Il “Tu” che deborda

Il grande Umberto Eco scriveva nel 2015 su di una questione che in questi anni si è pure accentuata e cioè l’uso ormai generalizzato e talvolta imbarazzante del “Tu”.
Ecco le sue osservazioni su la Repubblica: “La lingua italiana ha sempre usato il Tu, il Lei (al plurale Loro) e il Voi. Voi sapete che la lingua inglese (reso arcaico il poetico e biblico Thou) usa solo il You. Però contrariamente a quel che si pensa lo You serve come equivalente del Tu o del Voi a seconda che si chiami qualcuno con il nome proprio, per cui “You John” equivale a “Tu, John” (e si dice che gli interlocutori sono in “first name terms”), oppure il You è seguito da Mister o Madame o titolo equivalente, per cui “You Mister Smith” significa “Lei, signor Smith”. Il francese non ha Lei bensì solo il Tu e Vous, ma usa il Tu meno di noi, i francesi “vouvoyent” più che non “tutoyent”, e anche persone che sono in rapporti di gran confidenza (persino amanti) possono usare il Vous. L’italiano (e mi attengo alla Grammatica italiana di Luca Serianni, Utet) distingue tra i pronomi personali i pronomi allocutivi
reverenziali o di cortesia , che sono Ella o Lei o Voi. Ma la storia di questi pronomi è molto complessa. Nella Roma antica si usava solo il Tu, ma in epoca imperiale appare un Vos che permane per tutto il Medioevo (per esempio quando ci si rivolge a un abate) e nella Divina Commedia appare il Voi quando si vuole esprimere grande rispetto (“Siete voi, qui, ser Brunetto?”). Il Lei si diffonderà solo nel Rinascimento nell’uso cancelleresco e sotto influenza spagnola”.
Prosegue con la ben nota competenza: “Nelle nostre campagne si usava il Voi tra coniugi (“Vui, Pautass”, diceva la moglie al marito) e l’alternanza tra Tu, Lei e Voi è singolare nei Promessi sposi . Si danno del Voi Agnese e Perpetua, Renzo e Lucia, Il Cardinale e l’Innominato, ma in casi di gran rispetto come tra Conte Zio e Padre Provinciale si usa il Lei. Il Tu viene usato tra Renzo e Bortolo o Tonio, vecchi amici. Agnese da del Tu a Lucia che risponde alla mamma con il Voi. Don Abbondio da del Voi ad Agnese che risponde per rispetto con il Lei. Il dialogo tra Fra Cristoforo e don Rodrigo inizia col Lei, ma quando il frate s’indigna passa al Voi (“la vostra protezione…”) e per contraccolpo Rodrigo passa al Tu, per disprezzo (“come parli, frate?”)”.
Il Fascismo si era distinto con un’ovvia baggianata: “Il regime fascista aveva giudicato il Lei capitalista e plutocratico e aveva imposto il Voi. Il Voi veniva usato nell’esercito, e sembrava più virile e guerresco, ma corrispondeva allo You inglese e al Vous francese, e dunque era pronome tipico dei nemici, mentre il Lei era di origine spagnolesca e dunque franchista. Forse il legislatore fascista poco sapeva di altre lingue e si era arrivati a sostituire il titolo di una rivista femminile, Lei , con Annabella , senza accorgersi che il Lei di quel titolo non era pronome personale di cortesia bensì l’indicazione che la rivista era dedicata alle donne, a lei e non a lui”. Come non riderne?
Trovo su Le Monde un ideale proseguimento dei ragionamenti di Eco in una articolo di Clara Cini, che mostra l’affermarsi del Tu anche in Francia: “Délaissé du langage familial puisqu’on ne recense en France plus que 20 000 familles utilisant le « vous » – selon la sociologue Monique Pinçon-Charlot –, ce pronom se fait également rare dans le langage du recrutement : l’usage du tutoiement a presque doublé en quelques années dans les offres d’emploi selon le moteur de recherche Indeed. Les échanges contemporains témoignent ainsi de ce que le sociologue Baptiste Coulmont nomme une « culture du tutoiement », vécue tantôt comme une intrusion dans la sphère de l’intime, tantôt comme le relâchement salvateur d’un formalisme langagier”.
Interessante più avanti l’origine della vera e propria svolta: ”C’est après Mai 68 que l’usage du tutoiement s’amplifie de manière notable. En effet, on imagine malaisément les revendications et les devises du mouvement antiautoritaire déclinées au « vous », tel le célèbre « Sois jeune et tais-toi ! ». Refus de l’ordre sociétal et rejet du vouvoiement sont allés une fois encore de pair, infusant durablement les pratiques langagières. Selon le sociologue Jean-Pierre Le Goff, interrogé par La Croix, le tutoiement s’est généralisé dans les années 1970 selon une double dynamique : d’une part, une « évolution sociétale post-soixante-huitarde » aspirant à davantage de liberté, et, d’autre part, l’influence d’un « mode de management d’entreprise inspiré du monde anglo-saxon où tous les salariés sont mis sur le même plan d’implication », du moins en apparence”.
Concludo, a chiusura, con due interessanti citazioni presenti nell’articolo: “Dans La Plaisanterie, le personnage de Milan Kundera, Ludvik, déclare ainsi : « J’avoue ressentir une aversion pour le tutoiement ; à l’origine, il doit traduire une intimité confiante, mais si les gens qui se tutoient ne sont pas intimes, il prend subitement une signification opposée (…) de sorte que le monde où le tutoiement est d’usage commun n’est pas un monde d’amitié générale, mais un monde d’irrespect général. » Plus récemment, Frédéric Vitoux de l’Académie française tonne dans son « Eloge du vouvoiement » que « le “tutoielitarisme” est un totalitarisme » et que le « tu » « uniformise le langage et les rapports entre les individus »”.
Il dibattito è aperto, ma usi e costumi anche linguistici, cambiano.

Più vecchi e l’Europa

Ogni cosa ha il suo rovescio ed è giustamente il caso della crisi demografica in atto pesantemente anche in Valle d’Aosta. Nel senso che giustamente io stesso segnalo spesso le culle vuote e le loro conseguenze sull’assottigliarsi del numero dei giovani nella società futura. Ma è giusto anche riflettere, nella piramide rovesciata, sui molti vecchi (turbo il politicamente corretto…) di un mondo che poggerà su di un vertice sottile anche grazie al sacrosanto aumento della speranza di vita.
Siamo pronti a questa situazione?
Ricordo l’orizzonte valdostano 2036 studiato dal demografo Stefano Rosina. Per le classi di età fra i 20-64 anni si passerebbe dai 72.094 del 2021 ai 62.193 del 2036 e per gli over 65 dai 30.220 ai 37.095. Con il tasso di fecondità attuale la situazione peggiorerà nei decenni successivi in maniera ancora più marcata e si invertirà solo con apposite misure e aggiungerei anche con un cambio di mentalità rispetto a maternità e paternità.
Ho trovato assai interessante a proposito dell’invecchiamento quanto scritto da Niccolò Rinaldi, già parlamentare europeo sul Sito della Fondazione Ugo La Malfa:
“Le cadute peggiori sono quelle che avvengono molto lentamente, impercettibilmente, indolori. Una volta per terra, risollevarsi, chiede uno sforzo mentale oltre che fisico. L’Unione Europea sta scivolando verso la marginalità demografica, e nessuno – nella politica, nei media, nella società – pare accorgersene. Eppure i dati demografici sono noti: siamo la regione più vecchia del pianeta, nessuno è come noi, a parte il Giappone.  Presto la nostra popolazione sarà appena il 4% di quella del mondo, e l’attuale generazione di sessantenni è l’ultima a poter vivere in una società relativamente equilibrata nella distribuzione di fasce d’eptà. Nel 2070 un terzo degli europei avrà più di 65 anni, il 15% addirittura più di 80, e l’aspettativa alla nascita sarà di 90 anni per le donne e di 86 per gli uomini. La sostenibilità del lavoro e dei sistemi previdenziali, oltre che l’approvvigionamento di un’energia vitale della società, saranno assicurate in misura crescente dall’immigrazione. Non è un processo che si possa improvvisare”.
Già, meglio pensarci per tempo e non a caso da anni predico di muoverci nel solco di una norma d’attuazione che spinsi molto sulla questione della sanità integrativa.
Lo pubblico!
DECRETO LEGISLATIVO 24 aprile 2006, n. 208
Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 9 giugno 2006, n. 132
Norme di attuazione dello statuto speciale della regione autonoma Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste in materia di contributi per la copertura di oneri sanitari ed assistenziali.
Art. 1
1. La regione, in attuazione dell'articolo 3 dello statuto speciale e del combinato disposto dell'articolo 117 della Costituzione e dell'articolo 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, nel rispetto dei principi della legislazione statale in materia di assicurazioni sociali, d'assistenza sanitaria e di integrazione socio-sanitaria, puo' disciplinare con legge l'istituzione di contributi, anche obbligatori, a carico dei cittadini residenti nel territorio regionale, destinati alla costituzione di fondi assicurativi volti a garantire ai cittadini l'erogazione delle prestazioni sanitarie e socio-assistenziali previste dalla legge medesima.
2. La legge regionale disciplina le modalita' di accertamento e riscossione dei contributi, nonche' di gestione dei fondi di cui al comma 1, anche mediante affidamento a terzi nel rispetto della normativa comunitaria.
3. La regione puo' altresi' avvalersi, con oneri a suo carico, di enti nazionali operanti nel settore della previdenza e delle assicurazioni sociali o delle agenzie di cui all'articolo 73 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, sulla base di apposite convenzioni”.
Ma torniamo a Rinaldi e alle sue riflessioni: “Per questo la commissaria Dubravka Šuica ha proposto la creazione di un’Agenzia specializzata sulla Terza Età, sperando che le prossime presidenze di turno accolgano bene l’idea per attuarla entro l’anno prossimo. La signora Šuica onora il mandato della sua istituzione, che non è solo quello di fare il guardiano dei trattati, ma anche di guardare avanti, là dove la politica spesso non arriva, per preparare le grandi sfide della nostra società. Finora, tutto tace.
Per quanto l’allergia alla proliferazione di nuove istituzioni possa avere solide ragioni, la commissaria ne ha di più valide. Una risiede proprio nel silenzio con cui la proposta è stata finora accolta: l’Europa ha bisogno di darsi una scossa, di essere più consapevole di cosa l’attende, di cosa lei stessa sta preparando per il suo futuro prossimo, e un organismo permanente avrebbe quantomeno il merito di istituzionalizzare il dramma dell’invecchiamento della società, con un ruolo di monito e di proposte.
Se il mandato accordato a questa agenzia fosse corrispondente all’entità del problema, le mansioni non mancherebbero. L’Europa deve affrontare una transizione verso una società che oltre a essere più vecchia di per sé, lo sarà ancora di più  al cospetto di quasi tutte le altre regioni del mondo. E questo è un fattore capace di condizionare le politiche commerciali e forse anche quelle di sicurezza dell’Unione. L’intelligenza artificiale avrà un ruolo insostituibile nella mobilità, nella connettività e nella medicina. L’organizzazione del sapere – dalla formazione di profili professionali alla stessa industria della cultura e dell’intrattenimento – andrà ridefinita, così come molta parte della logistica e dell’offerta commerciale.
Oltre gli aspetti pratici, vi sono poi quelli macroeconomici, produttivi, finanziari, e l’aggiornamento dell’identità europea – tra le mille cose, sarà forse sempre più difficile anche vincere medaglie alle Olimpiadi?”.
Un’ultimo passaggio illuminante in un periodo in cui una parte della Destra italiana, quella più estrema, si è lanciata sull’orrore della “sostituzione etnica”: “Quanto alle politiche migratorie, tanto quelle in entrata quanto quelle dei giovani in uscita, saranno sempre più condizionate dal fattore Terza Età, per questo dovranno essere ridisegnate uscendo dall’attuale improvvisazione. E ribaltando certe percezioni: l’Europa avrà bisogno di essere attrattiva – e non è detto che non mancherà la concorrenza.
Soprattutto, l’Europa ha già bisogno, da adesso, di leggere la sua storia futura e di impostare molte scelte politiche pensando a quanto più vecchia sarà presto la sua popolazione. È il senso della proposta della commissaria, che ha anche evocato le politiche urbanistiche del territorio, allargando le possibilità di vita nelle campagne sia per gli anziani che per le giovani famiglie, tutti sempre più in difficoltà nelle città. Oggi l’80% del territorio dell’Unione è zona rurale e ospita appena il 30% della popolazione, anche per la scarsità di servizi primari e secondari. Šuica ha suggerito che basterebbe creare una wi-fi di campagna e le cose cambierebbero drasticamente, permettendo ai più giovani di lavorare a distanza, ai più anziani di vivere e farsi curare con maggiore qualità della vita. Forse, potrebbe essere la prima decisione della nuova agenzia. 
Ma ancora più arduo è affrontare il primo dei problemi, ovvero il rovesciamento del ruolo dell’anziano europeo, un tempo depositario di un sapere e capostipite di una comunità e oggi sempre quantitativamente maggioritario ma, per la minore capacità di continuo aggiornamento, considerato qualitativamente marginale. Che poi è la ragione dell’assenza di dibattito”.
Parole sacrosante.

Acronimi e leggi oscure

Capisco - e lo dico subito - di non poter fare troppo lo spiritoso rispetto al tema odierno. Per la semplice ragione che ho nella dizione del mio assessorato PNRR e tra poco capirete il perché.
Ha scritto, infatti, Salvatore Merlo suo Foglio, evocando anzitutto l’ennesima gaffe (in italiano “topica”) di certo nazionalismo all’amatriciana di Fratelli d’Italia: ”Fabio Rampelli voleva rendere più comprensibili le leggi e i provvedimenti impedendo l’uso delle parole straniere. Tuttavia a noi pare che le parole straniere siano talvolta l’unica cosa più o meno comprensibile della Pubblica amministrazione e del linguaggio legislativo. Prendiamo l’ultimissima notizia relativa al Reddito di cittadinanza, quello che il governo Conte chiamava “Rdc” e che il governo Gentiloni, altro esempio di schiettezza espressiva, aveva all’incirca già introdotto (ma battezzato col nome di “Rei”, che non è né la protagonista di Star Wars né la versione catanese di Ray Charles). Ebbene anche il governo Meloni ha dato il suo estremo contributo. Con una riforma. Che suona all’incirca in questo modo, state bene attenti: “Il Reddito di cittadinanza viene ora diviso in Pal, Gil e Gal a cui si accederà attraverso la piattaforma Siisl da tradurre poi nel progetto Gol”. Arrivati a questo punto riteniamo probabile che per formare un autore di acronimi legislativi ci voglia un allenamento che inizi sin dalla più tenera infanzia, in scuole apposite”.
Noto, come annotazione, che - per chi ama il francese, ma so che capita anche in inglese - questa storia degli acronimi è vecchia come il cucco, mentre da noi ha cominciato a dilagare nel tempo e ormai si è diffusa come un virus e rende difficile il dialogo. Quando mi occupavo di scuola e oggi che mi occupo di innovazione, mi trovo chiuso nella morsa di sigle varie, che devono apprendere per non perdersi e mi accorgo con orrore di adoperarle io stesso troppe volte!
Ancora Merlo: “Sarebbe altrimenti impossibile spiegare questa prodigiosa fioritura di talento (a volte di genio) che attraversa in maniera trasversale il nostro ceto politico e amministrativo: Aato, Aec, Avcp, Atem, Ato, Bat,bit, Bod, Cimo, Cial, Cip, Dps, Dpr, Dpf, Fsn, Fos, Fnps, Gpp, Gui, Ipl, Ires, Isee, Liveas, Pum, Put, Pul, Pai, Pci, Ruc, Ruc, Rd, Sis, Sit, Soa, Tari, Trise, Tuir, Upi, Urp, Uo... E adesso anche “Pal”, “Gil” e “Gal”, che sembrano i tre elfi di Tolkien. Per raccapezzarcisi ci vorrebbe un nuovo “Vli” (vocabolario della lingua italiana). E pare quel racconto di Ennio Flaiano, quando il vecchio che è andato a colonizzare la Luna ricorda senza rimpianto la Terra: “Troppi verbi, troppi concetti. Sulla Luna abbiamo una sola lingua. Per mangiare diciamo ‘gnam’, per bere ‘bomba’ e per dormire ‘dodò’”. Ciascuno di noi (idraulico, medico o banchiere) fa un mestiere il cui successo si basa anche sulla fiducia che gli altri hanno nella nostra capacità di avere opinioni chiare e di esprimerci in maniera comprensibile”.
Ma fossero solo gli acronimi a metterci all’angolo, personalmente noto come le leggi, i regolamenti, le circolari siano scritte con i piedi e il burocratese dilaghi e renda difficile si cittadini la comprensione e ci vorrebbe una App che consentisse di avere traduzioni terra a terra. Esiste un sadismo di certi “scrittori” e talvolta questa oscurità è una scelta apposita per consentire comode interpretazioni, spesso espansive sul lato della spesa.
Chiosa il commentatore: “Che sia incomprensibile lo stato, comincia a diventare un affare serio. E non è certo un caso se già nel 1993 Sabino Cassese, ministro della Funzione pubblica, riunì un gruppo di linguisti per dare alle stampe un dizionario utile, ma ampiamente disatteso, a tradurre in maniera comprensibile i testi delle leggi. Rampelli in fondo voleva dire questo, crediamo. Ma non se la doveva prendere con l’inglese: è l’italiano che non si capisce”
Scrisse il mio amico, Roberto Zaccaria, che si trovò a presiedere il Comitato per la Legislazione in Parlamento, che avrebbe dovuto vigilare su questo: “Come sembrano lontani i tempi in cui l'Assemblea costituente decise di affidare ad alcuni eminenti scrittori e letterati il compito di controllare il testo finale della Il controllo sulla lingua dei testi di legge si lega intimamente al controllo dei concetti e delle categorie giuridiche: la scelta linguistica del legislatore coincide immancabilmente con una scelta di impianto logico e valoriale.
Adolf Merkl sosteneva che la lingua «non è affatto una vietata porticina di servizio attraverso la quale il diritto s’introduce di soppiatto. Essa è piuttosto il grande portale attraverso il quale tutto il diritto entra nella coscienza degli uomini».
In definitiva è proprio attraverso la buona scrittura delle leggi che il legislatore può perseguire effettivamente ed efficacemente l’obiettivo politico che si prefigge”.

Il Nord Ovest e il rebus dei trafori

Leggo sempre con curiosità e a volte con stupore quanto si dice e si scrive sul Traforo del Monte Bianco, di cui credo di essere - e non solo per una questione anagrafica - fra i pochi che ne hanno studiato la storia sin dalla progettazione e a conoscere anche le vicende degli ultimi 40 anni, che sono interessanti e servono a districarsi.
Curiosità: perché il Bianco fa parte di un sistema complesso dei trasporti in particolare a vantaggio del Nord Ovest, ma in realtà a servizio di diverse rotte. Nel nostro caso gran parte del traffico che ci riguarda ruota attorno al valico di Ventimiglia, al traforo del Fréjus (raddoppiato alla fine di quest’anno) e appunto al nostro traforo, che aprì nel 1965 per il solo traffico turistico ed è stato, infine, assaltato dal traffico pesante.
Stupore: quando si mischiano i lavori obbligatori da fare sul tunnel perché invecchiato (e dunque necessitano interventi strutturali profondi con chiusura di tre mesi per circa 18 anni con le attuali tecnologie) con l’eventualità discussa da tempo del raddoppio. Scelta che riguarderebbe, se fosse in parallelo, un orizzonte di almeno 10 anni per scavarlo (per il Fréjus ne sono occorsi una dozzina da inizio lavori) e dunque non c’entra con la modernizzazione indispensabile e urgente di quello già in esercizio. Non bisogna mischiare le mele con le pere.
Sul raddoppio i francesi, con cui va stipulato un accordo internazionale ratificato dai rispettivi Parlamenti e bisogna concordare il progetto, non ci sentono e mi pare che segnali di apertura Oltralpe non ci siano. A meno che non ci siano trattative in assoluta segretezza e un’inversione a U dei nostri cugini.
Pure la nuova direttiva sulla Rete Transeuropea dei Trasporti (di cui fa parte il Bianco), appena votata dal Parlamento europeo e che ora va al trigono con Commissione e Consiglio, non fa cenno - purtroppo, mi vien da aggiungere - a opere su questa direttrice e dimostra un’inerzia che non è certo colpa dei valdostani.
Tocca all’Italia e alla politica nazionale porre la questione a Parigi e a Bruxelles, evitando atteggiamenti muscolari ma trovando una soluzione ragionevole. Personalmente dubito - ma si tratta di una posizione personale, ma motivata - che la soluzione possa essere il raddoppio in parallelo del traforo attuale.
Sapendo che le linee dell’Unione europea obbligano all’utilizzo di metodi intermodali che sono la stella polare della politica comunitaria, specie per l’attraversamento della barriera alpina.
Lo dico con pieno rispetto per chi crede, invece, che il dossier sia facile e che i francesi saranno malleabili sul punto e che i politici che chiedono, come me, decisioni rapide ma concertate siano dei perdigiorno. Chiedo solo che chi ne discute lo faccia conoscendo le cose e non con posizioni fotocopia tipo catena di Sant’Antonio, fatte di mugugni e pure di un vago disprezzo per chi afferma quanto il dossier sia complesso. Personalmente non sono certo per rallentare ma per accelerare, sapendo che una soluzione va trovata in fretta, perché i tempi sono lunghi per fare dei trafori ovunque li si posizionino.
Esiste a questo proposito un tema capitale che spinge a decidere e cioè la possibilità che la famosa nuova direttrice ferroviaria Torino-Lione (uno degli alibi francesi per non decidere) possa essere completata solo nel 2045 (ho scritto giusto!) e non nel previsto e già tragico rispetto alle previsioni 2034.
Cito una parte di articolo di Batiactu: ”Alors que le Gouvernement travaille à une nouvelle trajectoire de ses investissements dans les mobilités, les élus des territoires traversés par le Lyon-Turin ferroviaire s'inquiètent de la proposition du Conseil d'orientation des infrastructures de reporter la livraison des voies d'accès au tunnel de base. Une soixantaine de parlementaires de tous bords ont choisi d'interpeler le président de la République, pour "lever les pesanteurs" qui freinent le projet”.
Traggo da altra fonte, Lyon Capitale: “Le Comité d’orientation des infrastructures (COI) a rendu son rapport sur les projets de transports à la Première ministre Élisabeth Borne. Or cette dernière a annoncé prendre pour base de travail le scénario de "planification écologique". Ce dernier propose de multiples mesures en France, dont certaines sur le Lyon-Turin. Parmi celles là : repousser la construction de nouvelles voies d'accès au tunnel transfrontalier à 2045 et donner la première place à la modernisation de la ligne existante entre Dijon-Modane”.
Commento importante: ”La Transalpine, l’association réunissant les acteurs défendant le Lyon-Turin, a réagi : "les propositions alternatives du COI tendent à pérenniser, sur la base de calculs théoriques à mille lieues des réalités ferroviaires locales, la ligne historique Dijon-Modane qui ne correspond en rien aux engagements de la France ni aux objectifs de report modal du Lyon-Turin tel qu’il a été conçu avec nos partenaires internationaux." Elle déplore aussi "le risque d’une telle aberration écologique et économique qui fait peu de cas de l’avis des parlementaires et des collectivités des territoires concernés, des acteurs économiques, des opérateurs ferroviaires, de la Fédération Nationale des Associations d’Usagers des Transports, de l’Union internationale du transport combiné rail-route."
Insomma: è ora di muoversi e basta con questa storia dei poteri locali che boicotterebbero. Bene compartecipare alle scelte, ma certe responsabilità nazionali ed europee riguardano altri soggetti e il caso di scuola della Val di Susa, cui si sta affiancando la protesta della Vallée de la Maurienne, dimostra che le popolazioni vanno comunque coinvolte.

La crisi dei Parlamenti

I parlamenti sono il pluralismo politico per eccellenza e luogo, laddove beninteso ci sia la democrazia, nel cuore delle discussioni politiche e soprattutto fabbrica produttiva della legislazione.
Chi ha, com’è capitato a me, sperimentato diverse assemblee elettive ha goduto della ricchezza delle personalità varie che fanno parte di queste istituzioni. So bene come ci sia di tutto, ma questa è proprio la logica della rappresentanza, che è specchio riflettente, nel bene e nel male, di quanto c’è nella società.
Ma la crisi oggi è profonda. Ne ha scritto sul caso italiano ma non solo su Repubblica il costituzionalista Michele Ainis:
“C'era una volta il Parlamento. Adesso rimane la parola, non la cosa. Ne è prova, per esempio, la legge sull'equo compenso dei professionisti, approvata il 12 aprile: la prima e l'unica legge d'iniziativa parlamentare giunta in porto durante questi sei mesi di legislatura. Guarda caso, prima firmataria Giorgia Meloni. Che è anche a capo del potere esecutivo, lo stesso esecutivo che ha deciso le altre 34 leggi firmate dalle Camere, o meglio scritte sotto dettatura.
Leggi di delega (al governo, e a chi sennò?), leggi di bilancio predisposte dal governo, e in 29 casi leggi che convertono decreti del governo. Da qui uno scambio di ruoli: il potere esecutivo legifera, il potere legislativo esegue. E il decreto legge - concepito per fronteggiare situazioni straordinarie - diventa lo strumento ordinario della legislazione”.
Non si stupisce chi per anni ha visto la crescita dello strumento del decreto legge e lo svuotamento della democrazia anche per eccesso del ruolo dell’esecutivo e questo avviene senza riforme costituzionali vere e proprie.
Lo ricorda bene Ainis: “Non che il fenomeno s'affacci all'improvviso: l'abuso dei decreti dura da decenni. Né che rimanga circoscritto alle nostre latitudini, giacché il predominio dei governi - in tempi d'emergenza permanente - avviene in molti altri sistemi. Ma in Italia avviene a lettere maiuscole, destando tuttavia una minuscola attenzione”.
Apro una parentesi. Chissà se i paladini dell’elezione diretta del Presidente della Regione in Valle d’Aosta ragionano su questa aria dei tempi così pesante per le assemblee, comprese quelle regionali, che sono state frustrate dal presidenzialismo imperante? Chiusa parentesi.
E torniamo ad Ainis: “Così, nei principali Paesi europei (Francia, Regno Unito, Spagna, Germania) la percentuale di leggi d'iniziativa parlamentare si aggira intorno al 20 per cento; il Parlamento italiano ne ha battezzata una su 35. Molto peggio che in passato, dato che nella legislatura scorsa furono approvati, bene o male, 40 progetti di legge proposti da deputati e senatori.
Nel frattempo si gonfia a dismisura l'otre dei decreti. Come attesta l'Osservatorio sulla legislazione della Camera: i 61 decreti legge convertiti nel primo triennio della XVII legislatura contavano 3 milioni e mezzo di caratteri; quelli convertiti durante i primi tre anni della XVIII legislatura superano 5 milioni e mezzo di caratteri”.
Pessimo l’uso, orrendo pure il lessico ingarbugliato con cui si scrivono le norme: ”Mentre il decreto sull'energia del 30 marzo scorso - per dirne una - usa 9 mila parole, congiunte in filastrocche impronunziabili, come quella con cui s'apre l'articolo 15: "Sino all'adozione dell'intesa di cui al comma 2, e comunque non oltre sei mesi dall'entrata in vigore della presente legge, si applicano le disposizioni recate all'articolo 6-bis del decreto-legge del 23 luglio 2021, n. 105, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 16 settembre 2021, n. 126 e all'articolo 13 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27" “.
Incredibile, davvero!
Conclude Ainis: ”Ma il problema non sta solo nella lingua arcana del diritto - altro malanno cui non prestiamo più attenzione, per rassegnazione o per disperazione. Tocca piuttosto la democrazia italiana, che ha (dovrebbe avere) nel Parlamento il suo santuario. Perché quest'ultimo è l'unico luogo delle istituzioni dov'è rappresentata pure l'opposizione, oltre alla maggioranza di governo; se perde la voce, viene silenziato anche il dissenso.
Perché il Parlamento è lo specchio del Paese, mentre l'esecutivo ne riflette soltanto una frazione. E perché le Camere deliberano con una discussione pubblica, il Consiglio dei ministri decide in gran segreto. Quando decide, giacché l'officina dei decreti si trova piuttosto negli uffici legislativi dei ministeri, sono loro gli oscuri meccanici delle regole che abbiamo sul groppone.
E le conseguenze ci riguardano, benché i più non ci facciano caso. Lo spettacolo d'un Parlamento perennemente litigioso ma in realtà prono ai voleri del governo; del tutto incapace d'iniziative e di proposte autonome; per giunta generato con il perverso sistema delle liste bloccate, che vietano agli elettori di scegliere gli eletti - ecco, è questo spettacolo che ha allevato il nostro disamore.
Però la crisi di fiducia sulle assemblee parlamentari mina pure la fiducia in noi stessi, ci allontana gli uni dagli altri, ci impedisce di riconoscerci come un popolo unitario, avendo perso la rappresentanza unitaria delle nostre diverse solitudini.
Per uscirne fuori servirebbe una riforma, un cambio di stagione che rivitalizzi il Parlamento; ma la paralisi delle assemblee legislative blocca ogni tentativo di riforma, e d'altronde la riforma - se viceversa fosse licenziata - negherebbe l'antefatto, ovvero l'impotenza delle medesime assemblee. Un doppio paradosso, una maledizione al quadrato”.
Mutatis mutandis, queste ultime righe vanno a pennello anche per la Valle d’Aosta.

Dialogo fra generazioni

Invecchiare è una rottura di scatole, ma è sempre meglio che essere morto. Constatazione lapalissiana, ma di cui ti rendi conto appunto solo invecchiando. Quando ti accorgi, come su di una scacchiera, di quanti pezzi scompaiano attorno a te e tu - per tua fortuna - sei rimasto ancora lì.
Più vai avanti e più - immagino - questa sensazione si rafforza. Ricordo mio papà, per sua fortuna ultraottantenne, quando diceva nell’ultimo tratto della sua vita quanto gli mancassero e lo diceva con sincero sgomento tutti gli amici scomparsi e anche i suoi fratelli e sorelle che lo avevano lasciato solo.
Mi riconosco in due frasi. La scrittrice e filosofa Susan Sontag: “La paura di invecchiare viene nel momento in cui si riconosce di non vivere la vita che si desidera. Equivale alla sensazione di abusare del presente”.
E il grande Albert Einstein in una lettera allo psichiatra Otto Juliusburger: “Le persone come Lei e come me, anche se ovviamente mortali, non invecchiano nemmeno se vivono molto a lungo. Intendo dire che non smettiamo mai di osservare come bambini curiosi il grande mistero nel quale siamo nati”.
Ci penso ogni volta che incontro le giovani generazioni. L’ho sempre fatto e, avendo cominciato prima a fare il giornalista (mantenendo sempre aperta questa porta) e poi politica quando ero poco più che ragazzo, c’è stato un lungo periodo in cui il giovane ero io rispetto al mondo che vivevo. Quindi convivevo in ambienti in cui erano tutti più “grandi” di me con la straordinaria sensazione di poter acquisire, come una spugna che si imbeve, le tante cose che sapevano e, nel contempo, mantenere un rapporto stretto e facile con i miei coetanei e il “nostro” modo di pensare.
Oggi naturalmente questa osmosi bicefala non esiste più e spero di poter essere considerato chi ha esperienza e riesce a trasferirla ad altri, affinché quanto ho appreso non resti un mio fatto personale, ma possa in qualche maniera risultare utile nel trasferimento delle competenze acquisite per quello che ho fatto nella mia vita.
Ci pensavo in queste ore - ma il pensiero è ricorrente in molte altre occasioni quotidiane - in cui sono stato con alcuni ragazzi in visita ad Auschwitz e ha avvertito naturalmente il venir meno di quella facilità di dialogo che avevo decenni fa. Mano a mano che ti allontani dalla età giovanile e meno arrivi a capire le trasformazioni mentali e sociali di chi è giovane oggi e bisogna sforzarsi di evitare di diventare un laudator temporis acti. È orribile qualunque approccio meramente nostalgico e lo odiavo quando ventenne incontravo chi viveva solo di ricordi e cercava in più di sostenere l’esistenza di un passato sempre migliore del presente, creando un solco spesso incolmabile fatto di reciproche incomprensioni. Una puzza di naftalina insopportabile e spesso con la presunzione e la sicumera di indicare a chi è più giovane strade ormai incoerenti con i cambiamenti avvenuti e in corso.
Mentre, per non spezzare il filo del dialogo reciprocamente utile, ci vogliono comprensione e umiltà, sapendo quanto è o sarebbe utile evitare un mondo in cui il nuovismo sia un esercizio inutile. Mi spiego: è ovvio che molto cambi e le innovazioni di tutti i generi sono per fortuna una delle forze della nostra umanità, ma il passaggio di testimone fra generazioni deve avvenire senza buttare via improvvidamente quanto di utile c’è stato e il patrimonio di conoscenze va considerato un’utile eredità su cui ogni epoca deve costruire un proprio modo di essere. Così è sempre stato.
Ecco perché ad Auschwitz e Birkenau ho detto ai giovani presenti quanto può apparire banale, ma non lo è affatto. E questo è avvenuto dopo una visita lunga e accurata grazie ad una guida competente, che ha ricostruito senza omissione alcuna quanto avvenne nel campo di sterminio non solo nei suoi aspetti descrittivi, ma anche morali e politici.
E cioè, con grande semplicità, di fronte a certe categorie contrapposte e pur complesse, tipo Odio-Amore e Male-Bene, bisogna tenere fissa una bussola che ci indichi la via positiva lungo la quale si debba far scorrere la nostra esistenza. Altrimenti si rischia, in occasioni in cui si vede con chiarezza come il Male e l’Odio abbiano fatto dei danni terrificanti, di diventare e sentirsi pessimisti o depressi.
Senza indulgere a pensieri troppo da lieto fine che dipingano un mondo a tinte sempre colorate, è bene che si dica chiaro e forte, come un messaggio da trasferire e in cui credere, che bisogna battersi sempre e in modo indefesso affinché i “cattivi” sin da subito non vincano o almeno, alla fine di tribolazioni, vengano sconfitti.

Auschwitz resta Auschwitz

Torno ad Auschwitz (Oświęcim in polacco) per l’ennesima volta con scolaresche valdostane, accompagnato - come già avvenne con il resto della famiglia - da Alexis, l’ultimogenito. Ho già scritto come questo avvenga per tre ragioni, che ricordo brevemente.
La prima è una scelta, che presi quand’ero Presidente della Valle, e cioè quella di portare ogni anno degli studenti valdostani nel luogo più abietto dell’Olocausto voluto dai nazisti. Si tratta, precisando ogni volta l’orrore per qualunque parallelo totalitarismo, di ricordare come la Shoah (termine preferito dagli ebrei) mantenga una sua particolarità. Non si tratta solo di persecuzioni antisemite, ma di un piano orchestrato da Adolf Hitler per un’eliminazione del popolo ebraico, detta “soluzione finale”. Vero è che i lager ospitarono anche dissidenti politici, omosessuali, zingari in una logica persecutoria, ma la macchina dello sterminio nacque in modo rozzo e poi divenne sofisticata per uccidere e bruciare gli ebrei di tutta Europa. Questa resta una singolarità terribile e marcante, che sfugge a qualunque tentativo negazionista, revisionista o benaltrista.
La seconda ragione è che visite di questo genere sono come una vaccinazione contro le dittature e i regimi a diverso titolo liberticidi. Chi visita un lager ne esce pieno di commozione e di emozioni e non può che riflettere su certi fatti documentati e sulla condizione umana quando torture, uccisioni, esperimenti spaventosi, crudeltà inutili trasformano gli uomini in animali feroci e in burattini nelle mani di matti al comando.
La terza ragione, che molti lettori già sanno, è che mio papà ci finì ad Auschwitz per un certo periodo, perché internato con altri militari valdostani che non avevano raggiunto la Repubblica di Salò nelle mani dei tedeschi. Per questo fu portato lì e comprese quanto avveniva e lo raccontava, anni dopo, con evidente raccapriccio, essendo stato ferito nell’animo per sempre da questa esperienza.
Ecco perché i suoi nipoti devono sapere, ammirando quel loro nonno, uomo probo che accompagnava prima di quel viaggio ebrei che cercavano la libertà in Svizzera attraverso i colli delle nostre montagne valdostane.
Ad Auschwitz si è come nudi, impotenti, spaventati, indignati, piangenti, svuotati: tanti stati d’animo che emergono dai racconti delle guide, dalle sensazioni nell’attraversare i luoghi, guardare le camere a gas, capire i percorsi dai vagoni piombati al fumo dei camini, i riti fra il grottesco e il sadico, la morte che aleggia.
Rivedo la foto di mio papà arrivato ad Auschwitz, appena ventenne, con una blusa con numero e lo sguardo fisso: l’inizio di un lungo anno, terminato poi a Cracovia con una fuga avventurosa. Sappiano i miei figli di Sandrino precipitato nel cuore di uno dei luoghi spaventosi della Seconda guerra mondiale, che deve convincerci ad essere contro la guerra e contro chi - pensiamo a Putin - oggi l’alimenta in un progetto espansionista contro l’Europa unita.
Lo sappiano i miei figli per combattere chi ritorna da quel passato, incarnato in neofascisti e neonazisti, che falsificano la Storia, che tornano con nostalgia a quanto dovrebbe essere sepolto per sempre e essere solo oggetto di vergogna e di rigetto. Questo vale - lo ridico - per ogni altra persecuzione, strage, genocidio, privazione della libertà, razzismo e xenofobia e ogni altra bruttura in questi medesimi solchi. So bene dei gulag, dei campi di rieducazione, delle foibe, delle lotte tribali e etniche, delle stragi degli armeni, della distruzione delle popolazioni indigene, di chi fugge dai propri Paesi perché perseguitato, di chi scappa per fame e per paure. L’elenco è purtroppo incompleto e come nel quadro su Guernica di Picasso potremmo aggiungere elementi a questo affresco così tragico.
Ma Auschwitz resta Auschwitz come simbolo da visitare e capire. Si esce come se si fosse trattato di un viaggio al rallentatore, avvenuto in un luogo apparentemente surreale e invece terribilmente reale: una full immersion da choc che ti rende migliore.

I truffatori del culto mariano

Da ragazzo lessi - forse su quella bizzarra rivista che avevamo a casa, che si chiamava Selezione dal Reader's Digest - la storia del famoso medico di Lourdes, Alexis Carrel, premio Nobel della medicina. Era agnostico, ma divenne cattolico fervente, perché - come scrisse nel suo libro più famoso firmato Lerrac (Carrel al contrario) - era stato testimone di veri e propri miracoli avvenuti su malati in visita nel celebre santuario dedicato alla Madonna, dopo le ben note apparizioni.
Quando sono stato a Lourdes in visita, pieno di racconti di conoscenti che ci erano stati, sono rimasto impressionato dai luoghi e dalla forza mistica della devozione popolare. Il commento più acuto, però, lo fece il piccolo Alexis, fresco di catechismo, che - nelle vie piene di negozi con cianfrusaglie al limite del kitsch - se ne uscì con candore, dicendo: “Ma Gesù non voleva cacciare i mercanti dal Tempio?”.
Per curiosità in quello stesso periodo mi ero letto varie cose sul fenomeno ancora vivo di Međugorje, località dell’Erzegovina, anch’essa nota per apparizioni mariane e di fatto tollerata da un Vaticano pieno di dubbi sugli eventi e per certi business.
Leggo in queste ore l’acuto Mattia Feltri sulla sua rubrica quotidiana, legata all’ultima storia di Trevignano che eccitano i tragici contenitori televisivi, amati dalle ormai anziane casalinghe di Voghera o meglio di Catanzaro. Scrive Feltri: “Mi ricordo Madonne piangenti a Firenze, a Catania, a Civitavecchia, a Subiaco, a Castrovillari, e ne ricordo in Belgio, in Canada, in Irlanda. In Scusate il ritardo, film del 1983, Massimo Troisi suggeriva alla Madonna di ridere, così gli scienziati non avrebbero spiegato le lacrime col legno che trasuda per un improvviso cambiamento di temperatura. Quarant'anni dopo siamo ancora lì, ma da molto tempo non mi va di irridere chi si mette in fila per assistere al miracolo, sempre il solito, sempre nuovo. L'uomo ha bisogno di credere a qualcosa di prodigioso che si manifesti a riscattare tanto insensato dolore: si crede alle lacrime della Madonna perché sono le lacrime nostre. Quando vedo le foto di quell'umanità, ordinatamente in attesa di trovarsi faccia a faccia con la speranza, tutto penso fuorché sia ridicola. Piuttosto mi fa dispiacere pensare alla disillusione, il giorno in cui il loro profeta se la svignerà col malloppo”.
Trovo irresistibile l’immagine della Madonna sorridente e non, da stereotipo, piangente e lo faccio con rispetto, pensando al profondo e partecipato culto mariano in Valle d’Aosta.
Ma Trevignano è altra cosa e inerisce la credulità popolare e un uso grottesco della fede, che deve far riflettere. A trafiggere l’ennesima santona ci pensa un pezzo magistrale Matteo Matzuzzi): “La storia è nota, da sette anni la signora Gisella (nome d’arte di Maria Giuseppa Scarpulla, già imprenditrice da tempo trasferitasi nel Lazio) sostiene che sulla collina che domina il lago di Bracciano appare, ogni 3 del mese, la Madonna. Che le parla e piange sangue, affidandole messaggi (quasi mai positivi) per l’umanità. La curia è sempre stata prudente, fino a quando gruppi di credenti si riunivano recitando il rosario andava pure bene. Ma quando entrano in scena le “donazioni spontanee” alla onlus costituita dalla “veggente”, le cose si complicano. Il problema è che a Trevignano si recano regolarmente migliaia di cattolici, da tutta Italia per ascoltare i messaggi e guardare da vicino le lacrime (umane o suine? Sul punto è aperta una contesa, ma finora dati certi non ve ne sono).
La vicenda, in attesa del verdetto vescovile, denota una grassa e disarmante ignoranza dei fondamentali del catechismo tra quanti pure si definiscono cattolici. Basta mettere in mezzo al prato una statua della Vergine, quattro panchine, una croce, un rosario ed è fatta: ecco la Medjugorje italiana, almeno secondo le intenzioni di Gisella”.
Ma le cose, spiega il giornalista, sono degenerate: ”Che però ha fatto il passo più lungo della gamba, condendo la storia (sua e del suo santuario) con dettagli trash, non a caso ripresi dai programmi pomeridiani che mescolano il sacro con il profano, i rigorosi toni monacali con le paillettes. La presunta veggente, infatti, ha raccontato che davanti ai suoi occhi e di alcuni suoi amici si sarebbe verificata la moltiplicazione di una teglia di pizza – “Era per quattro persone e ne hanno mangiato in venticinque” –, di un coniglio e perfino di “un piattino di gnocchi”. Altro che pani e pesci di Galilea, il cristianesimo s’è adeguato al menù dei comuni mortali del Terzo millennio. Non serve a niente che il Papa abbia avvertito che la Madonna non è una postina che recapita a certe ore programmate i suoi messaggi come se fosse il capo di un ufficio telegrafico. Basta la statua di Maria e il fedele accorre, in qualche caso aprendo pure il portafoglio. Cosa resta, in tutto questo, tra pizze moltiplicate e onlus, della pura e bella devozione mariana? Niente. Attenti, avvertiva qualche tempo fa il predicatore della Casa Pontificia, il cardinale cappuccino Raniero Cantalamessa: va bene onorare Maria, e ci mancherebbe altro, ma ricordiamo sempre il suo “ruolo subordinato rispetto alla Parola di Dio, allo Spirito Santo e a Gesù stesso”. Qui, invece, si crea il cortocircuito perfetto per cui a moltiplicare il coniglio non è più neppure Gesù, ma – si presume – sua madre. E nonostante un quadro con non pochi elementi degni della miglior commedia, in tanti che si professano cattolici, accorrono”.
Ed è una vera tristezza e anche una pochade irrispettosa verso il cattolicesimo.

Morte sulle cime

SIGNORE DELLE CIME
(Bepi de Marzi)
Dio del cielo, signore delle cime
un nostro amico hai chiesto alla montagna
ma ti preghiamo,
ma ti preghiamo,
su nel paradiso, su nel paradiso, lascialo andare
per le tue montagne.
Santa Maria Signora della neve,
copri col bianco soffice mantello,
il nostro amico, il nostro fratello,
su nel paradiso, su nel paradiso, lascialo andare
per le tue montagne.

Mi ha colpito e addolorato la tragica notizia della valanga precipitata sul gruppo di alpinisti, che era impegnato nel corso guide valdostane nella zona della Tsanteleina, la vetta situata alla testata di valle della Val di Rhêmes. Sotto la neve - già solo scriverlo è difficile, pensando ai precedenti versi della canzone che ha accompagnato tanti momenti tristi - sono morte tre aspiranti guide. Elia Meta, 37 anni, appuntato della guardia di finanza, Sandro Dublanc, 44 anni maestro di sci a Champorcher e il campione di scialpinismo di Bormio, 39 anni, Lorenzo Holzknecht, cui rendo omaggio.
È stato come un flash che mi ha riportato indietro negli anni ad una estate che mai dimenticherò, quand’ero un giovane cronista RAI.
Era il 1985: sei giovani alpinisti dai 18 ai 33 anni, cinque aspiranti guide ed il loro istruttore, morirono scalando la parete del "Lyskamm", sul massiccio del Rosa. Ricordo quel rientro in elicottero, dopo aver "girato" il servizio, con il capo del Soccorso alpino valdostano, Franco Garda, ed il medico Carlo Vettorato che piangevano disperati, seduti sul velivolo giusto di fronte ai sacchi con alcune delle salme appena recuperate.
A tanti anni di distanza torna, in circostanze diverse, una sciagura che falcidia alpinisti di grande capacità, altrimenti non sarebbero stati pronti all’ultimo passo verso la professione di guida alpina. Guide che restano in assoluto l’élite del professionismo, acquisendo nella loro formazione, che continua negli anni, livelli di assoluta eccellenza, che purtroppo non li preserva del tutto dai pericoli insiti nel loro lavoro.
Trovare le parole, pensando allo strazio delle famiglie, delle loro comunità e dei loro amici, è difficile e grava sempre nei commenti il rischio della banalizzazione o della retorica melensa.
Ricorda Reinhold Messner: “Non si può mai dominare la natura, l’alpinista deve assumersi le proprie responsabilità e non dare la colpa alla montagna”.
Chi vive in montagna, la ama e la conosce sa bene quanto il rischio pesi in alta quota e come, malgrado le necessarie accortezze, esista sempre l’imponderabile. Capita, nello spiegare l’ambiente montano, di usare l’aggettivo “ostile” e di essere corretti da chi delle Alpi ha una immagine da cartolina. Mentre l’aggettivo è giusto perché anche posti meravigliosi possono diventare in un istante nemici in determinate circostanze e il rischio non si azzera mai. Chi affronta le cime lo mette in conto.
Ma quando avviene un dramma è sempre un colpo al cuore.

L’addio al Terzo Polo

Era prevedibile che sarebbe stata difficile la convivenza di due galli in un pollaio. Il celebre detto ora si può applicare al tentativo in fase di naufragio di mettere assieme Italia Viva di Matteo Renzi e Azione di Carlo Calenda nell’ormai famoso Terzo Polo. Da giorni - segno che ormai il parto non ci sarà - i due se le cantano e se le suonano, come capita quando la discussione politica trascende.
Ciò avviene in realtà in un clima di generale disinteresse per uno scontro personale fra due leader, che serve a poco e insanguina i Social con insulti e improperi.
Resta e campeggia la questione delicata del ruolo del leader, figura carismatica che serve in politica, con la necessità che non diventi un solista, ma sia un direttore d’orchestra che sappia dirigere e ricordi il ruolo dei singoli musicisti per fare una buona musica, perché la bacchetta non basta da sola a dare autorevolezza. Bisogna che sappia far convivere anime diverse e sappia come far crescere talenti e mantenga rispetto verso altre personalità, sapendo che lui stesso è amovibile. Nessuno alla fine deve ritenersi indispensabile in una democrazia, soprattutto in un’epoca in cui a bruciarsi per chi arriva al vertice è un attimo.
Traggo dal sito “una parola al giorno” una definizione sintetica dell’uso della parola leader: “Capo, guida di un partito o di uno schieramento politico; esponente principale di un gruppo, movimento culturale, ecc. Nello sport, concorrente che è al primo posto in classifica durante un campionato o una gara o il cavallo che è in testa in una corsa. Usato anche come aggettivo, di solito per definire qualcosa all’avanguardia in un determinato settore”.
L’etimologia è facile: voce inglese, dal verbo to lead, ‘guidare’, ‘condurre’.
Ma non si tratta in italiano di un anglicismo recente e uso la stessa fonte: “Il leader, che indica il capo di un partito, viene mutuato dalla lingua inglese nel 1834, assieme ad altri, numerosi prestiti, adattati e non, che vengono importati, direttamente o tramite la mediazione del francese”.
Poi un comprensibile scenario si apre attraverso la parola: “In un periodo ricco di stravolgimenti dal punto di vista sociopolitico, in cui fette sempre più ampie della società iniziano ad appropriarsi dei propri diritti di cittadini, anche la percezione e la gestione della cosa pubblica cambiano, e la diffusione del vocabolo inglese ne è una delle numerose dimostrazioni.
E qui arriviamo alla seconda, importante differenza che contraddistingue la nostra parola: non ci troviamo di fronte ad un termine tecnico, tutt’altro. Il leader è in qualche modo l’evoluzione del capo, in un momento in cui guidare un partito, un governo o una formazione politica è sempre meno prendere ed imporre decisioni unilaterali dall’interno dei palazzi e sempre più essere capaci di trascinare le masse, il cui consenso diventa imprescindibile per ottenere il potere. Siamo quindi ben lontani dal freddo, asettico mondo del linguaggio settoriale e andiamo dritti verso i sentimenti che un leader dev’essere in grado di suscitare per conquistare sostenitori: la sua guida (termine che traduce l’anglismo fedelmente) dev’essere rassicurante e guadagnare fiducia attraverso tutta una serie di doti che sono ritenute fondamentali per questa figura, dalle abilità comunicative alle capacità decisionali, dal prestigio al grande carisma. Un tragico apice fu raggiunto dai capi dei grandi regimi totalitari del Ventesimo secolo, la cui leadership, come noto, fu portata fino alle estreme conseguenze, e la loro incarnazione di leader si ritrova anche negli appellativi che li hanno contraddistinti, con Führer e Duce che significano, letteralmente, proprio guida, condottiero. Oggi leader conserva, a differenza di questi corrispettivi, un’accezione estremamente positiva, con riscontri negli ambiti più vari (oltre alla politica, ricordiamo lo sport, l’economia e il mondo del lavoro, la cultura e lo spettacolo, la psicologia) e tanti derivati quali leadership, leaderboard e leaderismo a confermare la sua solidissima presenza nel nostro lessico”.
La stessa piccola comunità valdostana deve riflettere, pensando al dopoguerra, a certe personalità faro espressione quasi sempre (sarei tanto di togliere il quasi) dell’area autonomista ed è bene proprio per il futuro di quest’area, impegnata in una cruciale fase in questo momento di riunificazione dopo anni di divisioni, confrontarsi su modelli organizzatovi che mettano assieme personalità forti che sappiano ricomporre diverse anime con rispetto reciproco e capacità di sintesi sulle soluzioni ai problemi reali.
Per questo ci vogliono delle guide, termine caro per chi ami la montagna e la metafora della cordata che scala una cima. Il verbo “guidare” viene significativamente dal germanico medievale “widan” e significa ‘indicare una direzione’.
Sfida mica da sottostimare nella temperie complessa di questi anni, in cui ci vogliono molta buona volontà e tanta solidarietà e non la gramigna delle liti.

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