Vorrei un Minion

I film di animazione, che per me a vita saranno noti come cartoni animati, hanno rappresentato un classico della mia infanzia e poi anche nelle successive fasi della mia vita per via pure della differenza di età fra i miei figli. Con quello di 11 anni, infatti, sono ancora arruolato e devo dire che si tratta sempre di un piacere, anche perché molte di queste pellicole contengono – per la capacità degli sceneggiatori – dialoghi a lettura diversa e spesso ci sono anche doppi sensi maliziosi non distinguibili dai bambini. L’assoluta perfezione tecnologica stranisce, pensando ai vecchi film disneyani e bisogna dire la verità che alcuni di questi, per essere veramente godibili, vanno visti sul grande schermo e cerco di farlo a difesa anche dei cinema.
Sono andato a vedere in queste ore ”Minions 2 - Come Gru diventa Cattivissimo”, il film diretto da Kyle Balda, che è il prequel del film d'animazione con protagonisti i buffi personaggi gialli di Cattivissimo. Il film approfondisce le origini di Felonius Gru (voce originale di Steve Carell, voce italiana di Max Giusti) e di come sia diventato cattivissimo, ambientando la storia nel cuore degli anni '70.
Ho trovato la storia molto simpatica e i buffi personaggi del tutto travolgenti. Apro una parentesi per chi non sapesse di che cosa parlo. I Minions, visibili ormai in ogni carnevale dei bambini, sono gialli, piccolini, con la testa ovale, pelati o con un ciuffetto di capelli in cima alla testa. Possiedono uno o due occhi e braccia e gambe sottili. Indossano una salopette di jeans, guanti, stivaletti, occhiali e sembrano sempre essere al lavoro, anche se perlopiù combinano pasticci.
La parola “minion” in inglese sta per “servitore” o “galoppino” ma anche per “tirapiedi”. Certo questi personaggi hanno un gran cuore e una goffa furbizia.
Pasticcioni, divertenti e combinaguai, i minions creano scene di ilarità in tutti i film, ed è impossibile non amarli. Parlano un linguaggio inventato che suona come una specie di esperanto. La loro frase più frequente, detta quando hanno fame, è: “Me want bananas”, perché adorano le banane e sono disposti a tutto per averne una.
Anni fa, a dimostrazione di come si viva in un mondo che stravolge tutto, un utente di Facebook spagnolo, Luciano Gonzales, fece credere che questi personaggi fossero nelle loro fattezze ispirati ad una serie di esperimenti nazisti applicati sui bambini ebrei.
La 'bufala' aveva fatto il giro del web immediatamente, sfruttando il confronto tra una foto di repertorio e un'altra dei Minions. L'immagine era accompagnata da questo messaggio: “Lo sapevate? ‘Minions’ (dal tedesco ‘minion’ ‘schiavo) era il nome dato ai bambini ebrei, adottato da scienziati nazisti durante i loro esperimenti. I bambini ebrei vittime di esperimenti soffrivano, e visto che non parlavano tedesco, le uniche parole che pronunciavano erano suoni che facevano molto ridere i tedeschi”.
La foto rappresentava persone con un casco in testa che assomigliano molto ai Minions.
In realtà l'immagine di repertorio apparteneva al Royal Navy Submarine Museum del Regno Unito e raffigura dei sommozzatori durante un esercizio di salvataggio all’inizio del 20esimo secolo.
Poveri Minions finiti nel tritacarne di una fake news, da cui sono usciti in fretta con i loro borbottii e i loro guizzi!

Contro l’indifferenza

L’indifferenza è una brutta storia. Scriveva sul tema quella figura assai contraddittoria, che è stato Antonio Gramsci: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. [...] Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oggi non oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch'io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? [...] Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.
La sua era certo una visione molto ideologica, come si ricostruisce dal suo percorso politico e anche dal dramma umano della prigionia, ma questa storia dell’indifferenza è fotografata in modo efficace.
Lo vediamo rispetto a queste elezioni Politiche nel solco di tanti altri appuntamenti elettorali. È calato ormai un velo di stanchezza che rasenta lo scoramento sul sistema dei partiti a causa del lento allontanamento dei cittadini da queste organizzazioni politiche, alimentate ancora da pochi coraggiosi e senza finanziamenti che li aiutino. Ci troviamo ormai di fronte ad un vasto settore dell’opinione pubblica che snobba gli appuntamenti elettorali. Una scelta in fondo di continuità con il venir meno dell’impegno civile attraverso forme organizzate.
Viene in mente il messaggio speranzoso, dopo un Ventennio fascista liberticida, contenuto nella vigente Costituzione all’articolo 49: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Testo breve è comprensibile.
Scriveva il grande costituzionalista Costantino Mortati: “Il partito ha come fine specifico di elaborare una sua propria concezione politica, di raccogliere intorno ad essa il maggior numero di consensi popolari, di rendere operativa la concezione stessa nell’azione statale, o direttamente con l’immissione dei suoi aderenti nelle cariche pubbliche (allorchè riesca a raccogliere per sè nelle elezioni la maggioranza dei voti), o indirettamente, attraverso l’azione di critica o di opposizione all’azione del partito vincitore”.
Naturalmente dove Mortati parla di “statale” si potrebbe dire che l’incidenza vale per tutti i livelli di governo, compresi meglio nel termine onnicomprensivo “Repubblica”.
Ora le cose sono in Italia e direi nelle democrazie occidentali in grande movimento. Quel che colpisce è non solo il fenomeno ben misurabile del crescente astensionismo alle elezioni, che da fenomeno marginale e sotto controllo è diventato un problema endemico in costante progressione, ma esiste ancora più grave - anche per chi vota in ossequio ad un dovere morale ma non giuridico - il tema crescente dell’indifferenza.
Le sue caratteristiche sono duplici. Da una parte l’abbandono del campo politico da parte di chi ha tutti gli strumenti di comprendonio per poter basare il proprio interesse su basi solide e consapevoli. Ma anche - secondo aspetto - si manifesta una crescente ignoranza verso elementari nozioni e conoscenze dei meccanismi democratici, che crea un distacco forse non più rimarginabile.
Come uscirne? Questo resta un interrogativo sospeso e speriamo che la riappropriazione della democrazia non debba venire, come reazione, a fronte di svolte in qualche modo autoritarie.

La saga dei Menabrea

È sempre difficile spiegare che cosa abbia rappresentato e che cosa possa rappresentare per la Valle d’Aosta la presenza della piccola e particolare enclave germanofona della Valle del Lys.
Mi riferisco alla lunga storia a partire dagli insediamenti delle colonie walser nelle zone alte di Issime e nei due Gressoney che vengono datati fra il 1100 e il 1200, chiamati a colonizzare i beni del capitolo di Saint-Gilles e gli alpeggi della Chiesa di Sion. 
Sono molto fiero di aver fatto inserire nello Statuto di autonomia nel 1993 un articolo, riparatorio rispetto al testo del 1948, che riconosce i walser dal punto di vista giuridico. Si tratta dell’articolo Art. 40bis, che contiene grandi potenzialità ancora inespresse e che così afferma: “Le popolazioni di lingua tedesca dei comuni della Valle del Lys individuati con legge regionale hanno diritto alla salvaguardia delle proprie caratteristiche e tradizioni linguistiche e culturali.
Alle popolazioni di cui al primo comma è garantito l'insegnamento della lingua tedesca nelle scuole attraverso gli opportuni adattamenti alle necessità locali”.
Su quest’ultimo punto non si è fatto abbastanza.
Ma in questa occasione vorrei parlare di un libro, che va letto non solo perché racconta l’epopea di una famiglia walser trasferitasi a Biella, ma perché nel farlo viene magistralmente descritta la comunità walser e la sua capacità di avere contatti economici e commerciali con il mondo germanico.
Mi riferisco a “La salita dei giganti. La saga dei Menabrea” (edito da Feltrinelli) dello scrittore milanese Francesco Casolo, che è anche docente di Storia del cinema e autore di testi molto vari, alcuni dei quali già vicini ai temi della montagna.
Con una grande capacità di approfondimento e sfuggendo all’agiografia, questa saga di una famiglia di imprenditori ma con un vasto spazio alle donne narranti, dimostra una straordinaria empatia verso il popolo walser nel descrivere un tratto della vita dei Menabrea. Sono loro, con soci biellesi, che fondarono l’omonima birreria nel 1846 a Biella, società che oggi - pur avendo ancora legami parentali con chi ne diede la nascita - fa parte del gruppo Forst.
Ma non ci sono solo i Menabrea nella coralità del racconto, ma ci sono gli Squindo, i Thedy, gli Zimmermann. Citato nel libro c’è il celebre Anton, birraio in Aosta, sepolto nel cimitero di Sant’Orso di Aosta a due passi dalla mia bisnonna walser Herminie - Marie Antoinette De La Pierre - Zumstein del ramo Danielsch.
Il libro descrive la vita dei Menabrea, con gioie e dolori, speranze e delusioni, ma ciò avviene ricordando non solo gli intrecci parentali e gli sviluppi imprenditoriali, ma anche la vita vissuta a Gressoney, della strada carrozzabile che muta e cambierà la vita dei gressonari, dei legami con la Germania attraverso i colli, che mostrano la rete del popolo walser e dei loro commerci. Molto ruota attraverso la celebre Tremertal o Kramerthal, la Valle dei mercanti nel legame fra Valle di Gressoney e la Valle s’Ayas verso poi la Valtournenche e del valico alpino oggi abbandonato del Colle del Teodulo. Siamo in quello spazio straordinario che abbraccia il Monte Rosa sino al Cervino e di cui Biella è di fatto un territorio integrato sempre nella logica intervalliva, come spiega bene il libro perché il sentiero da Piedicavallo a Gressoney-Saint-Jean fu finanziato proprio dai Menabrea.
Usi e costumi, compresi il dialetto Titsch, compaiono nel libro ad illustrare la ricchezza culturale dei walser in un contesto di vicende familiari con la birra e la sua lavorazione come una delle protagoniste con apposite descrizioni. Un’antica bevanda che diventa tradizione walser che porta dei Beck Peccoz a vivere in Baviera e a produrre ancor l’ottima Kühbacher, che ho bevuto all’Oktoberfest a Monaco e ogni anno al Patrono San Giovanni di Gressoney-Saint-Jean.
Spero che il bel romanzo venga letto dai giovani walser e che contribuisca alla fierezza identitaria di questo nostro piccolo popolo che vive anche in altre parte delle Alpi. La salvaguardia della loro cultura è un loro e nostro dovere.

Meno parlamentari, più rischi

Uno ha un bel da dire in senso generico dell’importanza della posta in gioco delle prossime Politiche per la Valle d’Aosta. Ci sono nell’accezione “poste in gioco” una marea di varianti e sottovarianti che ci riguardano e penso che faranno parte dei programmi delle diverse forze politiche in lizza nella nostra circoscrizione uninominale.
Segnalo intanto un tema capitale: con il taglio dei parlamentari (400 deputati e 200 senatori rispetto ai 630 e ai 315) esiste una prima conseguenza che riguarda per noi l’articolo attorno con il quale si tutela il nostro Statuto di autonomia.
Mi riferisco all’articolo 138 della Costituzione: “Le leggi di revisione della  Costituzione  e  le  altre  leggi costituzionali  sono  adottate  da ciascuna Camera con due successive deliberazioni  ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a  maggioranza  assoluta  dei  componenti  di  ciascuna  Camera nella seconda votazione.
Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.  Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti”.
Questo articolo riguarda anche il 116 della Costituzione, che nel suo primo comma richiama la nascita delle Autonomie speciali come la nostra: “Il Friuli-Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Südtirol e la Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale”
Questo articolo – tenetelo bene a mente – può dunque essere modificato con il procedimento descritto con il citato articolo 138, quindi con l’applicazione o meno del referendum, come previsto dalla norma.
Ebbene, con il già citato taglio dei parlamentari, bastano 267 deputati e 134 senatori per modificare la Costituzione senza referendum. Questo fragilizza il nostro Statuto.
In analogia, ma senza l’impiego del referendum, può avvenire con modifiche di origine parlamentare o di iniziativa regionale direttamente sullo Statuto di autonomia in vigore. Così si legge all’articolo 5° del nostro Statuto nella versione attuale: “Per le modificazioni del presente Statuto si applica il procedimento stabilito dalla Costituzione per le leggi costituzionali.
L'iniziativa per la revisione appartiene anche al Consiglio della Valle.
I progetti di modificazione del presente Statuto di iniziativa governativa o parlamentare sono comunicati dal Governo della Repubblica al Consiglio regionale, che esprime il suo parere entro due mesi.
Le modificazioni allo Statuto approvate non sono comunque sottoposte a referendum nazionale “.
Chiara l’applicazione del meccanismo?
Per questo si è sempre detto, in assenza di formule di protezione con l’auspicata intesa da parte regionale sulle modifiche parlamentari dello Statuto, della fragilità, oggi accentuatasi, del nostro ordinamento, che venne concesso (octroyé) dalla Costituente con una modellista che di fatto nega un principio pattizio, come sarebbe stato in uno Stato federale.
Per questo la diminuzione dei parlamentari, oltra a penalizzare le zone di montagna con il disegno in Italia dei nuovi collegi centrati più sulle città, assume un elemento di rischio che ci obbliga ad essere molto vigili.

Viaggiare per capire

Viaggiare è bello. Serve a capire gli altri nel rapporto con noi stessi. Le varianti culturali di fronte alle quali ci si trova hanno tratti singolari nel solco dell’appartenenza alla stessa umanità. Non tutto è rose e fiori ed è giusto poter esprimere giudizi liberi, pur nel rispetto reciproco, nel nome di certi valori occidentali che non consentono un relativismo culturale senza confini.
Ci pensavo, reduce da un viaggio a Bali, isola che fa parte della grande Indonesia. Anche in questo caso, con i miei cari, abbiamo cercato di non vivere nella bolla del resort per turisti, ma di vedere che cosa c’è attorno nei limiti che derivano da un breve soggiorno.
Questo significa uscire, per quanto possibile, dai tour più standardizzati da cartolina e, con l’ausilio di brave guide che sappiano creare un rapporto umano e culturale, cercare di capire qualcosa.
Bali - che si appresta ad ospitare il G20 - è una mecca del turismo internazionale, ma è anche un angolo di osservazione interessante.
Una larga parte dell’isola resta legata alle pratiche agricole tradizionali, di cui l’aspetto più stupefacente è l’antica coltivazione del riso in zone collinari con sistemi tradizionali di lavorazione dei terreni e irrigazione che colpiscono per la profondità delle pratiche ancora in uso.
Utile sapere, in un’Indonesia dove - specie a Giava - si agitano i fantasmi brutali del fondamentalismo islamico, della capacità dei balinesi di far convivere diverse religioni in certi templi. Altrettanto toccante è la diffusione delle pratiche religiose fra il mare e le montagne vulcaniche, fra spazi familiari e logiche collettive nella vita di villaggio.
Certo l’assoluta invasione di scooter che invadono e paralizzano la viabilità, rendendo improbo ogni spostamento, è la cartina di tornasole di modelli di sviluppo che suonano come un allarme rispetto alla retorica sulle misure di contrasto al cambiamento climatico. Si capisce perché larga parte dei Paesi del mondo arranchi nell’ accettare misure di contenimento e di mitigazione dei fenomeni che innescando il riscaldamento globale. E l’Occidente potrà fare le scelte più oculate, ma i Paesi che mantengono crescite demografiche enormi pretendono qualità e stili di vita, che noi abbiamo raggiunto ed è difficile fare loro la morale!
Resta il valore supremo della conoscenza e dello scambio per capirsi meglio e anche per fissare con chiarezza lo spazio di dialogo fra le culture diverse. Bisogna farlo sempre con tolleranza e intelligenza, ma anche con la consapevolezza che le nostre lenti di lettura - quelle degli Stati di diritto con Costituzioni democratiche, pur con tutti i loro limiti - devono sempre essere ben presenti per non derogare a idee e principi a fondamento del nostro patrimonio di idee e valori. Anche per questo molti Paesi non sono più visitabili e ogni volta bisogna approfondirne le ragioni e le spiegazioni non sono mai belle.
Resta la voglia di ripartire, come dice Josè Saramago: “Non è vero. Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto:”Non c’è altro da vedere”, sapeva che non era vero. La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in Primavera quel che si era visto in Estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era. Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre”.

Il naufragio e lo stoccafisso

Mi viene in mente il piccolo negozio di alimentari, scomparso da decenni. In un angolo - direi per soddisfare in primis i molti veneti immigrati a Verrès, il mio paese valdostano - c’era una bacinella con dentro lo stoccafisso, che non è altro che il merluzzo conservato intero per disseccamento. Infatti la parola viene dall’olandese stocvisch, da stoc ‘bastone’ e visch ‘pesce’, perché il pesce viene essiccato su impalcature fatte di pali.
Mi ero sempre chiesto cosa diavolo c’entrasse lo stoccafisso - prodotto del Grande Nord - con il Veneto, quando l’arcano assai singolare mi è stato svelato da un articolo di Niccolò Rinaldi con cui lavorai a Bruxelles, che mi rimbalzato su di un libro - che poi ho letto - intitolato “Infelice e sventuratta coca Querina”, che racconta del naufragio dei Veneziani nel mare del Nord.
Così sintetizza con un’immagine poetica lo stesso Rinaldi: “Scopriamo la fraternità dei tracciati di geografia, cultura, tradizioni, avventure, sentiamo il mondo intero come una sola casa, in luoghi che parlano e tacciono, come una lapide in un‘isola remota, alle Lofoten.
Lontano, a tavola a Venezia, un piatto tipico offre la stessa epifania, racconta la stessa storia.”.
La storia è questa: “Ricorda un naufragio di sei secoli prima, quello della nave veneziana Querina, affondata al largo dell’Irlanda e poi alla deriva per sette mesi.
Alcuni marinai morirono divorati letteralmente dai pidocchi che scavarono la pelle fino ai nervi, altri sopravvissero bevendo urina mescolata con zenzero e qualche spezia. Solo due scialuppe approdarono miracolosamente nel gennaio del 1432 all’isola norvegese di Røst. Dei sessantotto membri dell’equipaggio, ne sopravvissero sedici, e tra questi il comandante Pietro Querini”. È lui l’autore del racconto delle loro vicissitudini in una lingua, tratto da manoscritti in lingua veneta o meglio veneziana.
Spiega ancora Rinaldi: “Erano partiti dalla solare Creta e dovevano sbarcare spezie e vino nelle Fiandre, e invece la destinazione finale fu una terra sconosciuta e dura, e delle mercanzie non avevano più nulla. Ai pochi abitanti delle Lofoten apparvero come marziani, signori malridotti ma subito percepiti come appartenenti a una cultura superiore, cosmopoliti e con un codice comune: quello delle genti di mare, dei mercanti viaggiatori. Soprattutto, condividevano con loro la fede in Cristo, e subito i pescatori condivisero il poco che avevano. Richiamato dall’arrivo di quei naufraghi malconci ma illustri, un sacerdote con poche parole di latino riuscì a intendere la loro storia”.
Ed è li che scoprirono l’antica tecnica locale di conservazione del pesce, seccato -come già detto - all’aria aperta.
Osserva ancora Rinaldi: “Rifocillati e arrivata la primavera, i veneziani poterono ripartire per il lungo viaggio terrestre verso casa. Tornarono sani e salvi a Venezia, portandosi dietro sessanta di quei merluzzi saporiti e duri come il legno.
Si rivelò una scoperta provvidenziale per le provviste di ogni spedizione navale e a Venezia fu trasformato facilmente nel baccalà, cucinato e mantecato, come ancora oggi. Nei confronti di quei pescatori norvegesi la gratitudine si trasformò in una relazione commerciale e cominciarono le importazioni. Ancora oggi buona parte dei quaranta milioni di chili di merluzzo delle Lofoten sono esportati in Italia”.
Una storia avvincente e dettagliata che il libro esprime con un’introduzione accademica di Andrea Caracausi e Elena Svalduz, che spiega bene lo stupefacente ruolo di Venezia. Concludo a proposito con questa citazione: ““Al di là del suo valore documentario, il resoconto del viaggio della “cocca querina” rappresenta un tassello importante non solo per il tema dei rapporti commerciali di Venezia con il Nord Europa e le conoscenze cartografiche a esso correlate, ma anche–da un punto di vista più socio-antropologico–per l’incontro con popoli sconosciuti e le modalità con cui entrarono in rapporto. Dal punto di vista commerciale bisogna in primo luogo ricordare come l’esperienza del Querini si legasse almeno in parte a un sistema già ampiamente in vigore, quello degli scambi europei fra Tre e Quattrocento. L’integrazione fra Europa settentrionale e meridionale, fra Baltico e Mediterraneo, era il risultato di contatti e interazioni frequenti che vedevano i porti di Bruges e Londra nodi centrali nello scambio di materie prime o prodotti finiti, quali lane, stagno, pelli dal Nord e spezie, cotoni e vini dal Sud, senza dimenticare tessuti, preziosi e altri generi alimentari che viaggiavano nell’uno o nell’altro senso. Questo incontro “europeo”, è bene ricordarlo, altro non era se non un piccolo segmento all’interno di una ben più vasta rete di scambio che partiva dall’Estremo oriente e che, attraverso carovane di terra e vie di mare giungeva fino al Mediterraneo orientale, portando i ricchi e pregiati prodotti asiatici, i cui paesi (India e Cina su tutti) erano leader della produzione artistica e tecnologica mondiale. Un paesaggio quindi ben più ampio, dove la “piccola” Europa era ben lontana dall’essere al centro di questa rete, rimanendo invece il più delle volte debitrice nei confronti delle più avanzate economie orientali. Venti e tempeste regnavano sovrane all’interno di questo quadro, rendendo l’attesa (e la pazienza) uno degli elementi principali”.

Una candidatura alla luce del sole

Ho posto la mia candidatura per le prossime elezioni politiche. L’ho fatto nel tavolo dell’alleanza politica che è poi la stessa che governa la Regione. In realtà il mio interesse era già ben noto e chi ha finto stupore lo ha fatto recitando una parte.
Mi pare che sia stato legittimo propormi per un lavoro che conosco come le mie tasche. L’ho fatto alla luce del sole, pur in presenza dell’impressione sgradevole che le scelte fossero state già compiute fuori dagli incontri ufficiali.
Quando, dopo questo annuncio, si sono evidenziati troppi silenzi - non quelli dei molti cittadini-elettori che sono fatti vivi come me a sostegno - e tanti attori della vicenda “non si sono più fatti sentire” o lo hanno fatto con altri per spiegare i problemi causati dalla mia scelta, questa mia impressione di “les jeux sont faits” è apparsa più che evidente. Non coglierlo può anche fare di me un Don Chisciotte contro i mulini a vento, ma non me ne preoccupo. Per altro il personaggio del cavaliere errante di Cervantes.è più complesso e interessante di quanto si pensi ad un esame superficiale.
Preciso che quanto sta avvenendo non è un fatto personale e lo si è chiarito bene all’Union Valdôtaine da parte di noi “altri” autonomisti, perché - per dire - nessuno ha contestato la scelta del Mouvement di candidare Franco Manes come proprio espressione, ma l’accelerazione dell’altra candidatura, quella di Robert Louvin, avvenuta senza essere consultati, è apparsa come uno strappo evidente verso quel processo di riunificazione delle forze autonomiste che ormai da tempo dovrebbe partire e nella realtà dei fatti non parte mai. Direi a dispetto del lavoro fruttuoso della componente autonomista in Giunta e in Consiglio regionale.
Una logica di figli e figliastri che non convince e sembra esserci ancora oggi una specie di fatwa verso chi scelse in certi momenti l’abbandono dell’Union, mentre per chi lo fece in epoca precedente sembra valere una sorta di prescrizione del…reato.
Ma la sostanza finale del ragionamento è duplice. Da una parte penso di avere conoscenze e competenze per poter essere in lizza per la candidatura senza che nessuno si adombri. Dall’altra la posta in gioco per le prossime elezioni farebbe tremare i polsi a chiunque per l’incertezza degli esiti e chi si fa avanti dovrebbe essere trattato con rispetto e non considerato da alcuni un rompiscatole che mette in discussione esiti da acquisire come se nulla fosse e senza tenere conto delle scelte politiche future.
Le prossime ore scioglieranno legittimamente il nodo e personalmente sono contento di aver sollevato la questione, che riguarda non solo Roma ma anche Aosta con le fragilità che ben conosciamo e la seria sfida è l’avvenire dell’Autonomia.
Orizzonte inquietante per chiunque abbia buonsenso e visione.

Lassù sullo Zerbion

Confesso di aver avuto la fortuna di leggere in anteprima per antica amicizia la ricerca di Pier Giorgio Crétier, da sempre studioso appassionato della storia di Saint-Vincent, dedicata in un recente libro alla Madonna dello Zerbion. Un esempio di quel culto mariano che mi ha sempre incuriosito per la necessità che ebbe il cristianesimo delle origini di concepire, come in gran parte delle religioni preesistenti, una forte figura religiosa al femminile.
La vedo questa statua svettante dal balcone di casa mia e naturalmente ho già raggiunto a piedi dai diversi itinerari possibili questa vetta suggestiva. Garantisco di come da lassù si goda di un panorama particolare ad ampio raggio, che ripaga dagli sforzi della salita.
Come dicevo, svetta la statua della Vergine su questo nostro Zerbiòn (questo l’accento giusto!), la montagna di 2772 metri, spartiacque imponente e colorato tra la Valle centrale, la Valtournenche e la Val d’Ayas. Come molte altre cime dai diversi fondovalle acquista specifiche e cangianti personalità.
Una premessa, tuttavia, è d’obbligo: le montagne - l’ho visto ancora di recente in visita in un Paese asiatico - sono simboli di fede e lassù vivono le divinità e in gran parte delle religioni esiste un culto legato a questa verticalità che ci avvicina al cielo. Sulle Alpi, come in altre catene montuose a seconda dei diversi culti, si pizzano segni di devozione e di spiritualità.
Viene in mente l’enciclica del 2015 sull’Ambiente di Papa Bergoglio in cui cita san Giovanni della Croce, nato nella Vecchiaia Castiglia spagnola.
Collaboratore di santa Teresa d'Avila nella fondazione dei Carmelitani Scalzi, Dottore della Chiesa, universalmente riconosciuto come mistico per eccellenza.
Eccola: "Le montagne hanno delle cime, sono alte, imponenti, belle, graziose, fiorite e odorose. Come quelle montagne è l'Amato per me. Le valli solitarie sono quiete, amene, fresche, ombrose, ricche di dolci acque. Per la varietà dei loro alberi e per il soave canto degli uccelli ricreano e dilettano grandemente il senso e nella loro solitudine e nel loro silenzio offrono refrigerio e riposo: queste valli è il mio Amato per me".
Ma torniamo alla storia avvincente sulla statua grazie ai documenti e alla buona penna di Crétier. La statua nasce come promessa fatta a protezione degli Alpini di Saint-Vincent impegnati nella Grande Guerra, una sorta di grande ex voto, anche se ben 43 giovani del paese persero comunque la vita nel conflitto in montagne distanti di casa. In anni in cui - paradosso rispetto alla brutalità della Prima guerra mondiale - il termalismo era fiorente nella cittadina ai piedi dello Zerbion con una mondanità probabilmente mai più avuta in altri tempi.
Concepita dall’artista piemontese Leonardo Bistolfi, la statua di 7 metri si eleva sino a 14 con il piedistallo. La costruzione- e il libro ne dà conto - ebbe tutte le sue traversie “burocratiche”, mentre si risolveva la questione tutt’altro che secondaria del reperimento dei fondi con la complicazione del fallimento del Crédit Valdôtain dove giacevano i fondi.
Crétier aggiunge nei diversi capitoli accurate ricostruzione di che cosa avvenne negli anni che intercorsero fra il primo dopoguerra e la fatidica erezione, infine, della statua a nel 1932 e dunque novant’anni fa con soddisfazione e tripudio in piena epoca fascista e dunque con tutta la retorica del Regime.
Altre curiosità e molti aneddoti accompagnato la lettura con un interessante apparato iconografico, che conferma per l’ennesima volta l’acume e la precisione di Pigi, cui andrebbe fatto sin da ora un monumento per la sua attività dedicata in modo certosino alla storia locale, altrimenti destinata ad un barbaro oblio.
La mancanza di memoria delle terre dove abitiamo e che percorriamo è un autentico delitto e lode a chi si fa carico di non perdere il fil rouge delle comunità.

Riavere un Club Med

La storia è interessante ma non originale: molte imprese di successo oggi multinazionali sono nate da un’idea apparentemente banale poi gonfiatasi nel tempo. Ci sono sempre dei precursori.
Penso al Club Med, un tempo francesissima ( le la francofonia resiste abbastanza) e oggi a capitale cinese, la cui storia conosco personalmente nella parte che riguarda gli ultimi 40 anni, essendo stato per la prima volta in vacanza nel lontano 1982 con destinazione Turchia. Poi negli anni seguenti ho girato il mondo con loro e lo faccio ancora oggi, anche se molte cose nella mia stessa esperienza sono cambiate e per onestà non sempre in meglio.
Cerco la storia e le radici sono qui: “Tout a commencé l’été 1950 à Alcúdia, petit hameau de pêcheurs des Baléares, où Gérard Blitz, un ex-champion de water-polo, eut l’idée de planter un village de tentes. Il développera, par la suite, le Club en association avec Gilbert Trigano, fabricant de tentes et de matériel de camping”.
Poi l’espansione progressiva su tutti i Continenti e lo spostamento, oggi con tridenti al posto delle stelle dei nostri alberghi, prima dalle capanne ai bungalow e oggi in strutture alberghiere vere e proprie. Si pagava all’inizio con palline di plastica colorate secondo il valore, acquistabili per le consumazioni (ma non per pagare i celebri buffet), mentre oggi si è arrivati al microchip attaccati al polso.
La joie de vivre e una logica internazionale sono sempre state stata la filosofia di mitici capivillaggio e dei GO, cioè gli animatori, che fanno di tutto, compresi gli immancabili spettacoli e l’animazione club per bambini e ragazzi.
Quasi sempre per me è stata una bella esperienza prima da solo, poi con amici e fidanzate e infine in famiglia: una scarpa per ogni piede e lo è in parte ancora oggi.
Purtroppo l’unico Club Med in territorio valdostano, quello di Cervinia, ormai obsoleto e poco pubblicizzato, ha chiuso nel 2020 dopo un lungo sodalizio. La struttura sarà Valtur, che per decenni ha fatto di Pila meta di vacanze soprattutto dei romani.
Oggi il solo Med montano italiano è situato in Piemonte a Pragelato sulle ceneri delle Olimpiadi e aprirà anche a Sansicario nella medesima zona. Intanto è stato inaugurato da poco anche l’enorme Med di La Rosière (la cui costruzione è stata enormemente agevolata dalle amministrazioni locali), che sfrutta anche il versante di La Thuile attraverso la zona del Piccolo San Bernardo.
Spero - e lo dico sapendo la nomea del Club per la montagna e non solo per il mare come in origine - che torni anche in Valle e sarebbe bello che proprio a Cervinia (mi hanno detto che qualcuno se ne sta occupando) tornasse il Med. Per altro negli anni a venire si scierà con certezza sempre più in alto e l’annata nera con chiusura del Plateau Rosa in epoca un tempo considerata impensabile penso che sarà un’eccezione e non una regola. Certo gli investimenti vallesani con i famosi nuovi impianti attuali e del recente passato sono frutto di calcoli mai avventati nelle mani elvetiche.
Non bisogna come valdostani essere chiusi rispetto agli investimenti di grandi gruppi che, come più volte dimostrato, fanno da lepre a investimenti locali e familiari, che hanno un loro spazio prezioso. Pensiamo al ruolo di Planibel proprio a La Thuile, che ha mancato negli anni - ma nuovi investimenti rendono speranzosi - il necessario ammodernamento della struttura per un complicato sistema de proprietà e gestione.
La presenza importante degli svedesi proprio a Cervinia fa storcere qualche naso, ma questo è il mercato che occupa legittimamente spazi e per fortuna la legislazione valdostana non consente logiche speculative e anzi gli aiuti nel settore alberghiero restano un caposaldo per stimolare per tutti i potenziali investitori quell’ossigeno economico che è il turismo.
In passato me ne occupai in diversi ruoli e devo dire che restò convinto della straordinaria varietà di offerta in uno spazio geograficamente ridotto, in cui c’è spazio per diversi tipi di turismo complementari e non alternativi fra di loro.

Un giorno verrà

Sono stato via qualche giorno in vacanza. Devo dire che ci voleva: ho sempre detto che, quando è possibile farlo, staccare fa bene.
Consente non solo di riposare, ma anche di allontanarsi dalla routine, guardando le cose in modo diverso. Questo vale anche per la politica, attività che mai finirà di stupirmi, malgrado ci bazzichi da decenni.
Se qualcosa è cambiato rispetto al passato, sta nel fatto che proprio quello “staccare” non è proprio così vero. Inutile fingere: il sottoscritto, come ormai quasi tutti, porta in vacanza anche questo aggeggio che chiamiamo ”telefonino”, come si incominciò a fare quando spuntò nelle nostre vite. Allora serviva solo per telefonare.
Il primo portatile, se ricordo bene, era un oggetto cult della macchina blu della Camera dei deputati quando ero Segretario di Presidenza della Camera all’inizio degli anni Novanta. Faceva strano poter telefonare negli spostamenti di lavoro con questo oggetto grande e grosso. Poi arrivò non molto tempo dopo il primo telefonino, un Motorola microTAC, sostituito in seguito da un Nokia Communicator
con cui potevo scrivere e entrare in Internet. Una premessa al cambiamento.
Infatti la vera e propria rivoluzione è stato l’IPhone con cui amoreggio - cambiando modelli che muoiono programmati - da 15 anni. Una creatura perfida per la sua capacità attrattiva, obbliga ad unapvera e propria dipendenza, che consente ormai una miriade di utilizzazioni con propri servizi e con la marea di App che si aggiungono ad occupare il tuo tempo.
Questa invasione nella propria vita, rispetto alla quale non è facile autoregolarsi, è ben visibile anche in vacanza, ovunque si vada. I primi tempi un po’ ci si vergognava a manovrare il cellulare (anche così lo si chiamava agli esordi). Oggi al mare o in montagna - poco importa il luogo di vacanza - sparisce gran parte dell’antica socialità perché ci ritroviamo immersi negli schermi, cui si sono aggiunti allettanti modelli di tablet.
La realtà è che siamo sempre più connessi in Internet e sconnessi dalla realtà in cui ci troviamo. Lo dico con consapevolezza di esserne vittima e mi rendo conto di quanto perdiamo, specie in vacanza, in osservazioni, scoperte, conoscenze.
Appare ormai saltata anche ogni elementare forma di bon ton. Mentre parli con qualcuno scopri che lo stesso armeggia con i messaggi. Ci sono persone che fanno collegamenti video con le famiglie dai posti più impensati, come dei veri telecronisti, rompendo le scatole a tutti gli astanti. Ci sono persone che scrivono messaggi o mail a tutte le ore e solo zittire il telefono la notte ti salva da una presenza h24, festivi compresi.
Fra noi tutti ridiamo e scherziamo di tutto ciò, ma ad un certo punto conveniamo sul diritto alla disconnessione per non lavorare sempre e non essere sempre disponibili e dunque in una perpetua e insana fibrillazione con la paranoia dell’immediatezza dell’ interlocuzione.
Non so come ne usciremo e quando cominceremo ad impiantarci sistemi di trasmissione direttamente sui corpi, come già annunciavano film di fantascienza di serie B. Il “si salvi chi può” forse verrà garantito da luoghi di vacanza senza connessione o con l’obbligo di lasciare in cassaforte in albergo proprio il telefonino.

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