In piedi o seduto?

Riderne se ne può ridere e lo premetto, visto il tema - come dire? - quantomeno inconsueto, ma nient’affatto estraneo alle orecchie maschili. Mi spiego, prima di citare un articolato reportage di Célia Laborie
sul tema apparso su Le Monde. Il tema per niente aulico è: gli uomini possono continuare a fare la pipì in piedi o devo sedersi sul water, come stavolta suggeriscono le mogli?
L’articolo racconta di un bar di Montreuil dove una scritta nel bagno degli uomini invita a far la pipì seduti
Spiega la giornalista: “Si, en France, ce genre d’inscription peut surprendre, en Allemagne il n’est pas rare de croiser des écriteaux demandant aux hommes de poser leur séant sur la cuvette des toilettes des aéroports, des musées ou des restaurants. Là-bas, il existe même un mot pour désigner quelqu’un qui s’assoit pour soulager sa vessie : Sitzpinkler (« pisseur assis »). Une pratique qui n’a pas cours uniquement au pays de la Fête de la bière. Selon un sondage Panasonic mené en 2020 sur un échantillon réduit (155 répondants), 70 % des hommes japonais affirment uriner assis à leur domicile, contre 51 % cinq ans auparavant. La raison invoquée par ceux qui préfèrent poser leur popotin pour faire pipi est presque toujours la même : la propreté. D’après une étude menée par le chercheur en ingénierie mécanique Tadd Truscott, lorsqu’un homme fait ses besoins debout, les éclaboussures, que les Anglo-Saxons appellent retrosplash, se propagent jusqu’à 3 mètres à la ronde – une distance d’autant plus importante à connaître pour ceux dont la brosse à dents ou la serviette de toilette est installée dans la même pièce que les cabinets”.
La spiegazione è piuttosto ruvida e evoca in più discussioni familiari sui rischi di presenze sgradite sulla tavoletta del wc…
Ancora l’articolo: “Pour garantir la propreté des sanitaires, faut-il imposer à tous le pipi assis ? Ou s’agirait-il d’une énième croisade wokiste contre les libertés masculines ? En 2003 déjà, dans son essai Fausse route (Odile Jacob), consacré à la critique d’un féminisme censé être « obsédé par le procès du sexe masculin », Elisabeth Badinter fustige les mères suédoises qui apprennent aux petits garçons à prendre place sur la lunette des W.-C.. Quand, sur TikTok, Doctor JFK, un étudiant en pharmacie, publie une vidéo pour expliquer que « faire pipi assis permet d’augmenter ton débit urinaire maximal », les internautes alarmés se précipitent pour commenter : « Le mec est fait pour uriner debout ! Regarde les chiens : les mâles et les femelles ne pissent pas non plus de la même façon ! »”.
Non mi paiono spiegazioni nobilissime.
Ma più avanti c’è un passaggio etnografico: “D’après Ben Garrod, chercheur en biologie cité dans le Guardian, le fait d’uriner debout est la pratique la plus courante parmi les nombreuses tribus et communautés que ce Britannique a pu côtoyer à travers le monde. Est-ce là un atout de l’évolution conquis de haute lutte par l’homme, seul mammifère bipède de la planète ? « Je suppose que, si je me lève pendant que je fais pipi, j’ai plus de chances de voir un tigre à dents de sabre courir vers moi (…). Cela pourrait être un ajout au parcours évolutif, mais cela n’a pas conduit à notre évolution en tant qu’espèce », conclut l’enseignant”.
Mah!
C’è chi nel mondo femminile - osserva la Laborie - vorrebbe fare una cosa diversa: “En parallèle de ce débat sur les habitudes masculines, certaines femmes revendiquent désormais le fait de pouvoir faire leurs besoins jambes tendues, pour des raisons pratiques ou symboliques. Des entreprises commercialisent même des « pisse-debout » jetables ou réutilisables pour leur permettre de se soulager plus facilement dans la nature, ou pour éviter les files d’attente à rallonge dans les festivals”.
Insomma: il dibattito - che sia preso o no sul serio - è aperto.

Edicole e librerie in crisi

Le edicole mi sono sempre piaciute. Quando ero pendolare ferroviario da studente, alla stazione del mio paese - Verrès, nella bassa Valle d’Aosta - c’era una bella edicola che stuzzicava la mia curiosità sin da ragazzo. Idem ad Aosta e poi ad Ivrea, destinazioni susseguitesi nel mio pendolarismo, dove trovavo pane per i miei denti, quando era tutta carta e giornali e riviste erano numerosi.
Anche nei primi passi da giornalista e poi da politico tutto era ancora cartaceo e faceva piacere, in parallelo con librerie e libri che sono sorelle maggiori, abbeverarsi nelle notizie e negli approfondimenti per far funzionare il cervello. Interessante quel che osservava Hermann Hesse: “Non dobbiamo leggere per dimenticare noi stessi e la nostra vita quotidiana, ma al contrario, per impossessarci nuovamente, con mano ferma, con maggiore consapevolezza e maturità, della nostra vita”.
Scrivo anzitutto delle edicole, perché nei giorni scorsi - già chiusa da anni l’edicola dentro la stazione ferroviaria di Aosta - è stata letteralmente rimosso quello chalet che di fronte alla stessa stazione fungeva da tantissimo tempo da edicola. Una manifestazione fisica della fine di un’epoca.
Poche settimane fa leggevo su Agi: “L'emorragia delle edicole rallenta, -3,5% lo scorso anno contro il meno 6,3% dell'anno precedente, grazie a misure di sostegno venute dal governo, ma il settore sconta ancora un gap forte, tanto che nel 25% dei Comuni italiani neppure una è in attività, aperta al pubblico. Un grave danno sociale che mette in discussione il ruolo di canale di informazione che esse svolgono in una comunità”.
E ancora: “Emorragia effettivamente rallentata, se si pensa al -13,3% del 2018-2019, con la chiusura di ben 2.027 punti vendita, rallentata grazie anche alle misure di sostegno al settore. Quasi la metà delle edicole svolge ulteriori attività rispetto alla classica vendita di quotidiani e periodici che resta comunque prevalente”.
Il rallentamento è dovuto al fatto che le chiusure sono già state tantissime e basta che ognuno pensi alla geografia delle “sue” edicole. Vero è che si ampliano i prodotti in vendita, ma una cartina di tornasole resta la crisi dei quotidiani. Scriveva giorni fa Vanni Petrelli su il sito il millimetro: “Il boom di internet e dei social, la fuga degli inserzionisti, i giochi politici e di potere e la mancanza di innovazione. Un mix devastante per i quotidiani italiani, alle prese con un crollo verticale delle vendite che va avanti oramai da anni, mai bilanciato dalle edizioni digitali. Negli anni ’80, ad esempio, Repubblica era il primo quotidiano, con una tiratura di oltre mezzo milione di copie, seguito dal Corriere della Sera (circa 450mila). Oggi il quotidiano fondato da Scalfari nel 1976 sta affrontando la crisi più grave dalla sua nascita, visto che le copie vendute si attestano intorno alle 120mila. Il Corriere della Sera invece, viaggia di poco sopra le 230mila, con una forbice tra i due quotidiani che però si allarga sempre di più. Nel panorama nazionale sono davvero in pochi a fare eccezione al calo delle vendite: nelle impietose rilevazioni mensili si affaccia ogni tanto un timido segno più accanto ad Avvenire, Fatto Quotidiano, Libero, Italia Oggi, per citarne alcune. Ma nulla in grado di recuperare la valanga di giornali “scomparsi””.
E le librerie? Esiste anche in questo caso una logica causa-effetto. La crisi del mercato del libro in Italia comporta da tempo pesanti ripercussioni anche in termini di occupazione. Molte librerie sono state chiuse nei paesi e anche nelle città, lasciando un vuoto culturale evidente.
Una sorta di tenaglia edicole/librerie che è segno di profondi cambiamenti. Bisogna in parte prenderne atto - pensiamo come parallelo alla morte irreversibile delle cabine telefoniche- ma questo non impedisce per fortuna e per impegno di studiare operazioni intelligenti di salvataggio e di cambiamento.

Elogio della gentilezza

Anni fa avevo scherzato sulla scelta di avere in qualche Comune valdostano un Assessore alla Gentilezza nel solco di una proposta proveniente da un’Associazione culturale eporediese. Ora vedo che, con altro percorso, Courmayeur ha aderito ad un Manifesto su proposta di altro Movimento - che mi pare legato allo yoga e alle sue pratiche - che lo rende “Comune Gentile”.
Vorrei riflettere sul tema, perché resta sempre interessante . Partirei dalla ”Lettera enciclica fratelli tutti di Papa Francesco sulla fraternità e l'amicizia sociale" si legge con chiarezza cristallina: ”La gentilezza è una liberazione dalla crudeltà che a volte penetra le relazioni umane, dall'ansietà che non ci lascia pensare agli altri, dall'urgenza distratta che ignora che anche gli altri hanno diritto a essere felici. Oggi raramente si trovano tempo ed energie disponibili per soffermarsi a trattare bene gli altri, a dire "permesso", "scusa", "grazie". Eppure ogni tanto si presenta il miracolo di una persona gentile, che mette da parte le sue preoccupazioni e le sue urgenze per prestare attenzione, per regalare un sorriso, per dire una parola di stimolo, per rendere possibile uno spazio di ascolto in mezzo a tanta indifferenza. Questo sforzo, vissuto ogni giorno, è capace di creare quella convivenza sana che vince le incomprensioni e previene i conflitti. La pratica della gentilezza non è un particolare secondario né un atteggiamento superficiale o borghese. Dal momento che presuppone stima e rispetto, quando si fa cultura in una società trasforma profondamente lo stile di vita, i rapporti sociali, il modo di dibattere e di confrontare le idee. Facilita la ricerca di consensi e apre strade là dove l'esasperazione distrugge tutti i ponti”.
È significativo giocare ai sinonimi e contrari, perché in fondo alla gentilezza e alle parole in opposizione ognuno forse dà delle diverse sfumature che ampliano lo spettro. Cominciamo dai sinonimi: affabilità, affettuosità, amabilità, carineria, civiltà, cordialità, cortesia, educazione, fair play, garbo, urbanità. Si contrappongono: cafoneria, inciviltà, inurbanità, maleducazione, scortesia, scostumatezza, sgarbataggine, sgarbatezza, villania”.
Sarebbe interessante discutere a fondo sullo scenario che abbiamo di fronte a noi. Credo che ci siano molte ragioni a questo proposito per manifestare un certo pessimismo, che per altro resta un sentimento che non mi appartiene.
Tuttavia la vita quotidiana ci insegna come in effetti esista un’incapacità di avere in certi momenti quell’insieme di sentimenti che fanno da corona alla gentilezza.
Lo si vede, in modo plastico e fattuale, nei dialoghi sui Social, dove il gradiente della violenza si manifesta come una scelta di imbrattare le comunicazioni. Ci sono professionisti del genere per attitudine personale e ci sono i troll, termine che una volta riguardavano solo, protagonisti nelle leggende scandinave, gli abitanti demoniaci di boschi, montagne, luoghi solitari, transitati oggi, nel gergo di Internet, nella definizione di una categoria di utenti di una comunità virtuale, solitamente anonimi, che intralciano il normale svolgimento di una discussione, inviando messaggi provocatori, irritanti o fuori tema.
Questi ultimi - lo vediamo nella vicenda ucraina - sono organizzati con disegni veri e propri di disinformazione e vanno loro dietro pletore di stupidi e di maleducati a peggiorare la situazione.
Sarà forse severo ma realistico Giovanni Soriano, quando scrive: “I social network non istupidiscono la gente, ma consentono di evidenziarne la stupidità con un’efficacia mai raggiunta dagli altri mezzi di comunicazione. Ciò mi pare ormai assodato. Anzi, uno dei più grandi pregi dei social network è proprio quello di consentire all’osservatore distaccato di esaminare senza neppure sporcarsi le mani − tutt’al più turandosi il naso − le formichine umane quando sono intente a esprimere le loro “non idee”, i loro luoghi comuni, i loro sproloqui. Non bisogna tuttavia tacere anche un aspetto un po’ increscioso, per non dire deprimente, di questo enorme carrozzone virtuale, che è la patetica esposizione di sé stessi, mediante parole e immagini, da parte di milioni di morti viventi, i quali, per il fatto di poter rendere pubblica la propria nullità, si illudono di esistere”.
Gentilezza? Poca.

Le parole-slogan

Viviamo in un mondo che tende a semplificare le cose e e la brevità diventa la regola. Da sempre esistono gli slogan che dettano la linea.
La forza dello slogan la si capisce da bambini. Ancora oggi ricordo certi slogan del Carosello della mia infanzia. Tipo: “Brava brava Mariarosa” (lievito Bertolini); “Che c’ho scritto… JoCondor?” (Nutella); “È un’ingiustizia, però!” (Calimero per Ava); “È già mezzogiorno, mezzogiorno di cuoco” (carne Montana).
In politica ho spesso lavorato sugli slogan delle campagne elettorali, cercando la giusta chiave di lettura a favore dell’opinione pubblica.
Ricorda Federico Faloppa su Treccani la storia della parola “slogan”: “Derivato dallo scozzese (slogorne o sloghorne), voce a sua volta derivata dal gaelico sluaghghairm «grido di guerra», composto di sluagh «esercito» e gairm «grido», il termine è entrato in italiano – attraverso l’inglese – solo all’inizio del ventesimo secolo. Prima, come ricorda l’autore della voce Slogan nell’Enciclopedia dell’Italiano Treccani Andrea Viviani, in italiano si usavano sentenza e motto per esprimere lo stesso concetto, ovvero «formula sintetica, espressiva e facile da ricordarsi, usata a fini pubblicitari o di propaganda»”.
Oggi constatiamo come certe parole diventino slogan sinteticissimi e la loro fortuna nasce e tramonta in un battibaleno. Pensiamo al destino di “resilienza”, termine ormai abusato, il cui acme è nell'acronimo "PNRR", che per esteso suona come ”Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza" “.
Simona Cresti sulla "Treccani" cita sul tema della parola-slogan un altro autore: «Stefano Bartezzaghi la definisce "parola-chiave di un'epoca", sottraendola al rapido declino cui sarebbe destinata in quanto semplice "parola alla moda". "Resilienza" assume un valore simbolico forte in un periodo in cui l'accesso interpretativo più frequente alla condizione economica, politica, ecologica mondiale è fornito da un'altra parola, "crisi": lo "spirito di resilienza" rappresenta la capacità di sopravvivere al trauma senza soccombervi e anzi di reagire a esso con spirito di adattamento, ironia ed elasticità mentale”.
Esce dal palcoscenico “resilienza” e arriva, crescendo piano piano in potenza, la parola prezzemolino “sostenibilità” e si sta facendo con una tale prepotenza da diventare invadente e dunque antipatica.
Tutto ormai è “sostenibile”: dalle etichette delle merci più varie sulle scansie dei supermercati ai bilanci aziendali che devono dimostrare nei bilanci di sostenibilità quanto siano bravi nel complessivo rispetto per l’Ambiente.
In realtà “sostenibilità” è una vecchia storia, che gode di una ritrovata giovinezza, perché il concetto cominciò a diffondersi negli anni ‘80 e venne adottato ufficialmente a Stoccolma, in Svezia, nel rapporto “Our Common Future” pubblicato nel 1987 dalla Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente.
La Conferenza di Stoccolma ha attirato l’attenzione internazionale principalmente sulle questioni relative al degrado ambientale e all’inquinamento. L’attuale concetto di sostenibilità cominciò a diffondersi negli anni ‘80 e venne adottato ufficialmente a Stoccolma, in Svezia, nel rapporto “Our Common Future” pubblicato nel 1987 dalla Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente.
Successivamente, nel 1992 alla Conferenza di Rio de Janeiro sull’ambiente e lo sviluppo, detta anche Il Summit della Terra, i capi di Stato mondiali si sono riuniti affrontando per la prima volta a livello globale le emergenti problematiche ambientali. In questa occasione, il concetto di sviluppo sostenibile è stato consolidato come “uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”.
Da allora, il termine sostenibilità è stato incorporato e utilizzato dalla politica, dalla finanza, dai mass media e in mille altre attività. Sino all’attuale popolarità, prima che finisca anch’essa nel cassetto polveroso delle parole abusate, quando diventano troppo di moda.

L’accanimento da Cronaca nera

Anche io mi sono occupato, quando ero un giovane giornalista, della cronaca nera, come si chiama in linguaggio giornalistico per un’analogia fra il colore scuro con drammi e tragedie mai a lieto fine.
Tanti incidenti stradali, rari omicidi, qualche rapina, molti soccorsi in montagna, la giudiziaria nei suoi diversi aspetti: si è trattato per me di un’esperienza molto umana, che mi ha confermato nella pratica la banale constatazione di quanto le cattive notizie facciano…notizia. E, nel mio piccolo, ho sempre cercato di raccontare vicende difficili con garbo privo di sensazionalismo per rispetto a quel grumo di dolore e talvolta di follia che avvolge la morte.
Con l’evidente constatazione, anche nella recente vicenda di questo Alessandro Impagnatiello che ha barbaramente ucciso la compagna Giulia Tramontano al settimo mese di gravidanza, che si supera ormai con troppa facilità la soglia che trasforma il racconto in un giornalismo cialtrone e inutilmente curioso e indagatore.
Raccontare le vicende di “nera” ci sta, ma vedere chi ci sguazza fa venire il voltastomaco per la ricerca voyeuristica del particolare macabro o dell’ inutile pettegolezzo. “Chi l’ha visto?” - trasmissione nata con buone intenzioni - è diventato un programma che troppo spesso scava nel sottobosco della “nera”.
Ha scritto anni fa il giornalista e scrittore Michele Serra: «Il sospetto, dunque, è che l'angosciosa percezione di un salto di qualità del male e della violenza sia dovuta soprattutto a una assai più diffusa conoscenza di crimini sempre avvenuti, ma solo oggi diventati materia prima quotidiana di un sistema mediatico cresciuto in maniera esponenziale. Ogni frammento di orrore viene ingigantito, ogni urlo di dolore amplificato, su ogni singola variazione attorno all'orrendo tema della violenza dell'uomo sull'uomo vengono allestiti fluviali dibattiti. L'esile scia di sangue che i cantastorie trascinavano per piazze e villaggi è diventata il mare di sangue che esonda dal video: ma è sempre lo stesso sangue, probabilmente anche la stessa dose pro-capite, solo con un rendimento "narrativo" moltiplicato per mille, per un milione, per un miliardo di volte».
Voler ispezionare gli orrori offre forse un aspetto consolatorio rispetto alla propria vita, ma esiste qualcosa di malato nel vero e proprio accanimento che tracima e trasforma - il delitto di Cogne fece scuola - in discussioni oziose, ricostruzioni avvilenti, mancato rispetto per le vittime. Fu
Intendiamoci: una cronaca asciutta, circostanziata ma rispettosa non è inutile in sé. Lo ricordava ieri sul Corriere Dacia Maraini: ”Perché raccontare le violenze sulle donne, naturalmente in modo non morboso, aiuta a creare coscienza, fa capire quanto sia pericoloso non denunciare, non tenere le distanze da chi si mostra possessivo in maniera maniacale e morbosa. È vero, da quanto mi dicono, che sui social molti approfittano di queste occasioni per versare valanghe di fango sulle donne. Ma non identificherei i social con l’Italia intera. Ormai tutti hanno capito che si tratta di uno sfogatoio anonimo e meschino da prendere con le molle”.
Già questa violenza maschile, diventata un fil rouge insanguinato quasi quotidiano, fa orrore e apre a riflessioni inquietanti su noi uomini e sulle donne che subiscono la loro violenza. Così vale l’appello accorato della Maraini: “Teniamo presente che le donne spesso sono sole, plagiate, divise fra il bisogno di mantenere unita la famiglia e la voglia di ribellarsi all’interno di una comunità che spesso le condanna a priori. Perciò insistiamo sulla necessità di raccontare, di fare sapere senza vergogna quello che succede in molte famiglie italiane e denunciare prima che sia troppo tardi”.

Agire sul Clima

Seguo con grande attenzione e da anni, prima per altro che fosse diventato così di moda, il dibattito sul cambiamento climatico. Già nel 2002 con l’Anno internazionale delle Montagne ponemmo in prima fila la questione dell’impatto, dimostratosi veritiero, dell’aumento delle temperature sulle Alpi e su tutte le montagne del mondo con conseguenze a breve, medio e lungo termine.
Il mondo scientifico - e mi sono convinto della tesi - è quasi all’unisono d’accordo sulle gravi responsabilità umane in questa faccenda per l’incidenza delle nostre attività sull’equilibrio del nostro pianeta. Ho letto le ragioni dei negazionisti, quelli ragionevoli, ma non mi hanno convinto.
Trovo, tuttavia, che il dialogo sia necessario e per questo mi ritrovo con quanto scritto sul Foglio da quello spirito bizzarro, pur nella schiera degli scettici sul cambia climatico, che è Giuliano Ferrara.
Così scrive: “Bisognerebbe stipulare un patto di civiltà fra i green washers (quelli del riscaldamento globale) e i green bashers (quelli di noi che dissentono e si oppongono). Ora che si va verso il caldo estivo ma nel fresco relativo e a sorpresa dei primi di giugno, ora che la siccità è in riflusso e sulle alluvioni e bombe d’acqua si riflette con minore intransigenza eziologica (le cause antiche e recenti, le vere responsabilità nella manutenzione di fiumi e bacini), è forse il momento di un piccolo accordo provinciale di distensione intelligente (il mondo è strano e troppo vasto).
Non fa specie per noi che si registrino aumenti delle temperature medie e i fenomeni conseguenti, che si diffonda un misurato allarme, che si prendano misure. Dovreste voi riconoscere che i modelli predittivi apocalittici sono fallibili, che il clima e il meteo sono luoghi di contraddizione conoscitiva, che il contributo della macchina umana al funzionamento e all’equilibrio vitale della macchina naturale è discutibile, c’è e non c’è, può essere in parte o largamente sopravvalutato”.
Mi sembra un modo civile di porre le questioni è così prosegue Ferrara: “Noi comprendiamo l’allarme specie tra i giovani, e non escludiamo affatto si diffonda tra le mode e le stupidaggini estinzioniste un’autentica vocazione a curare il pianeta, sebben spicchi una tendenza ideologica o addirittura religiosa a un eccesso di visione (chi desidera visioni, diceva Max Weber, vada al cinema). Voi dovreste riconoscere che molte pulsioni concorrono spesso a una festa dell’infatuazione horror intorno al clima, e non sempre in modo razionale, non sempre sulla scia di dati sperimentali certi indicati da un numero ingente di esperti e istituzioni scientifiche.
Dovreste piantarla di riferirvi a Trump come al principe dei negazionisti, e di farlo in modo polemico rilanciando una dialettica destra-sinistra o populismo contro democrazia che non c’entrano niente con l’argomento. Qui per esempio si negava quel che ci sembrava giusto negare da quando Trump, il bellimbusto, aveva politicamente i calzoni corti, anzi era in mutande e sonnecchiava nei dintorni per lui proibiti dell’establishment di New York. Noi cercheremo di temperare il malessere che suscitano i green washers, così potenti nelle grandi conglomerate del marketing industriale e finanziario, o nelle strutture dell’onu e dell’unione europea, e volentieri rinunciamo a considerare un attentato alla prosperità le riserve e alcune misure di deterrenza delle conseguenze del riscaldamento, ora che anche il climato-fanatico Macron ha chiesto un fermo agli eccessi delle politiche verdi intese come colpi all’industrialismo e allo sviluppo”.
Confesso come Ferrara non sia del tutto convincente, ma accomodante, malgrado il suo carattere non sempre accomodante: ”La spocchia è cattiva consigliera, per voi e per noi. Bisogna limitarla, se non si possa del tutto eliminarla. Vero che una grande maggioranza istituzionale la pensa come i più estremi tra i climatofanatici, ma la scienza, come la poesia, non è democratica, non si contano i voti, si valutano le idee e i fatti. Giulio Betti del celebrato centro meteo Lamma ha per esempio valorizzato, forte delle sue convinzioni meteo-ambientaliste anche estreme, ma sempre porte con garbato senso dell’equilibrio, uno studio sulle alluvioni in Romagna che smentisce la ricerca delle responsabilità dirette dell’uomo in rapporto al clima. Ha subito rischiato il processo ideologico. Dall’altra parte, se il professor Franco Prodi con il suo bell’ingegno, le sue prove o testimonianze di carattere scientifico, il suo incanto finto ingenuo e il suo scetticismo vigile, afferma cose in controtendenza, e conclude sulla “bufala” del riscaldamento globale ragionamenti articolati e seri, bisognerebbe evitare di considerarlo, lui e i suoi simili che non mancano e non sono mancati in tutta questa storia, come un mattocchio o un isolato o uno che sa ma il suo sapere non conta. Ancora uno sforzo, per favore, approfittiamo del calo di dieci gradi delle nostre temperature di inizio giugno, prima del Solleone”.
Il tono è garbato, ma val la pena di dire che - convinto come sono che bisogna agire sull’incidenza degli impatti umani sul clima - che certe guerre ideologiche finiscono per creare ritardi e le contromisure possono, anzi devono essere trovate fra tutti coloro che hanno il sale in zucca.

Generazioni a confronto

Sempre difficile capire quale possa essere l’equilibrio in politica fra il vecchio e il nuovo.
Una prima lettura riguarda la politica stessa e il fatto accertabile di come gli scenari di fronte ai quali la politica si trova mutino con un’impressionante rapidità. Ciò avviene con la sgradevole impressione di rincorrere gli eventi e i problemi, che trasformano la politica nella goffaggine di chi avanzi nella neve alta o cerchi di raggiungere il largo durante una mareggiata.
Eppure è così.
Ho visto a suo tempo cosa significhi il nuovo, diventando deputato a 28 anni nella X Legislatura (1987-1992). Ora vedo il vecchio, all’orizzonte dei 65 anni, impegnato come assessore nella XVI Legislatura regionale in Valle d’Aosta.
Non ho mai ritenuta intelligente - e non solo perché Cicero pro domo sua - la celebre rottamazione di renziana memoria. E anche certo nuovismo fine a sé stesso rischia di essere una posizione stucchevole se intesa come una sterile guerra fra generazioni.
Ha detto il Presidente Sergio Mattarella, grande vecchio che dimostra con i suoi graffi periodici come l’esperienza conti: “I giovani si allontanano e perdono fiducia perché la politica, spesso, si inaridisce. Perde il legame con i suoi fini oppure perde il coraggio di indicarli chiaramente. La politica smarrisce il suo senso se non è orientata a grandi obiettivi per la umanità, se non è orientata alla giustizia, alla pace, alla lotta contro le esclusioni e contro le diseguaglianze. La politica diventa poca cosa se non è sospinta dalla speranza di un mondo sempre migliore. Anzi, dal desiderio di realizzarlo. E di consegnarlo a chi verrà dopo, a chi è giovane, a chi deve ancora nascere. La politica, deve saper affrontare i problemi reali, ha bisogno di concretezza”.
In questa nostra società che invecchia e molto rapidamente per via del crollo demografico bisogna giocare sullo scacchiere della politica con tutte le pedine e dare rappresentatività a quante più espressioni possibili.
Chi oggi - com’è avvenuto in Francia - vorrebbe bloccare ogni ragionevole allungamento dei tempi del lavoro (e l’Italia lo ha fatto) sembra non cogliere la realtà di una possibilità di vita allungata quale quella di oggi e di domani. Questo ha come conseguenza - fatti salvi i lavori davvero usuranti - una logica possibilità di restare pienamente attivo nella società.
Un processo che andrebbe meglio regolamentato negli anni che precedono la pensione e che dovrebbe aumentare la possibilità di operare quel passaggio di competenze e di consegne senza il quale avere accumulato conoscenze e esperienze rischierebbe di essere null’altro che un vuoto a perdere.
Mi capita di pensarci e di riflettere come quanto fatto in politica serve per capire meccanismi, studiare mentalità, smontare e rimontare problemi, guardare al mondo e al proprio orto, conoscere cose e soprattutto persone, sentirsi spesso sotto esame, imparare punti di vista.
Un bagaglio prezioso che si vorrebbe lasciare, anche solo in piccoli pezzi, a chi comincia, guardandosi attorno e sapendo che sarà lui stesso a crearsi la sua strada, ma chi ne ha già percorse tante può avere una sua utilità.
Non è presunzione, perché so bene che il passato e la tradizione possono avere una loro utilità, pur dovendo fare i conti con tante cose che cambiano così in fretta da rendere molti aspetti d’improvviso obsoleti. Certe cose, come metodi, approcci, letture dell’animo umano, idee immarcescibili restano piantati come dolmen di pietra che segnano il cammino e tornano sempre utili come borse per gli attrezzi o come quei medicinali di base che teniamo in casa per un loro pronto uso.

La Z di zanzara

Odio le zanzare. Già mi infastidisce la parola: viene dal latino zinzāla(m), voce imitativa del ronzio. Per gli spagnoli il simpatico termine mosquito (usato anche in inglese), derivato da mosca, che i francesi hanno trasformato in moustique.
Le odio perché sono una loro preda considerata gustosa dopo la puntura e, quando giri in certi Paesi, non è il fastidio, ma persino la paura di qualche malattia. Zanzare “estere”, che ormai, come la celebre Tigre, sono arrivate anche da noi e ci sono serate indimenticabili per colpa loro.
Ricordava l’etologa Isabella Lattes Coifmann: “Con l’olfatto e i sensibili termorecettori la zanzara sente l’odore e il calore che emanano dal corpo umano. Sibilando vola e cerca il posticino su cui posarsi tra un follicolo pilifero e l’altro, là dove affiorano sotto la pelle i capillari sanguigni. Appena l’ha trovato il suo ronzio cessa di colpo e lei sfodera in silenzio tutto il suo sofisticato armamentario di ferri chirurgici”.
Prosegue tipo film horror: “C’è n’è quanto basta per incidere la pelle, iniettarvi una goccia di saliva anticoagulante, leggermente irritante, e aspirare il sangue attraverso una finissima cannula. Se è particolarmente ingorda è capace di succhiarne una quantità pari a tre o quattro volte il proprio peso”.
La volta peggiore per me è stata quando mi sono trovato, nei pressi del Natale, con quella che pensavo fosse una semplice congiuntivite ad un occhio. Mi visitò ad Aosta un amico oculista che si entusiasmo, osservando il mio occhio: “Che bello, una filaria!”. Trattasi di un parassita, chiamato appunto verme dell’occhio, che ho visto appallottolato nel mio occhio. Per farmelo togliere sono finito ad Ivrea e il Primario che me lo doveva togliere mi chiese se d’estate ero stato al lago di Viverone. Alla mia conferma mi spiego che il vettore era la zanzara di una specie probabilmente arrivata dall’Africa. Giorni dopo, eccomi in sala operatoria: anestesia locale, luci spente per evitare che il ventaccio si nasconda in fondo all’occhio che si accendono d’improvviso. Il medico ravana nel mio occhio e dopo poco urla: “Si è rotto!”. Dopo l’operazione mi spiega di avergli tolto la testa (era lungo una decina di centimetri), con denti tipo Alien e che quindi, essendo morto, verrà riassorbito dai tessuti. Piccola avventura che mi ha reso ancora più antipatiche le già antipatiche zanzare.
Leggo ora su Le Monde un articolo su di loro, che trovo divertente, che parte da una triste constatazione: “Les moustiques sont de sortie. Partout en France, les insectes voraces perturbent les premiers désirs de barbecue. C’est le moment qu’ont choisi les chercheurs de l’Institut polytechnique et université d’Etat de Virginie – connu sous le nom de Virginia Tech – pour nous annoncer une mauvaise nouvelle : la plupart des savons parfumés que nous utilisons dopent l’appétit des femelles pondeuses – puisque ce sont elles, et seulement elles, qui piquent”.
Poi la spiegazione: “Professeur assistant dans l’université américaine et cocoordinateur de l’étude, le Français Clément Vinauger explique le mécanisme, décrit dans la revue iScience du 10 mai : « Les femelles moustiques ont besoin de sang pour obtenir les protéines nécessaires à la production d’œufs. Mais les femelles, tout comme les mâles, ont aussi besoin de sucres provenant de plantes pour obtenir l’énergie nécessaire à leur métabolisme. Pour trouver ces ressources, ils utilisent des composés volatils émis par ces dernières. Mais ce qui nous différencie d’autres animaux, c’est que, chaque jour, nous employons des produits cosmétiques ou d’hygiène, comme les savons, et les appliquons sur notre peau. » Des produits destinés à flatter nos narines, exhalant souvent de douces senteurs végétales. « Du point de vue des moustiques, nous sommes donc une ressource qui sent à la fois comme un animal et une plante, poursuit le chercheur. Cependant, l’effet de l’ajout de ces composés émis par les plantes à notre odeur corporelle sur la réponse des moustiques n’avait jamais été testé»”.
Interessante, ma trovo più stimolanti i metodi per farle fuori con orrore - immagino - di certi animalisti trinariciuti, che immagino potrebbero pure difenderle, le maledette zanzare.

Il futuro del Casino de la Vallée

Ho avuto sino a poco tempo fa all’interno della Giunta regionale la delega sulle Partecipate ed è stato un impegno interessante per capire meglio meccanismi di funzionamento di società più o meno importanti legate direttamente o indirettamente alla Regione Valle d’Aosta con partecipazioni maggioritarie o minoritarie, a seconda dei casi. Una sorta di galassia piuttosto variegata, che costituisce un sistema consolidato, che Valle d’Aosta però sempre attualizzato secondo le necessità.
Esperienza utile, che è stata in parte facilitata da esperienze pregresse, che aveva l’ambizione di poter avere - attraverso una sorta di cruscotto di controllo - sempre una visione puntuale di quanto accadeva e di gestire i rapporti con le società interessate con tempestività nel delicato equilibrio fra la loro autonomia e le responsabilità del controllo analogo su quanto è pubblico, nel rapporto giustamente dialettico anche con la locale Sezione di controllo della Corte dei Conti.
Ho seguito tra gli altri le vicende del Casino de la Vallée, che conosco bene nelle sa storia iniziata nel lontano 1947 e che è stato per molti anni e lo potrà essere ancora utile fonte di finanziamento per le casse regionali e che ha avuto un ruolo importante come datore di lavoro per generazioni di valdostani. Un’attività per molto tempo redditizia che si è ritrovato a inizio Legislatura, dopo vicende varie, di fronte al passaggio delicatissimo del concordato per evitarne il fallimento in un clima assai complesso anche per questioni giudiziarie, che si sono chiuse - in tema di responsabilità di alcuni amministratori regionali per le scelte assunte in passato - con una sentenza positiva e rassicurante della Corte Costituzionale che ha riaffermato spazi di libertà nelle decisioni possibili del Consiglio Valle.
Ora, pur mantenendo buona memoria di certe manovre avvenute, la Casa da gioco vede all’orizzonte 2024 la chiusura del concordato e il ritorno a pieno ad una operatività sul mercato e questo sta avvenendo con risultato di bilancio positivo di cui sono lieto, perché hanno smentito tante Cassandre che si sono adoperate in questi anni in un clima spesso avvelenato, che ha rischiato di portare alla chiusura, com’era avvenuto per la Casa da gioco di Campione.
Tuttavia, le scelte da fare - ad esempio con il dilemma fra proseguire la gestione pubblica e ritornare ad una gestione privata (ma la concessione per il gioco sarebbe sempre della Regione) - obbligano ad approfondimenti rapidi e a decisioni tempestive per il bene dell’azienda e dei dipendenti, che hanno compartecipato in questi anni con senso di responsabilità al salvataggio di un’azienda che in troppi davano ormai per decotta.
Non è un passaggio facile e i tempi sono stretti e obbligano a strategie chiare e definite in un mercato del gioco da capire bene per i mutamenti avvenuti spesso con rapidità, sapendo che ci sono denari da spendere per migliorare le infrastrutture e che ci vorranno scelte innovative, specie per attirare nuova clientela e in particolare i giovani, che difficilmente possono trovare attrattivi giochi che hanno ormai una loro veneranda età. Lo si deve fare, tenendo conto del territorio dove la Casa da gioco opera (e dunque un rilancio della cittadina di Saint-Vincent), ricordando che il Casinò, anche per il suo peso occupazionale, è una risorsa per la Regione tutta intera e per questo bisogna operare le scelte politiche necessarie in un dibattito aperto che non abbia sempre e solo logiche elettoralistiche. Va fatto guardando al futuro e sgombrando il campo dalle solite voci e dai pettegolezzi che da sempre ammorbano la Casa da gioco. Quel che conta è avere idee chiare e seguire la strada che verrà tracciata con grande decisione.

Pensieri del 2 Giugno

La democrazia è un sistema complesso, costruito nel tempo e come tale ha dovuto mantenersi vivo, affrontando profondi cambiamenti. Alternative migliori non si sono manifestate e per questo bisogna difendere l’esistente e lavorare per migliorare le regole dello stare assieme.
Tutto si gioca su equilibri: equilibrio fra maggioranze e opposizioni frutto del voto popolare e equilibrio fra i diversi poteri di un ordinamento democratico che si bilanciano per non uscire dal seminato. Esistono in questi solco equilibri interni fra poteri centrali e democrazia locale e le organizzazioni politiche, motore della partecipazione dei cittadini, devono garantire regole di convivenza interne e fra di loro.
Un meccanismo delicato e lo vediamo anche in antiche democrazie, ben più mature e rodate di quella italiana, che appare molto spesso al limitare di crisi più o meno forti. Ognuno può su questo avere le opinioni più disparate e approfitto dell’odierna Festa della Repubblica del 2 giugno per provare a citare qualche punto.
La prima questione, da cui si evincono molte cose dette e non dette, è la fragilità stessa di questa Festa, che ricorda il referendum del 1946 - che già fu litigioso persino per il conteggio dei voti - fra Monarchia e Repubblica. Analogamente purtroppo alla Festa della Valle d’Aosta, che dovrebbe ricordare l’emanazione dello Statuto di autonomia speciale del 22 febbraio del 1948, mentre questa ricorrenza è del tutto priva di qualunque reale partecipazione popolare. Sono solo le ”autorità” a fare qualche cerimonia mordi e fuggi con discorsi di circostanza e corone di alloro. Brutto segno se si compara a quanto avviene in vecchie democrazie, che hanno date sentite e partecipate anche dai cittadini. Sarebbe bene tornare - come già venne previsto da una legge regionale - al 7 settembre, , data in cui si metteva assieme l’antico e cioè la presenza in Valle d’Aosta dei Savoia per le udienze in occasione di San Grato, Patrono della diocesi, con il Decreto luogotenenziale del 1945, che è il seme da cui fruttò lo Statuto.
Seconda considerazione: possiamo riderci sopra oppure rimpiangere inutilmente epoche passate, ma resta indubbio e scolpito nei curricula che si assiste in Italia ad un lento degrado della qualità intellettuale e culturale della classe politica. Saranno pure i sistemi elettorali inefficaci, che nel caso del Parlamento privano ì cittadini di scelte reali, che fanno ormai a monte i partiti in vece loro. Ma basta seguire un dibattito nelle assemblee elettive vicine e lontane per chiedersi che cosa sia successo e questo apre uno squarcio sul perché tante persone capaci e meritevoli sfuggano e non si impegnino più nell’agone politico.
Infine vorrei segnalare la logica crescente dei leader politici in Italia di sfuggire al confronto diretto con i giornalisti, preferendo messaggi via Social diretti rivolti ai propri fans e questo crea un’evidente comfort zone per chi ha cariche pubbliche, sfuggendo di fatto a domande scomode ma utili.
Il male accomuna Giorgia Meloni, che spiega le sue ragioni in filmatini e il più noto è la camminata a Palazzo Chigi con culmine nella sala del Consiglio dei Ministri con i Ministri seduti come scolaretti, con Elly Schlein nuova leader del PD, che dopo il flop alle amministrative ha usato Instagram per rassicurare i “suoi”. La democrazia, invece, dovrebbe essere altro.
Lo ricorda bene Aldo Grasso sul Corriere: “Quando Silvio Berlusconi inviava le cassette registrate dei suoi interventi ai tg, lo faceva perché non voleva essere «tagliato», reinterpretato. Sosteneva che attraverso l’immagine tv il suo messaggio arrivava «forte e chiaro», senza manipolazioni. Adesso c’è la diretta Instagram. Per questo oggi molti politici, da Giorgia Meloni a Elly Schlein, preferiscono rivolgersi ai cittadini dai propri account personali, sia per sottrarsi alle domande dei giornalisti sia per evitare le interpretazioni dei medesimi. Possono entrare in gioco anche ragioni psicologiche: non tutti (plurale sovraesteso) hanno una forza carismatica per affrontare una conferenza stampa. Stiamo assistendo a un fenomeno epocale che ha già largamente investito le logiche del mercato e ora sta trasformando quelle del mondo della comunicazione. C’è stato un tempo in cui il passaggio delle dichiarazioni di un politico ai cittadini dipendeva in larga parte dai giornalisti”.
E aggiunge in chiusura: “Oggi la dinamica rischia di rovesciarsi: per ragioni tecnologiche e generazionali, il politico preferisce muoversi in un ambiente virtuale in cui la dinamica del potere fra politica e media è sbilanciata a suo favore. I social network, come ben sappiamo, permettono a chiunque di comunicare ai follower la propria opinione: la «disintermediazione digitale» ha accorciato le distanze tra gli attori coinvolti, spesso a scapito dei ruoli. Quindi la comunicazione viaggia su binari più sicuri? La proliferazione di informazioni online genera smarrimento e non tutti hanno la stessa capacità di comprensione del testo. Il politico si sente più «protetto» ma il cittadino è meno tutelato e si rischia anche di esacerbare un digital divide già esistente nelle diverse classi sociali”.
Giuste considerazioni.

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