro ad Émile Chanoux, in "Civilisation alpestre": «Le moment est peut-être venu où cet immense réservoir de valeurs humaines, constitué par les Pays des Alpes, doit ouvrir ses écluses, pour répandre tout autour les flots d'une civilisation capable de sauver et de rénover le Vieux Continent, ce noble et malheureux Continent qui se débat dans un désarroi angoissant, cherchant une voie de salut».

Parole riferite agli orrori della Seconda Guerra mondiale e avere una visione europeista mostra la grandezza di Bréan. Pensieri che suonano come un sinistro ammonimento con i venti di guerra in Ucraina, che mostrano i rischi sempre presenti nel caso specifico derivanti dalla spinta del nazionalismo e dall’ imperialismo russo.
Uscire dalla logica dei soli Stati nazionali può avvenire proprio sulle Alpi e si può fare grazie all’approccio europeista, diventando un esempio fruttuoso di come scavalcare le frontiere lavorando assieme.

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