I pensieri di Fredo Valla

Leggo sulla pagina di Cuneo de La Stampa un intervento di un noto intellettuale occitano, Fredo Valla, regista, sceneggiatore e giornalista. Un montanaro doc di Sampeyre, che stimo e conosco, che ha realizzato numerosi documentari per la televisione e ha partecipato alla produzione di vari film, in cui molto spesso ci sono state storie delle sue montagne, della sua gente e della sua cultura.
Con molto garbo e più diplomazia rispetto a certi miei interventi. Valla, come leggerete, mette alcuni punti fermi di critica a chi pensa di avere una specie di monopolio sulla montagna e contro la “convegnite”, ma propone anche con un giusto richiamo anche ai doveri dei montanari.
Ecco il testo:
“Il Cai fin dalla sua fondazione nella seconda metà del XIX secolo, ha avuto un ruolo fondamentale per la conoscenza e la divulgazione delle montagne italiane. Una pratica, quella alpinistica, che si sviluppò dapprima in una società aristocratica e alto borghese, intelligente, curiosa, danarosa, sensibile al vigore del proprio corpo e alle novità che la scienza andava rivelando... con molto tempo da perdere. Si diffuse via via tra i ceti popolari, favorita da una nuova organizzazione sociale che consentiva orari di lavoro meno disumani e la conquista del cosiddetto «tempo libero».
Ecco dunque il Cai promuovere e favorire tra i soci, anche attraverso le proprie publicazioni, itinerari, sentieri, e cime non propriamente alpinistiche, di un alpinismo minore, a misura di domenica, di fine settimana, di ferie estive. Un alpinismo pur sempre in altitudine; oltre le meire, oltre i pascoli, verso le rocce, i laghi, i crinali, i nevai... bei paesaggi abbastanza facilmente raggiungibili. Sono nati i rifugi e una piccola economia di alta quota legata all'escursionismo. Un po' di reddito, insomma. ma niente in confronto ai guadagni prodotti dall’industria dell'escursionismo
con attrezzature tecnicamente sempre più raffinate (o semplicemente alla moda), per non parlare delle calzature e dei vestiti firmati.
Con gli anni le pubblicazioni del Cai hanno talvolta allargato lo sguardo all'uomo che in montagna vive, o viveva.
Per intenderci, dai pascoli in giù, nelle borgate e nei paesi che, come sappiamo, dalla seconda dalle metà del XX secolo si sono andati rapidamente spopolando. Sulle pubblicazioni sono comparsi articoli, spesso molto interessanti, sulle tradi-zioni, sulle vicende storiche, su aspetti di economia montana. Pubblicazioni un tempo soltanto sulla carta e ora soprattutto digitali. Si sono anche moltiplicati i convegni sulla montagna. Le intenzioni sono certo lodevoli, ma io non vi partecipo più. Forse perché l'alpinismo delle rocce, dei bei paesaggi, dei laghi e delle creste non è fra i miei interessi primari. Forse perché provo un certo disagio a sentire parlare di rinascita della montagna, sviluppo, economia, minoranze linguistiche, ecologia,
clima, rapporto uomo-animali, da persone che amano la montagna, ma non ne hanno esperienza di vita.
Che salgono dalla città, dalle colline, dalle metropoli a dire che cosa si dovrebbe fare. Che fanno analisi, discutono animatamente e a fine convegno chiudono la cartellina e tornano nelle loro dimore. Scherzando a volte dico agli amici che il patentino da montanaro (e il diritto di parola) lo si dà soltanto a chi ha trascorso per lo meno tre inverni con neve in montagna, e con figli che vanno a scuola. Esagerato? Certo. Dopodiché, se a parlare di montagna sono altri, è colpa anche dei montanari che non sanno essere protagonisti, raccontare di se stessi, lottare per i propri diritti. Spesso, quella di montagna, è una società stanca, talvolta senza volontà, capace soltanto di rivendicare e non di proporre.
Che fare? Ci vorrebbe forse più politica. Più temi montani nella politica. L'Italia, a guardarla sulla carta, è una penisola in cui prevale il marrone, più chiaro, più scuro... il marrone delle montagne, di Alpi, Appennini, monti della Sardegna e della Sicilia.
Forse sarebbe ora di metterle al centro delle scelte. Al centro della politica. Mettere la montagna al centro della politica non significa avere uno sguardo unidirezionale, ma immaginare obiettivi di sviluppo per questi territori, in una visione d'insieme e in relazione con lo sviluppo delle coste, delle pianure, delle metropoli. Forse, come sostiene l'amico Mariano Allocco, ci vuole una nuova e inedita alleanza fra montagna e piano, fra montagna e città”.
Grazie, Fredo.

Non sono su Facebook

Vivo senza Facebook e sono sopravvissuto felicemente, pensando come ci siano altre modalità per comunicare e occasioni più efficaci per indagare i misteri dell’animo umano e la complessità delle relazioni sociali. Per anni a dire il vero avevo pensato di entrarci e avevo persino creato un profilo rimasto morto. Poi ho preso tempo e infine, come dicevo, ho coscientemente desistito.
Par di capire che si tratti di una scelta di serenità, che mi ha convinto a restare nel più tranquillo mare di Twitter, sinché resisterà l’uccellino blu è garanzia di una certo maggior civismo nel comportamento. Poi chissà quali evoluzioni la tecnica ci fornirà: forse una vera Agorà elettronica, come ci ha promesso e per ora deluso il famoso Metaverso.
Ogni tanto, tuttavia, qualcuno più prosaicamente mi segnala quando mi attaccano su Facebook con qualche commento. In genere sono cattiverie, frutto quasi sempre di vecchie ruggini e qualche invidia. “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”, diceva il Sommo Poeta. Siamo nel canto III dell’Inferno e Dante se la piglia con gli ignavi ovvero coloro che sono stati in vita persone incapaci di scelte e di impegno. Ora vengono costretti a inseguire un vessillo bianco, mentre vengono punti in continuazione da insetti ripugnanti, come anime che non meritano né infamia né lode. Molte losche figurine che campeggiano sui Social, spesso anonime, lo meriterebbero.
Per altro se non leggo Facebook, perché dovrei - relata refero - arrabbiarmi? Ho imparato nel frattempo che i più rosiconi sono, spesso appunto ignavi, quelli che in politica c’erano stati e ne sono usciti anzitempo e attaccano chi è in carica per la loro struggente nostalgia nel non esserci. Il veleno negli scritti, se davvero si dimostra un elemento terapeutico, va valutato positivamente, quando serve a canalizzare così rabbia e frustrazioni. In certi casi si crea persino un livore da vecchio collettivo sessantottino e gli attacchi diventano comunicato stampa di partito, che ricordano certi volantini ideologizzati della mia giovinezza, fatti con il ciclostile del tempo che fu.
Fa sorridere, per sdrammatizzare, un celebre aneddoto. Si tratta di una battuta di Ettore Petrolini: un giorno il celebre comico venne fischiato dal loggione. Lui si avvicinò allo spettatore e gli disse in romanesco: «Io nun ce l’ho cò te ma cò quelli che te stanno vicino e nun t’hanno buttato de sotto»”.
Sono d’accordo che in certe occasioni - lo vedo anche in Consiglio Valle quando qualcuno trascende - andrebbe creato un vero e proprio cordone sanitario. Ci sono casi - e proprio i Social sono un campo fruttuoso di esempi - in cui la ribellione alla maleducazione e peggio alle cattiverie dovrebbe essere patrimonio comune non tanto a difesa del simbolo quanto di principi di rispetto e di educazione. Questo non vuol dire frustrare la sana polemica, cui non mi sottraggo mai, quanto fissare dei confini di civiltà e di quieto vivere.
Ormai viviamo in un’epoca di parolacce e alcune sono utili scorciatoie per sveltire la discussione d’un botto. Sono cresciuto in una società in cui la parolaccia non era così liberalizzata. Per cui ricordo da bambino di aver assistito a discussioni fra adulti in cui l’epiteto letale era contenuti nell’affermazione: “Sei ignorante!” oppure “Sei stupido!”. Con la differenza che l’ignoranza la puoi curare, meno si può fare per la stupidità, che si dice - nel vissuto popolare - che sia a sua volta peggio della cattiveria.
Spero si capisca la ricerca di un minimo di ironia su di un tema comunque serio.

La Festa della Valle d’Aosta il giorno dopo

Scrivo oggi ex post della Festa dell’Autonomia, perché ieri - nel cuore della polemica politica contingente - ero ancora sotto choc e anche investito dalle critiche e dal disagio di tante persone amiche per un voto in Consiglio regionale, che naturalmente ha sconcertato anche me.
Guardo avanti come necessario e non mi attardo sulle polemiche, ma annoto solo che ”franchi tiratori” è un termine settecentesco e designava gli antesignani degli odierni cecchini. Dal contesto bellico è passato al linguaggio politico e giornalistico italiano. Ma mentre in guerra i franchi tiratori agiscono a supporto della loro fazione, i franchi tiratori in politica usano il segreto dell’urna per agire contro la loro stessa parte politica. C’è una bella differenza fra imbracciare il fucile per il proprio esercito e invece usare la pallottola/scheda elettorale come fuoco amico per impallinare alla schiena un alleato.
Chiusa parentesi, torno all’Autonomia e alle diverse necessità da evocare nel corso di una Festa che nasce per ricordare lo Statuto. Per un certo periodo, su mia iniziativa, venne celebrata una Festa più profonda il 7 settembre, data in cui si metteva assieme l’antico e cioè la presenza in Valle d’Aosta dei Savoia per le udienze in occasione di San Grato, Patrono della diocesi, con il Decreto luogotenenziale del 1945, che è il seme da cui fruttò lo Statuto. A differenza della celebrazione di ieri, tutta ufficiale e ristretta a poche centinaia di persone, l’idea era quella di una vera e propria festa popolare. Durò poco per ostilità politiche su cui non torno.
Ma, pensando a ieri, ne confermo la bontà, perché una Festa su una data storica più significativa e con una comunità davvero coinvolta sarebbe un punto di riferimento utile per celebrare il nostro senso identitario partecipato, senza il quale le ragioni politiche rischiano di non avere più quella base di conoscenza e di consapevolezza che sono le fondamenta stesse della nostra Autonomia e anche della necessità di espanderla nel tempo.
Ricordo, avendo vissuto le esperienze elettive che ho avuto, che a Roma e a Bruxelles bisogna sempre spiegare la nostra Autonomia, affermandone le ragioni condivise dal nostro popolo, altrimenti la Politica sarebbe solo un’espressione difensiva di diritti acquisiti ormai tanti anni fa e non un processo dinamico e vivente in continuo aggiornamento.
A diritti - lo dico sempre - corrispondono doveri. Il dovere di capire la nostra Storia, di sapere cos’è lo Statuto, di essere attenti alle particolarità linguistiche e culturali, di avere cura a vantaggio della nostra economia della nostra Montagna, di far passare alle nuove generazioni il messaggio della fierezza di essere valdostani con la libertà per tutti quelli che vivono qui di condividere i valori della nostra comunità.
Capisco quanto sia complesso e impegnativo, ma solo così la Festa attuale evita di essere un momento di soli discorsi ufficiali. Per altro ieri sono stati di qualità, in un momento in cui non era facile esprimersi in pubblico per la vergogna di una crisi ancora irrisolta e bene ha descritto la situazione con lucidità il Presidente della Regione Luigi Bertschy.
Ogni celebrazione va, comunque sia, inserita in uno sforzo personale e collettivo di alfabetizzazione autonomista, resa ancora più indispensabile in un mondo globalizzato, che non è in sé un male, perché siamo cittadini europei e del mondo, ma lo diventa se questo serve a sradicare e spersonalizzare noi e soprattutto i nostri ragazzi. Aggiungo solo che esiste di certo un ruolo della scuola, dalle scuole dell’infanzia all’Università valdostana, di lavorare bene sulla civilisation Valdôtaine e non per una questione di chissà quale indottrinamento, ma per fornire in modo oggettivo e pluralista le ragioni dell’esistenza stessa di una piccola Regione autonoma come la nostra.
L’Autonomia ha purtroppo nemici esterni e pure interni, sia per ragioni ideologiche che per semplice sciatteria e scarsa memoria. Per cui anche le famiglie - ciascuno di noi - si deve sforzare di fare il proprio e cioè quanto necessario per mantenere viva una comunità che già rischia grosso con fenomeni epocali come la denatalità che svuota le nostre culle.

L’uovo di Colombo

Confesso di essere un frequentatore dei supermercati, come li si chiamava una volta agli albori della loro nascita, quando erano rari. Oggi hanno diverse taglie e quelli che fanno più impressione sono gli ipermercati, che raccolgono una varietà merceologica - penso si dica così - che intimorisce. E restano anche, fatti salvi i prodotti standard di respiro ormai mondiale che si trovano ovunque, una delle chiavi di lettura dei Paesi che si visitano perché si trovano merci che connotano e diventano cartina di tornasole più di altro degli uso e dei costumi.
Quel che mi fa colpisce ormai è la tempistica stagionale che anticipa sempre di più, dovuta ad ovvie ragioni di marketing. Così già da qualche giorno sono spuntate da noi le uova di Pasqua e sembra ieri che si esaurivano le scorte dei panettoni natalizi.
Visto che mi tocca scrivere per mantenere il ritmo, guardando queste uova stipate nelle scansie, mi è venuta in mente una espressione che non dovrebbe mai dimenticare e può risultare utile alla bisogna: l’uovo di Colombo.
Il personaggio interessato è proprio lui, Cristoforo Colombo, il grande navigatore che, tra l’altro, ma lo dico per pura vanagloria, da alcune ricerche è risultato essere amico di un mio antico avo suo coevo, il celebre cartografo genovese Nicolò Caveri.
Ma torniamo all’uovo. Cristoforo Colombo era da poco tornato in Europa dalla sua più celebre esplorazione che, alla ricerca del passaggio a Ovest verso le Indie, lo aveva portato alla scoperta dell’America.
Per un suo impegno ufficiale quando forse non si capiva l’importanza delle sue scoperte, Colombo venne chiamato nella dimora del Cardinale Mendoza per una cena in suo onore. Colombo si ritrovò così al tavolo con alcuni gentiluomini spagnoli che, però si dimostrano scettici sulla sua impresa. Così Colombo — con un gesto che diverrà leggendario - prese un uovo e chiese loro per sfidarli di metterlo in posizione verticale sul tavolo. Ognuno prova e riprova più volte, ma invano. Infine, Colombo diede un colpo al fondo dell’uovo sullo spigolo del tavolo appiattendone la superficie quindi pose l’uovo sul tavolo, che restò in piedi infine fermo ed è questa la soluzione che ha creato il modo di dire.
Trovo che la semplicità del gesto, ovviamente beffardo, andrebbe adoperato in molte occasioni della vita. Capita quotidianamente non solo di trovare chi critichi a vanvera in questi mondo popolato in più sui di “bastian contrari”, oggi star sui Social. E ci sono - quanti ne ho incontrati in gangli vitali della burocrazia - i complicatori affari semplici, messi alla berlina dal celebre Fantozzi, il travet inventato dal compianto Paolo Villaggio.
Ogni giorno e in mille occasioni incontriamo coloro che amano mettere la sabbia negli ingranaggi, si compiacciono delle procedure le più bizantine, obbligano a vere e proprie acrobazie per risolvere questioni elementari. Mi capita di questi tempi per sbloccare una pratica assai ordinaria e sono costretto a firme ripetute, a dichiarazioni della mia identità, a formulari antiriciclaggio e - essendo politico e in quanto tale sospetto - ad ulteriori documentazioni che immagino servano a dimostrare che non…rubo.
Ogni volta vorrei raccontare quanto risolvibile in fretta, anche senza avere sulla scrivania l’uovo di Colombo.

Un terribile dolore

Ci sono pudori necessari anche verso i dolori altrui ed è bene affrontarli in punta di piedi e solo sussurrando a bassa voce per non disturbare.
Non sempre è facile interagire con chi abbia avuto un lutto. Ogni volta che mi capita di partecipare alla morte di qualcuno non sempre riesco a trovare le parole giuste e invidio chi lo sappia fare, perché è un dono essere consolatori, senza violare gli spazi così umani di chi patisce.
Ci pensavo guardando con sincera partecipazione umana e con un turbinio di pensieri, l’epigrafe di un giovane studente che in questi giorni ha purtroppo lasciato la vita per sua scelta.
In Valle d’Aosta ognuno di noi ha conosciuto persone che se ne sono andate così e abbiamo visto e vissuto lo strazio per eventi che colpiscono chi resta. Quando cioè non ci sono elementi consolatori e lenitivi che tengano di fronte alla brutalità dell’evento. Spesso ho apprezzato le omelie di quei preti che di fronte a certe tragedie familiari hanno saputo al momento delle esequie, con garbo ma senza eccessi retorici, trovare quegli elementi di vicinanza e di affetto che sono fra le poche cose che non stridono con morti subitanee alle quali non si può dare una spiegazione razionale.
L’ho vissuto, parlandone con un amico d’infanzia, che ha perso il figlio, un figlio straordinario, intelligente e studioso, ritrovato inopinatamente un mattino senza vita, in assenza di qualunque segnale d’allarme che potesse far presumere la scelta estrema. Decisione che lascia sgomenti e angosciati sul perché nulla si fosse percepito per poter evitare la tragedia e ci si carica di pesi pieni di interrogativi che in larga parte resteranno tali.
Ha scritto Claudio Magris, abile indagatore dell’animo umano, citando in premessa uno scrittore argentino, che morì a 99 anni: “Ernesto Sábato ha scritto di aver pensato alcune volte al suicidio e di essersene astenuto per non recare dolore agli altri, convinto che non sia lecito far soffrire nessuno, nemmeno un cane. Ma se uno non ce la fa, se il mondo che come Atlante egli regge sulle sue spalle è per lui troppo pesante e lo schianta, lo maciulla? Chi può imporre a un altro di sopportare sofferenze per lui insostenibili? Sofferenze che possono essere anche solo psichiche, ma non perciò meno crudeli e intollerabili. Forse si ha più comprensione per i dolori fisici che per quelli psichici e spirituali. Ma perché un cancro dovrebbe commuovere più di un’ossessione che occupa la mente sino alla disperazione?”.
Tema difficile, profondo e bisogna essere rispettosi e mai liquidare la scelta estrema con faciloneria. Cesare Pavese fu uno dei più importanti scrittori italiani del secolo scorso. Morì suicida il 27 Agosto 1950 a Torino ingerendo 10 bustine di sonnifero e lasciò una frase ben nota e lapidaria di suo pugno: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”.
Anni dopo si seppe di un altro biglietto, ritrovato la sera della morte, sul quale Cesare Pavese appuntò 3 frasi. Nella prima, tratta proprio dai ‘Dialoghi con Leucò’ il libro che fu trovato accanto al corpo, si legge: “L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia”. La seconda frase è una citazione dal Diario Pavesiano, “Il mestiere di vivere”, e venne scritta qualche giorno prima della sua tragica fine: “Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti”. La terza frase, che potrebbe essere stata pensata e messa per iscritto nelle ultime ore di vita, è lapidaria: “Ho cercato me stesso”.
Sembra un paradosso un epitaffio così fatto. Eppure il grande mistero della morte si spalanca anche e forse soprattutto di fronte a chi, non sopportando più la vita, la lascia anzitempo con un addio drammatico.

Un anno dall’aggressione all’Ucraina

Un anno fa, la Guerra. Brutta parola, la cui etimologia si ricollega all'antico tedesco werra che esprime l'idea della mischia, del groviglio, della scontro disordinato in cui si avviluppano i combattenti in un vero e proprio "macello" (la stessa radice si trova nell'inglese war).
Scriveva nel dopoguerra Piero Calamamdrei: ”Chi è che semina le guerre? Se tra uno o tra dieci anni una nuova guerra mondiale scoppierà, dove troveremo il responsabile? Nell'ultima guerra la identificazione parve facile: bastò il gesto di due folli che avevano in mano le leve dell'ordigno infernale, per decretare il sacrificio dei popoli innocenti. Ma oggi quelle dittature sono cadute: oggi le sorti della guerra e della pace sono rimesse al popolo. Questo vuol dire, infatti, democrazia: rendere ogni cittadino, anche il più umile, corresponsabile della guerra e della pace del mondo: toglier di mano queste fatali leve ai dittatori paranoici che mandano gli umili a morire, e lasciare agli umili, a coloro ai quali nelle guerre era riservato finora l'ufficio di morire, la scelta tra la morte e la vita.
Ma ecco, si vede con terrore che, anche cadute le dittature, nuove guerre si preparano, nuove armi si affilano, nuovi schieramenti si formano. Chi è il responsabile di questi preparativi? Si dice che gli uomini, che oggi sono al potere, sono stati scelti dal voto degli elettori: si deve dunque concludere che le anonime folle degli elettori sono anch'esse per le nuove carneficine?
Questa è oggi la terribile verità. La salvezza è solo nelle nostre mani; ma ognuno di noi, se la nuova guerra verrà, sarà colpevole per non averla impedita. [...]
Se domani la guerra verrà, ciascuno di noi l'avrà preparata. Non potremo nascondere la nostra innocenza dietro l'ombra dei dittatori: quando c'è la libertà, tutti sono responsabili, nessuno è innocente”.
La tradizionale definizione di guerra così recita: lotta armata fra stati o coalizioni, per la risoluzione di una controversia internazionale appare scarsamente adatta all’aggressione russa dell’Ucraina, giusto un anno fa.
Doveva essere nelle intenzioni di quel matto di Vladimir Putin un’azione di riconquista con un vero e proprio bliz. Termine che in tedesco - ricorda Treccani - significa «lampo», ma diffuso nel linguaggio giornalistico internazionale, e quindi anche in Italia, dagli Stati Uniti, come abbreviazione di Blitzkrieg per indicare un’operazione militare eseguite con estrema rapidità e precisione, o un audace colpo di mano fulmineo e risolutivo, con significato quindi corrispondente all’italiano operazione-lampo.
Invece i russi si sono trovati di fronte a ucraini risulti nel resistere e la guerra è diventata di logoramento e, malgrado la propaganda di Mosca che parla di una guerra resa indispensabile contro i neonazisti ucraini (sic!), una sconfitta per gli aggressori che non sono riusciti a sfondare, come avevano previsto di fare in quattro e quattro otto.
L’Occidente, fatta eccezione per i filorussi e estremisti vari, ha scelto di aiutare l’Ucraina e lo ha fatto sia per bloccare le logiche di espansionismo russo con fare imperialista, sognando una nuova Unione Sovietica sia per la ferocia dei russi, soldati regolari e mercenari, che si sono resi protagonisti di atti di violenza sui civili - autentici crimini di guerra - su cui indaga lo stesso Tribunale dell’Aja.
Condivido totalmente l’impegno assunto per fermare Putin, la cui deriva psichiatrica è evidente dalle cose che dice. Si tratta non solo di agire militarmente, con buona pace di quegli stessi pacifisti che con i loro ragionamenti del passato aiutarono Hitler a conquistare l’Europa, ma di isolare la Russia per avere un tavolo di pace credibile e non utopistico. Nella speranza che il dittatore venga abbattuto dai russi stessi, che oggi sono isolati da tutto il mondo civile.
La democrazia nel mondo sta declinando e questo il grande Calamandrei non poteva prevederlo. La situazione la racconta un articolo de La Voce, di cui pubblico due stralci: ”L’Economist ha recentemente pubblicato il Democracy Index 2021, che misura il livello di democrazia di 167 paesi. Già l’anno scorso, il rapporto 2020 era stato presentato con un laconico “La democrazia nel mondo ha avuto un brutto anno”, con una riduzione consistente a livello globale soprattutto a causa delle situazioni emergenziali dovute alla pandemia. Nel 2021, l’indice ha raggiunto un nuovo minimo storico.
La pandemia, accompagnata da misure restrittive e dal ricorso, in molti casi, ad un approccio tecnocratico, ha certamente accelerato il trend, ma il livello di democrazia nel mondo, secondo questa rilevazione, è in calo da molti anni. Dopo una riduzione legata alla Grande Recessione, l’indice aveva ripreso a crescere
In generale, negli ultimi due decenni lo stato della democrazia del mondo non è migliorato. Dal 2006, 108 delle 167 nazioni prese in esame dall’indice hanno peggiorato, o comunque non migliorato, il proprio punteggio e nessuna delle macro regioni considerate ha visto il proprio punteggio medio aumentare. Nel 2021, l’indice è calato di 0,09 punti su scala globale (in una scala da 1 a 10). Complici del calo sono state le misure straordinarie imposte dalla pandemia, che hanno permesso di accentrare il potere con la scusa dell’emergenza. Tra i fattori fondamentali troviamo anche l’intensa presenza di cambi di regime repentini e colpi di stato, da quello in Myanmar fino al ritorno dei talebani in Afghanistan. Più della metà della popolazione mondiale vive oggi sotto un regime non democratico, con oltre un terzo dei paesi che si trova in veri e propri regimi autoritari”.
Putin va fermato per non incrementare - come vorrebbe - i Paesi sotto il suo giogo liberticida.

Pronto a nuove sfide

Con l’approssimarsi del cambio di Giunta, di cui mi pare inopportuno parlare nel merito prima del voto in aula del Consiglio Valle, mi capita di rivedere – come al rallentatore – gli episodi salienti del mio cammino politico. E farlo serve, in pochi istanti, a rivivere momenti importanti della mia vita.
Era il 1987, quando in modo del tutto inaspettato, mi ritrovai giovane deputato valdostano, cominciando un’avventura distante dai miei progetti, che erano tutti indirizzati al giornalismo radiotelevisivo.
Mi buttai capofitto nel lavoro, cercando di capire i meccanismi complessi del lavoro parlamentare, avendo la possibilità interessante di vedere ancora la Prima Repubblica, la sua caduta e scenari nuovi della politica italiana, conoscendo bene i principali personaggi sulla scena, compresi i Presidenti della Repubblica che incontravano i due parlamentari valdostani con dignità di delegazione e lo stesso facevano i Presidenti del Consiglio che si succedettero.
Da Segretario del Gruppo Misto, divenni poi – nel corso delle quattro Legislature – Presidente del Gruppo e Segretario di Presidenza. Avendo come base la Prima Commissione Affari Costituzionali, dove tutto transita per la costituzionalità, viaggiavo di Commissione in Commissione, a seconda della necessità per il lavoro da svolgere, cercando con interrogazioni e interpellanze e nelle discussioni principali di marcare il territorio.  
Ricordo in più la Commissione d’inchiesta sulla condizione giovanile e quella sulla riforma dell’immunità parlamentare. Nelle Bicamerali, fu interessante l’attività in quella per le Riforme istituzionali e quella sulla riforma amministrativa Non sto qui ad elencare altro, perché per fortuna a parlare sono le schede parlamentari, che danno conto di quello che ho fatto con le rendicontazione sommarie e quelle stenografiche. Alcune leggi portano il mio nome o il mio contributo in tema di regionalismo e di minoranze linguistiche, così come su materie come la montagna (presiedetti il Comitato italiano per l’Anno internazionale delle Montagne) e la donazione degli organi con una normativa ancora oggi in vigore. Infine l’esperienza di Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel Governo D’Alema. Il Presidente Giuliano Amato che gli subentrò mi voleva Ministro delle Regioni, ma nel frattempo ero diventato parlamentare europeo e sarebbe stata una contemporaneità delle funzioni del tutto incompatibile.
Al Parlamento europeo divenni, poco dopo, Presidente della Commissione Trasporti, Politiche regionali e Turismo e considero questa esperienza come il culmine della mia carriera politica. Comprendere i meccanismi della massima istituzione comunitaria non fu facile, ma mi diede grandi soddisfazioni.
Poi la scelta di tornare in Valle con le elezioni del 2003: un grande risultato elettorale e divenni prima Assessore e poi Presidente più tardi a causa di camarille nell’UV, che poi abbandonai nella Legislatura successiva, dove divenni consigliere semplice con la gioia di poter restare in Europa al Comitato delle Regioni, dove divenni Presidente della delegazione italiana, facendo anche una serie di esperienze al Consiglio d’Europa.
Tornai poi - senza incarichi elettivi per 7 anni - al mio lavoro in RAI, perché in politica si è liberi se si ha una propria professione
Il ritorno alla politica è avvenuto con le scorse elezioni regionali con un posto da Assessore su materie significative e ora l’attesa per capire bene quale sarà il mio incarico, a partire da domani.
Si discute spesso – e lo faccio anch’io – sulla necessità del ricambio generazionale. Credo che sia importante farlo, immaginando però che chi ha avuto la fortuna di vivere esperienze come le mie possa fare un passaggio di competenze con i giovani, perché l’esperienza conta e la famosa “rottamazione” di renziana memoria e il “nuovismo” grillino non hanno portato bene – per la loro rozzezza – alla politica italiana e pure valdostana.
Comunque sia, sono intanto pronto a nuove sfide.

Il passaggio impercettibile

Il passaggio è impercettibile. Da oggi siamo in Quaresima, anche se poi – a definire l’incertezza del confine esatto del Carnevale (che vuol proprio dire “carnem levare”, togliere la carne, e cioè il periodo della Quaresima) – ci sono carnevali che sforano. L’esempio più eclatante resta il Carnevale ambrosiano, i cui festeggiamenti principali saranno il sabato di questa settimana, anziché il martedì. Questo accade perché, nel rito ambrosiano, è diverso il modo di contare le date di inizio e fine Quaresima. Nel rito romano (quello osservato dal resto d’Italia) le domeniche non vengono contate come giorni di penitenza e dunque la Quaresima dura di più e comincia prima. Fu Sant’Ambrogio, che nel IV secolo era vescovo di Milano, a decidere che le domeniche fossero calcolate.
Mi stupisce sempre questa banalità del calendario che ci scandisce la vita con una rassicurante ripetitività, di cui il Carnevale, che oggi da noi si estingue, è uno dei passaggi obbligati. Questa idea che permea le nostre culture, che alternano momenti di follia controllata, qual è appunto la logica carnevalesca, a momenti morigerati come il periodo quaresimale. Anche se il primo resta piuttosto stabile, mentre al Quaresima, con l’assottigliarsi dei praticanti, ha perso quel suo duplice significato: “fare la quaresima”, ovvero osservare il periodo di digiuno e di astinenza in preparazione alla resurrezione di Cristo e, dall’altra in termini sanzionatori, “rompere la quaresima”, che significa trasgredire ai precetti.
Perché il Carnevale non deflette e resta vivo nell’animo popolare? Con una sociologia da strapazzo si potrebbe annotare che il Carnevale afferma dei diritti e cioè la libertà di divertirsi e anche di trasgredire pur all’interno di confini non troppo valicabili. Mentre la Quaresima non è solo questione di Fede, ma anche una sorta di imposizione di doveri, che certo hanno significati antropologici assai profondi, come una specie di pausa che ha anche significati legati alla salute dopo gli eccessi.
Capisco che sono ragionamenti forse bislacchi, ma fino ad un certo punto.
Scriveva Umberto Eco nel suo libro ”Il nome della rosa: ”Anche la chiesa nella sua saggezza ha concesso il momento della festa, del carnevale, della fiera, questa polluzione diurna che scarica gli umori e trattiene da altri desideri e da altre ambizioni... ”.
Certo la giornata di oggi ha aspetti che arrivano da un passato remoto.
La definizione di questo mercoledì è ”delle Ceneri” per l’antica usanza risalente dei primi secoli della Chiesa di imporre le ceneri sul capo dei peccatori penitenti. Le ceneri sono di conseguenza il simbolo della penitenza. Il sacerdote segna la fronte dei fedeli con la cenere che si ricava dai rami di ulivo benedetti nell’anno precedente.
Le ceneri sono considerate un simbolo dell’umiltà, attraverso la quale i peccatori possono sperare nella futura gloria della resurrezione, che è esaltata durante la processione delle palme.
Nel 1091 il concilio di Benevento impose che il mercoledì delle ceneri “tutti i religiosi e laici, uomini e donne, che riceveranno le ceneri in un certo senso saranno considerato tutti penitenti”. L’imposizione delle ceneri ad opera del celebrante durante la Messa è inoltre accompagnata anche dalla formula tradizionale “Ricordati che polvere sei ed in polvere ritornerai”. Oppure da quella introdotta dopo il concilio Vaticano II “Convertitevi e credete al Vangelo”.
I simbolismi cristiani sono interessanti e basta seguire una Messa in maniera attenta, seguendo il rito e osservando la chiesa dove si celebra, per coglierne la vastità e la profondità.

Fragilità

Incertezza del futuro, fragilità della propria condizione sociale e insicurezza esistenziale − queste onnipresenti compagne di vita in un mondo liquido-moderno.
(Zygmunt Bauman)
La citazione iniziale è la cornice che mi porta a dire, nell’affrontare in punta di piedi un tema complesso, che parte dall’affermazione che non bisogna essere spaventati dalle nostre fragilità. Credo che sia una delle poche cose che ho imparato negli anni, specie constatando quante siano le persone - talvolta impensabili e più numerose di quanto si ritenga - che hanno problemi a vivere bene con sé stessi e nel rapporto con gli altri. Anche a me è capitato e capita ogni tanto di interrogarmi sulle mie insicurezze e sulle mie vulnerabilità che devo fronteggiare. Così come avviene spesso, per l’ampio spettro di incontri e la Politica è un porto di mare, di trovare persone che vivono queste stesse difficoltà anche con risvolti davvero patologici.
Lo psichiatra Vittorino Andreoli ha scritto: “Ebbene, se sono stato, e sono, un buon psichiatra, se ho aiutato i miei matti, ciò è avvenuto per la mia fragilità, per la paura di una follia che si annida dentro di me, per la fragilità che avverto capace di sdoppiarmi, di togliermi la voglia di vivere e di rendermi simile a un depresso che chiede soltanto di scomparire per cancellare il dolore di cui si sente plasmato”. Sappiamo bene come il confine fra normalità è aspetti problematici possa essere sottile.
Quando sono malattie non bisogna vergognarsi e bisogna curarle seriamente non considerandole solo uno stato d’animo. Lo sappiamo bene in Valle d’Aosta con il sinistro record di suicidi che sono di fatto un fallimento nella prevenzione e con una percentuale molto elevata nel consumo di farmaci antidepressivi.
Ha scritto lo psichiatra Umberto Galimberti: “Che cos’è la depressione? Quella condizione dell’anima che si registra quando il mondo circostante non ci dice più nulla e il mondo immaginifico, quello dei nostri sogni e dei nostri progetti, tace avvolto da un silenzio così cupo e impenetrabile da impedire anche il più timido degli sguardi che osi proiettarsi nel futuro”.
Ben prima che si studiassero a fondo questi disturbi, che sono ancora oggetto di ricerche per comprenderne bene meccanismi e cure con grande poesia Victor Hugo scriveva: “Soyez comme l'oiseau posé pour un instant sur des rameaux trop frêles qui sent plier la branche, et qui chante pourtant, sachant qu'il a des ailes”
Bisogna che queste ali ci siano.

L’alleanza delle Speciali

Sono stato in Trentino, esattamente a Borghetto sull’Adige, in una tenuta vitivinicola straordinaria, per un incontro politico con supporto di giuristi vari sul futuro delle Autonomie speciali.
Questo tema ha occupato una parte della mia carriera politica e ogni occasione di confronto - come una torta multistrato - è stata utile, perché nel cuore stesso del futuro di una comunità come la nostra. Se non stiamo vigili, il peggior fantasma sarebbe quello di diventare zona negletta nell’area metropolitana di Torino, come capitato alle vallate piemontesi a noi vicine. Altro che Dichiarazione di Chivasso per i popoli alpini: sarà bene lavorare su documenti nuovi, senza mai negare queste radici.
Riporto in premessa la notizia dell’Ansa di Trento con le mie dichiarazioni:” "Come valdostani siamo lieti di questa iniziativa degli amici trentini e sudtirolesi con la presenza anche del Friuli-Venezia Giulia. Un dibattito dallo stampo giuridico ma con forte impronta politica per presentare al Governo un fronte comune per un rafforzamento delle autonomie speciali". Lo ha detto all'Ansa l'assessore all'istruzione, università, politiche giovanili, affari europei e partecipate della Val d'Aosta, Luciano Caveri oggi a Borghetto in occasione di un confronto sul tema dell'autonomia. L'appuntamento è promosso dal Comitato per il Cinquantenario del secondo Statuto di Autonomia del Trentino-Alto Adige. "Si tratterà di un documento organico e direi coraggioso in controtendenza con certi rischi di centralismo di ritorno", ha detto Caveri in riferimento alla bozza sull'autonomia differenziata presentata da Calderoli. "Centrale per il futuro è immaginare una riforma e modernizzazione degli Statuti speciali, ma con una logica d'intesa per evitare stravolgimenti nel passaggio parlamentare previsto dall'articolo 138 della Costituzione. Abbiamo tutti apprezzato certe rassicurazioni del Ministro delle Regioni, Roberto Calderoli, rispetto al futuro delle Specialità. Nelle settimane a venire affineremo i contenuti del documento, già in bozza assai convincente"”.
In effetti il clima è stato utile ed interessante e soprattutto costruttivo.
Erano anni che non vedevo Calderoli, con cui abbiamo condiviso anni di lavoro parlamentare, e devo dire che il suo approccio - compreso il racconto inedito del nonno autonomista, che aspirava a Bergamo come Provincia autonoma - sulle prospettive delle autonomie speciali è stato chiaro e documentato. Lo stesso Valle d’Aosta detto dell’intervento del capofila delle Speciali nella Conferenza dei Presidenti, il sudtirolese Arno Kompatscher, che mi ha illustrato, prima dell’inizio dei lavori, il documento su cui proporrà di lavorare per presentarlo poi ufficialmente al Governo.
Nel mio intervento, ricordato il mio rapporto da sempre costruttivo con sudtirolesi, friulani e trentini (nel dopoguerra mio zio Severino fu a Trento a sostenere l’autonomismo trentino), ho confermato come il vento dell’antiregionalismo soffi forte e le polemiche speciose sull’autonomia differenziata per le Regioni ordinarie lo dimostrano. Per questo ho riassunto la necessità di una svolta in un slogan ”dalla difesa all’attacco” nel solco del federalismo come reale alternativa istituzionale. Chiedendo nel breve che le norme di attuazione degli Statuti smettano di sparire nella palude romana e che si possa mettere mano agli Statuti con l’assicurazione sulla vita dell’intesa, come detto nella dichiarazione pubblicata poco sopra.
Forse il torto delle Autonomie speciali - specie di quelle del Nord - è stato quello di non fare blocco e impegnarsi in difese separate fra di noi delle rispettive specialità. Stare insieme e battersi in modo risoluto contro le derive centraliste è sforzo politico, giuridico, culturale e sociale. L’arrendevolezza o la logica del "cappello in mano” a Roma e anche a Bruxelles sono atteggiamenti non solo mortificanti ma pure perdenti.
Bene schiacciare sull’acceleratore, sapendo che per noi - a differenza di Bolzano e a rimorchio di Trento - l’assenza di una garanzia internazionale non è un differenza di poco conto, che comporta maggior sforzo e più consapevolezza di chi siamo e dove dobbiamo andare.

Condividi contenuti

Registrazione Tribunale di Aosta n.2/2018 | Direttore responsabile Mara Ghidinelli | © 2008-2021 Luciano Caveri