San Grato contro le cimici

Le “punaises de lit” (cimici del letto) sono diventate in Francia un problema politico per la sua spropositata diffusione e ne hanno discusso all’Assemblée Nationale.
Presenti in Natura sin dai tempi dei dinosauri che ne erano pieni, si sono poi interessati a noi mammiferi e oggi si contano 34 specie diverse che ci pungono, succhiano il sangue e lasciano una macchia rossa che prude sulla pelle.
A me è capitato in un club vacanze di esserne vittima ed è sgradevolissimo. Scriveva giorni fa un giornale francese “11 % des foyers auraient été infestés par des punaises de lits entre 2017 et 2022. Parmi eux, 32 % l’ont été en 2019, un pic, alors que ce chiffre a chuté à 8 % en 2022. Si les données des particuliers sont bien connues, celles concernant les espaces accueillant du public le sont moins et la réalité est difficile à estimer”.
Si parla di cifre impressionanti negli hotel, nei trasporti pubblici, nei cinema e persino negli ospedali. Non è facile eradicare questo parassita e l’edizione francese di National Geographic scrive: “Les déplacements dans le monde ont augmenté ces dernières décennies, ce qui permet aux punaises de lit de se propager à travers le globe et de trouver de nouveaux hôtes tous les jours. Par la suite, les populations de punaises de lit ont largement garni leurs rangs durant ce temps-là, et beaucoup d’entre elles résistent désormais sans mal à une multitude de pesticides du marché”.
Ora sul sito in francese dei Santi Aleteia” spunta come rimedio il nostro San Grato, Patrono della Diocesi valdostana, festeggiato con tanto di reliquie il 7 settembre.
Così si legge nel riassunto iniziale: “Depuis quelques semaines, les médias spéculent sur une potentielle recrudescence de punaises de lit, notamment dans les lieux publics. Un phénomène difficilement quantifiable mais à l’origine d’une véritable psychose que les autorités tentent d’enrayer. (…) Certains sont saisis d’angoisse à l’idée de ramener l’importune bestiole chez eux, quand d’autres vivent un véritable enfer pour s’en débarrasser. Bref, nul ne sait plus à quel saint se vouer. Et si un évêque du Ve siècle se révélait être un intercesseur efficace pour s’en protéger? Saint Grat, évêque d’Aoste, nous semble tout indiqué. Non pas parce que son nom évoque les démangeaisons causées par les piqûres de l’indésirable insecte (quoique la phonétique est assez troublante : saint Grat/san Grato en italien/gratter), mais parce que l’évêque d’Aoste était traditionnellement invoqué pour éloigner les nuisibles des champs. Un domaine dans lequel saint Grat devait exceller puisque la dévotion à son endroit, dont des traces subsistent encore aujourd’hui, était très importante dans la vallée de l’Aoste, à cheval entre la France et l’Italie. Autrefois, sans doute depuis le Moyen Âge, des processions, des messes et des invocations étaient faites régulièrement dans les pays de Savoie, afin de demander au saint valdôtain de protéger les cultures contre les insectes et les animaux nuisibles”.
La descrizione dell’attaccamento dei valdostani è ben riassunta: “Aujourd’hui encore, la dévotion envers saint Grat est vivante. Une procession est organisée chaque année le jour de sa fête, le 7 septembre, dans la ville d’Aoste, dont il est le saint patron. Ses reliques, conservées dans une châsse dans la cathédrale d’Aoste, sont alors portées en cortège dans les rues de la vieille ville. À Charvensod, toujours en Italie, l’ermitage de Saint-Grat est devenu un lieu de pèlerinage. Selon la tradition, saint Grat d’Aoste s’y isolait avec son disciple Joconde pour méditer”.
Così prosegue l’articolo: ”Côté français, saint Grat a été le patron tutélaire de plus de 70 chapelles en Savoie, selon un décompte effectué par Sophie Sesmat, spécialiste en art populaire, pour la commission d’art sacré du diocèse d’Annecy. Une église lui est dédiée à Conflans, sur la commune d’Albertville. Mais c’est dans le petit village de Vulmix, à trois kilomètres de Bourg-Saint-Maurice, que transparaît le mieux l’histoire de sa dévotion. La chapelle Saint-Grat conserve en effet de magnifiques fresques colorées retraçant la vie du saint. Une vingtaine de panneaux peints par un artiste local influencé par les écoles italiennes, semblant remonter à la seconde moitié du XVe siècle. Traditionnellement, saint Grat est représenté portant la tête de saint Jean Baptiste car il serait à l’origine de la translation du chef de saint Jean Baptiste d’Orient en Occident. Une gerbe de blé, symbolisant les cultures qu’il protège, complète parfois son iconographie.
Un saint dont la réputation demeure encore très locale mais qui sait ? Les punaises de lit pourraient bien changer la donne. En effet, dans un acte de foi, pourquoi ne pas lui confier la protection de sa maison, lui qui a su durant des siècles éloigner les nuisibles des champs?”

La vita degli oggetti

Nella casa dei miei genitori, oggi resa triste e vuota dalla loro scomparsa, emergono oggetti dal passato, che specie mia madre era restia a buttare, in una logica di accumulazione tipica di generazioni del passato. Peggio di lei erano i miei nonni materni: li collegava l’idea che certe cose potessero prima o poi tornare utili. Altro che economia circolare! Noi, generazioni dello spreco, stentavamo a capire e invece oggi certe cose rinvenute riempiono di nostalgia e dimostrano un’intrinseca utilità, spesso perché l’ultimo filo che ci lega a papà e mamma che non ci sono più.
Prima o poi in quella casa bisognerà sbaraccare tutto ed è triste ma ineluttabile liberarsi di scenari dell’infanzia, che sono ancora un segno dei posti dove siamo cresciuti e ci sono particolari che solo noi conosciamo e sono come tracce sulla sabbia destinate a sparire con noi. Esattamente come il cumulo di vecchie fotografie con persone scomparse che ci sorridono perlopiù in bianco e nero.
Mi è venuto così da pensare - per un’analogia tutta mia - a certi oggetti che ci sembravano immortali nel loro uso e che, invece, sono spariti di scena, travolti dai cambiamenti.
Ogni tanto io stesso trovo cimeli del tempo che fu: penso per la musica alle cassettine o ai compact disk (CD) e poi al rivoluzionario walkman, ai lettori mp3 o ai floppy disc per conservare i dati. Tutti questi strumenti apparivano già il top della modernità e invece si sono fatti superare a gran velocità da molte novità. Resta cerco - lo ripeto come un mantra usurato - come mai nessuna generazione precedente ha dovuto subire cambiamenti che, per riffa o per raffa, sono legati a quelle che un tempo venivano chiamate nuove tecnologie e oggi sono tutte in modo unitario riportabili alla rivoluzione digitale nel suo complesso.
Riavvolgendo il nastro, ero invidiosissimo di chi sfoggiava il cercapersone, che mi sembrava l’ultima thule ed invece era un fuoco di artificio, spento subitaneamente dall’incalzare dei telefonini, dagli esordi sino agli ultimi mirabolanti modelli che ci ipnotizzano.
Ero così curioso di fronte al primo fax con la sua carta chimica che si arrotolava, mentre oggi sembra un cigolante ferrovecchio, così come quello strano trillo con cui agli inizi ci si collegava faticosamente con il nonno dell’attuale Web.
Oggi che si ascolta la musica con mille accrocchi, mi faccio tenerezza a pensare a quanto agognassi a certe autoradio estraibili che campeggiavano nelle macchine ormai d’epoca come se fosse un trofeo. Le nascondevamo sotto il sedile e il tossico astuto la individuava e spaccava il finestrino per rubarla.
Mi è capitato di rinvenire rullini fotografici o negativi, che sono come sopravvissuti su di un’isola deserta in un cassetto assieme a videocassette di diverso formato e a videoregistratori di cui non si sa bene come disfarsi. Purtroppo la mancata digitalizzazione porterà certi supporti all’oblio e condannerà le relative immagini all’ineluttabile scomparsa.
E cosa dire delle povere mappe stradali cartacee, un tempo preziose e ora destinate al macero e ci si domanda legittimamente come facevamo a raggiungere certe mete senza la voce del navigatore. Chissà che fine avrà fatto il ciclostile con cui da ragazzi si facevano i volantini delle proteste studentesche (ad Aosta la base erano PCI e CGIL, che cercavano di strumentalizzare la nostra ingenuità adolescenziale) e le macchine da scrivere con cui ho iniziato il mio lavoro di giornalista sembrano ottocentesche, cui seguirono i primi computer finiti poi in discarica ormai agonizzanti.
Pensiero in libertà su pezzi di vita e di cuore, che sembrano lontanissimi nel tempo.

L’antisemitismo che aleggia

Il commissario europeo Thierry Breton aveva inviato a Elon Musk una lettera per chiedergli di intervenire contro le informazioni fuorvianti su quanto sta avvenendo in Israele e che circolavano in queste ore in abbondanza proprio su X già Twitter, di cui il bizzarro e geniale imprenditore è diventato proprietario con parecchi cambiamenti al Social che - lo dico incidentalmente - rischiano di pregiudicarne i destini.
La piattaforma X di Elon Musk ha risposto, anche per il rischio di una chiusura manu militari, sostenendo di aver segnalato o rimosso "decine di migliaia" di post sull'attacco di Hamas. Ha detto la Ceo della società Linda Yaccarino. "Dopo l'attacco terroristico a Israele, abbiamo preso provvedimenti per rimuovere o segnalare decine di migliaia di contenuti", in risposta alle critiche dell'Unione europea.
In effetti avevo letto in queste ore su X un mare di fake news, di cattiverie e di polemiche speciose, rese facili specie da chi si nasconde dietro nomignoli che rendono anonimi, refugium peccatorum di molti pavidi.
Interessante che in Francia si discutano in Parlamento meccanismi identificativi che impediscano sui Social di agire mascherati.
È palese, come scrive Franz-Olivier Giesberg su Le Point, un ritorno sulla scena in modo prepotente il mai cessato antisemitismo, che si evidenzia in posizioni politiche ambigue di certe forze politiche, che hanno impedito nel Parlamento italiano di avere un documento unanime sulle vicende in corso ed è una vergogna!
Così inizia l’editoriale: ”Ne tournons plus autour du pot : l’antisémitisme est un et indivisible. Qu’il soit européen ou arabe, il a le même objectif, symbolisé par la rencontre entre Hitler et le grand mufti de Jérusalem Amin al-Husseini, en 1941 : la destruction des Juifs.
Furieusement antisémite est le Hamas, bras armé de l’Iran, né dans le creuset des Frères musulmans, qui a lancé en plein shabbat une nouvelle offensive contre Israël. Dans sa charte originelle, parue en 1988 et amendée depuis, sans en changer l’esprit, il dénonce, comme les nazis hier, le complot juif mondial relayé par la franc-maçonnerie ou… le Rotary et le Lions Clubs. Pour justifier son combat contre les Juifs, il se réfère même à leur « plan » de conquête de la planète, figurant dans les Protocoles des sages de Sion, faux avéré sur lequel s’appuyait aussi Hitler dans son bréviaire Mein Kampf.
«La Palestine est une terre islamique […] pour toutes les générations de musulmans jusqu’à la Résurrection », assure la charte du Hamas, qui entend en finir avec « l’invasion sioniste » pour installer un État théocratique islamique. Y sera ensuite planté « l’étendard de Dieu sur chaque parcelle de la Palestine ». On est prévenu : c’est en un nouveau « chariastan » que ses ennemis veulent transformer Israël, qui, rappelons-le, est la seule démocratie de la région depuis que le merveilleux Liban a été mis en coupe réglée par le Hezbollah, créature de l’Iran”.
Mi fa ribrezzo pensare a chi anche sulle piazze italiane, arabi e occidentali che siano, festeggiano i successi di Hamas e i lutti di Israele. È ora di perseguire questi manifestanti per apologia del terrorismo, perché si tratta di complicità con assassini.
Riprendo il filo dell’articolo, poco più avanti, denunciando anche i partiti in Francia che non hanno di fatto condannato Hamas: ”L’Histoire est faite pour être falsifiée. Depuis des décennies, les antisémito-sionistes prétendent que, pour créer leur État, les Juifs ont envahi puis occupé les terres ancestrales des Arabes. Il y a, hélas, de plus en plus d’incultes pour croire à ces fadaises, à l’instar des députés de la Nupes qui, il y a peu, signaient une motion ignoble contre le « régime d’apartheid » d’Israël alors que les Arabes (plus de 20 % de la population) y ont les mêmes droits que les Juifs. Qu’importe si ces derniers sont là depuis plus de trois millénaires. À force d’être répété, le mensonge devient vérité révélée et les voilà devenus oppresseurs, illégitimes sur leurs terres de toujours.
La Palestine aux Palestiniens ! s’époumonent les antisionistes de Panurge, à LFI (ndr: La France Insoumise di Melenchon, leader della Sinistra) ou ailleurs. Sauf que les vrais Palestiniens, historiquement, ce sont… les Juifs ! Leur pays s’est appelé un jour la Palestine parce que, au IIe siècle de notre ère, après l’une de leurs révoltes, l’empereur romain Hadrien avait décidé, pour mieux les effacer, qu’ils seraient appelés du nom de leurs ennemis de toujours, les Philistins, mot qui se transforma en Palestiniens. L’État juif portait le nom de Palestine quand, après un plan de partage avec les Arabes qui le refusèrent, il fut proclamé en 1948, sous l’égide de l’ONU. Ses fondateurs le rebaptisèrent Israël. La même année, lorsque ses voisins tentèrent en vain de le tuer dans l’oeuf, le quotidien Paris-Presse titra, comme tant d’autres : « Les forces arabes coalisées envahissent la Palestine ».
Autochtone, le peuple juif est apparu étranger sur ses propres terres aux yeux des ignares et des jobards quand, au début des années 1960, à la faveur d’un incroyable tour de passe-passe, les Arabes adoptèrent à leur tour l’appellation de Palestiniens. « Ce peuple n’a rien à faire là », proclame, depuis, l’internationale des antisémites et des antisionistes”.
Quante volte sento ripetere, invece, dell’estraneità per gli ebrei della terra che fu loro!
Il finale è del tutto condivisibile: ”Les grandes consciences intiment à Israël de faire la paix. Mais comment négocier avec une organisation, le Hamas, qui ne vous reconnaît pas, ne veut pas parler avec vous et prône votre propre destruction ? En attendant, les manifestations de joie et d’hystérie éradicatrice, un peu partout en Occident, en disent long sur le nouvel antisémitisme qui se propage dangereusement aujourd’hui via l’islamisme, l’extrême gauche et une certaine bien-pensance médiatique. Comme le dit si bien en une fameuse formule le traducteur américain de la pièce de Bertolt Brecht La Résistible Ascension d’Arturo Ui, satire de la montée du nazisme : «Le ventre est encore fécond d’où a surgi la bête immonde»…”.
Orrori presenti - la bestia immonda - con solidi precedenti nel passato e c’è chi, certo non Israele, vuole farci tornare ad un passato senza democrazia e senza diritti civili.

Lo scorrere delle vite

Penso ai miei figli, ognuno dei tre con il proprio carattere frutto del DNA e della loro formazione culturale, e fa impressione - come genitore - pensare in quale mondo vivranno. Sarò al loro fianco, con i miei pregi e miei difetti, sin che la durata della mia vita lo permetterà. Questo tempo - lo dico con un sorriso - prescinde dalla mia volontà.
Le radici ci parlano dal passato: tempo fa avevo scritto a mia figlia Eugénie, personalità acuta e a tratti caustica, una specie di prospetto di una parte dell’albero genealogico, quello che si muoveva fra Moneglia e Genova sino alla scelta di avere un ramo valdostano, di cui sono i miei ragazzi sono il frutto, con l’apporto essenziale dei rami femminili.
Così rappresentavo rozzamente: “Dunque io sono Eugénie (1997), mio padre Luciano (1958), mio nonno Alessandro (1923), mio bisnonno René (1867), mio trisnonno Paul (penso 1815), mio arcibisnonno Cesare (1771), mio quintavolo Antonio Maria (stesso secolo, probabilmente)”.
Lo scorrere delle vite si affianca al flusso della grande Storia e questo mi ha sempre fatto molta impressione. Per questo mi ha sempre incuriosito un avo precedente, Nicolò Caveri, cartografo, che all'inizio del 1500 disegnò quanto così descritto dalla "Treccani": ”Si tratta di un planisfero a colori su pergamena di ampie dimensioni (cm 115×225), del tipo nord-sud, disegnato secondo il metodo delle "rose dei venti", caratteristico delle carte tardomedievali e rinascimentali, con l'indicazione dei gradi di latitudine (da 71° lat. Nord a 57° lat. Sud). A sinistra in basso si legge la dicitura "opus Nicolay de Caverio ianuensis" ”.
In un suo intervento del 1947 all'"Accademia dei Lincei", il professor Paolo Revelli racconta della probabile amicizia tra il cartografo ed il suo concittadino Cristoforo Colombo (le famiglie possedevano dei terreni confinanti in una zona di campagna), visto che la carta tiene conto proprio delle scoperte colombiane
Quanto mi piacerebbe poterli incontrare questi Caveri del passato. Soprattutto per sapere di loro, del contesto in cui vivevano, del rapporto fra loro e la Grande Storia, fatta da mille cose che mischiano gli eventi di un’epoca con le storie personali.
Così come mi piacerebbe un futuro rose e fiori. Ricordo quel Capodanno che apri il nuovo Millennio: una frontiera temporale e un passaggio psicologico, che ci riempiva di speranze. Scherzavamo fra noi sulla favola del “Mille non più Mille”, che avrebbe angosciato la popolazione nel Medioevo allo scoccare della Mezzanotte del 999. Per poi scoprire grazie all’ottimo Alessandro Barbero con il suo rigoroso metodo storiografico quanto fosse infondata questa paura della fine del mondo: “Andiamo a vedere i cronisti dell'epoca e vediamo se ci raccontano che all'arrivo dell'anno Mille la gente era terrorizzata. Neanche un cronista ne parla”. 
Purtroppo quel che ci viene confermato dal secondo millennio - e crea inquietudine più di date millenaristiche per chi vivrà i decenni a venire - è la stupidità umana. Diceva Albert Einstein con il suo umorismo: ”Due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana, ma riguardo l’universo ho ancora dei dubbi”.
Pessimista? Mai! Mi riconosco, malgrado tutto, in una frase di Victor Hugo: ”L'avenir a plusieurs noms: pour les faibles, il se nomme l'inaccessible. Pour les peureux, il se nomme l'inconnu. Pour les courageux, il se nomme opportunité”.

L’Europa senza guerre

Singolare vedere il mondo da Bruxelles, città dove ho maturato la mia esperienza europeista grazie alla chance di essere finito a suo tempo al Parlamento europeo e alla lunga militanza ancora in corso nel Comitato delle Regioni.
È stato un insieme di casualità, più geografiche che politiche, a far scegliere la Capitale del Belgio quale centro delle principali Istituzioni europee. In fondo questa scelta di avere qui l’Unione europea, come si chiama oggi, ha fatto da collante ad un Paese che contiene due popoli, fiamminghi e valloni, che forse non sarebbero rimasti assieme senza questa occasione comunitaria. L’hanno per altro risolta con un Paese federalista che consente di convivere e Bruxelles è diventato un crocevia di funzionari e politici, che ha seguito il progressivo allargamento dell’Europa con la sola eccezione della Brexit, che i cittadini del Regno Unito si rimangerebbero, se potessero farlo.
Mala tempora currunt in questo pezzo di Storia che scorre in parallelo con la nostra vita quotidiana. La violenza terribile scorre nel sangue versato nella guerra in Ucraina e nell’aggressione cui è stata sottoposta Israele, ma tamburi di guerra li sentiamo ai confini fra Serbia e Kossovo. Migliaia di km, cioè non tanti, ci separano da questi luoghi e basta scorrere l’elenco di guerre nel resto del mondo per capire quanto noi esseri umani siamo ancora imbevuti di incapacità profonda di risolvere i problemi senza farci reciprocamente del male. Con buona pace dei pacifisti, quelli con candore e quelli che non lo hanno. Purtroppo chi guarda al mondo con le lenti rosa lascia anche spazio a chi è senza scrupoli. Di quelli non in buona fede ne vediamo tanti, prima assolvendo la Russia che invade e ora con la comprensione verso Hamas. Vale quanto scriveva Orwell nel 1945: “I pacifisti, in gran parte, sono semplicemente dei filantropi che si oppongono alla vita così com'è, senza andare oltre. Ma esiste una minoranza di intellettuali pacifisti le cui vere, ma inconfessate motivazioni, sono l'odio per la democrazia occidentale e l'ammirazione per il totalitarismo. Tutto sommato, non è difficile ritenere che il pacifismo, così come appare in una parte dell'intellighenzia, sia segretamente ispirato da un'ammirazione per il potere e per la crudeltà”.
Ma torno a Bruxelles, da dove scrivo, dopo aver trascorso giornate nei corridoi dei palazzi sede delle Istituzioni e ringrazio di aver avuto l’opportunità di conoscerne i meandri e soprattutto di capire quanto siamo fortunati ad avere Istituzioni comuni che fanno convivere dal secondo dopoguerra popoli che nei periodi precedenti se ne sono fatti di tutti i colori. Le guerre sono state una ciclica e cinica ricorrenza sul suolo del Vecchio Continente e se la democrazia europea che abbiamo forgiato sarà pure imperfetta e da migliorare, resta il fatto che ha garantito per ora la scelta del dialogo e del confronto rispetto alla violenza delle armi.
Basta andare a visitare i cimiteri militari di Strasburgo, altra città europeista dove si riunisce il Parlamento europeo in plenaria, per capire di che cosa parlo e ogni capitale europea porta i segni delle antiche ferite, rimarginate nel tempo, da quando si è scelto di convivere pacificamente. Invito sempre i giovani, anche nel loro paese natale, a guardare i monumenti ai caduti.
Amo stare a Bruxelles ed osservare le riunioni che si svolgono in questa Babele di traduzioni simultanee. I bar del Parlamento europeo sono luoghi da vedere con questo intrecciarsi di chiacchiere e sorrisi, che fanno bene al cuore, pensando che alle battaglie sanguinose si sono sostituite le discussioni infinite in aula e nelle commissioni con una dialettica spesso colorita ma non pericolosa.
Altrove si risolvono o meglio si complicano i dissidi con la violenza delle armi.

Bon ton da Whatsapp

La mia tesi di laurea era (anzi, fu, visto il tempo trascorso…) centrata sulle lettere scambiate nel Settecento fra gli illuministi milanesi e quelli ginevrini.
Da bambino, in gita scolastica e quando andavo al mare, spedivo cartoline illustrate per far sapere dov’ero.
Nei primi anni in cui ero deputato ricevevo le convocazioni attraverso telegrammi.
Sono tre esempi della messaggistica del passato.
Quella attuale che ci invade è nata nel seguente modo. Ricordo i primi SMS, che si accodarono alla nascita del telefono cellulare, come si diceva agli esordi della tecnologia che ha cambiato il mondo. L’inizio della loro storia risale al 3 dicembre 1992, giorno dell’invio del primo messaggio SMS. Durante la festa natalizia aziendale, il direttore di Vodafone Richard Jarvis riceve un messaggio sul suo cercapersone Orbitel TBU 901 dal collega Neil Papworth, ingegnere informatico. Il primo messaggio, inviato da computer, recitava “MERRY CHRISTMAS“. Il primo SMS scambiato tra due telefoni cellulari, invece, è stato inviato l’anno successivo, nel 1993, con l’esperimento di uno stagista della Nokia, il finlandese Riku Pihkonen.
Ma, saltando altre tappe e altri strumenti successivi di messaggistica, la rivoluzione si è consolidata con Whatsapp. L'applicazione di messaggistica istantanea è stata creata nel 2009 da due ex dipendenti di Yahoo, Jan Koum e Brian Acton. I due volevano creare un'app che desse la possibilità agli utenti di scambiarsi i messaggi gratuitamente, utilizzando il proprio numero di telefono e la rete Internet.
Oggi ne siamo schiavi e vittime di miriadi di gruppi i più vari che si manifestano troppo spesso a suonerie innescate.
L’aspetto significativo che più mi colpisce è il progressivo inseguirsi dello scritto e del parlato, che salgono e scendono a seconda dei momenti. Un esempio lo vedo nel mio figlio più piccolo dodicenne: non si usa telefonare con il telefonino e, a differenza mia che scrivo molto con Whatsapp ma uso molto anche parlare al telefono, allo stato attuale lui non scrive ma invia i vocali.
Già, i vocali di Whatsapp, che personalmente odio e ne ricevo troppo e mi lamento con chi me ne manda, specie in versione con minutaggio del tutto spropositato.
Leggo su La Stampa un illuminante articolo di Nadia Ferrigo.
Così inizia: ”Li detestiamo, eppure li usiamo. Qualcuno prova a difendersi, ma nessuno ci riesce davvero. Siamo in balia della loquacità altrui, costretti a sorbirci minuti e minuti di messaggi vocali che nove volte e mezza su dieci potrebbero essere riassunti in una frase o due. Il sottinteso del vocale è chiaro: io non ho tempo per mettermi a scrivere qualche cosa di sensato ed efficace, quindi tu ora devi trovare il tempo per ascoltare la mia chiacchiera”.
Ho maturato un’idea aggiuntiva: nel tempo dell’ analfabetismo di ritorno, che spesso è pure di andata, e malgrado il correttore autonomistico in molti non sanno scrivere e dunque ricorrono al microfono
Ancora Ferrigo: ”.Chiacchiera tu che chiacchiero io, i vocali sono ormai una dannazione e pure una cafonata, come spiega The Emily Post Institute, organizzazione con sede a Burlington, nel Vermont, che dal 1922 si occupa di confezionare consulenze e consigli di buone maniere”.
Interessante il bon ton anche in questo settore, che in verità - come le e-mail, altra forma analoga alle piante invasive - si sta cominciando a normare con quel che viene chiamato diritto alla disconnessione e cioè non mi devi rompere le scatole, nel settore lavorativo, in certi orari e nei giorni festivi. Ma per gli amici, conoscenti e maniaci dei gruppi non esiste ancora una sanzione anticafonaggine.
Ancora la giornalista per capire la dimensione dell’invasione dei vocali, spesso fantozziani: ”Secondo i dati raccolti da Meta ogni giorno circolano circa 200 milioni di messaggi vocali. La posizione degli esperti di galateo è netta: vietato mandarli. «Bisogna aver chiaro che si tratta di un monologo in cui non è previsto l’intervento di un interlocutore» sentenzia The Emily Post. Non il massimo della sensibilità e del rispetto per gli altri insomma. Pochissime le eccezioni tollerabili alla ferrea regola dell’astensione. Il vocale può avere un senso «solo se il tono di voce ha un significato, come per esempio un augurio di compleanno, o se la questione è assolutamente seria». Insomma va bene per le canzoncine ai bambini e se in fin di vita, in attesa di un’ambulanza, non avete la forza di digitare un messaggio e al vocale affidate le vostre ultime volontà.
C’è una regola aurea da tenere a mente: se chi vi risponde lo fa con un testo scritto, allora è evidente che vuole spezzare questa catena infernale. Aggiungiamo, un’eccezione e un veto. Veto: se dura più di tre, quattro minuti, allora qualsiasi sia il contenuto è legittimo ignorarlo. Se è una chiacchiera, un racconto, con qualcuno con cui si ha grande confidenza, si può ancora fare, ma deve far sorridere”.
Nel mio caso sorriso amaro e pure, nel peggiore dei casi, nessuna replica e il silenzio su Whatsapp imbarazza e parla da solo.
Così si conclude l’utile articolo: ”Sempre The Emily Post ha stilato le regole da rispettare nei gruppi WhatsApp, che sia la chat del lavoro o quella del fantacalcio. Fuori classifica, il vocale mandato nel gruppo: una roba da sabbia negli occhi, inaccettabile. Prima regola, mandare messaggi brevi. Secondo, se sei in dubbio tra inviare oppure no, allora non inviare. Terzo. Le emojis sono tante, carine, simpatiche «ma siete adulti, usate il linguaggio degli adulti. Cosa vuol dire un gattino con i cuori o una ballerina spagnola?». Siamo meglio di così, facciamo un piccolo sforzo.
Quarta regola. «Invitare persone a feste, matrimoni, anniversari, compleanni e altre occasioni con un jpg su un gruppo WhatsApp non è né educato né rispettoso. È solo pigro». Severo, ma giusto.
Regola numero cinque, cattiva ma definitiva. «La maggior parte delle persone si preoccupa dei tuoi pasti, delle tue battute, dei tuoi messaggi di buongiorno, dei meme sui bambini, dei video di persone che cadono o scivolano, delle tue opinioni politiche, dei tuoi figli e delle tue ultime vacanze tanto quanto tu ti preoccupi delle loro. Pensaci prima di condividerle in un gruppo WhatsApp»”.
Extrema ratio: bannare (dall’inglese ban, interdizione!) il molestatore: come una ghigliottina.

Le emergenze vere e le altre

Se guardiamo allo stato di fibrillazione della convivenza umana nel mondo, mi pare che ci siano tutte le ragioni per preoccuparsi. Oggi una guerra mondiale non solo creerebbe sin da subito le tragedie dovute agli armamenti nucleari con il rischio se non la certezza di una ecatombe, ma la guerra si spargerebbe nei diversi Continenti come un incendio distruttivo e senza distinzione alcuna fra militari e civili. Lo si è visto in Ucraina e ora in Israele.
Bisogna tenere conto del numero crescente di Stati antidemocratici che fanno ormai sistema globale e in più ci sono delle bande terroristi sanguinarie come Hamas et similia. Una coppia di farabutti che gode di complicità in larghe fasce di pessimi estremisti nostrani, in parte prezzolati, in parte suonati come delle campane: entrambe la categoria spadroneggia sui Social senza sanzione alcuna.
Ecco perché mi ha persino fatto sorridere amaro sul Corriere di ieri la descrizione grottesca ma realistica di Aldo Grasso dell’Italia, che vive in perenni emergenze di varia fatta senza soste e costringendo gli italiani ad uno stato perenne di preoccupazione, come se su troppe cose non ci fosse un domani, anche quando magari certi problemi sarebbero risolvibili senza troppi patemi d’animo o almeno con le giuste soluzioni. Specie se rapportati alle evocate emergenze, quelle vere, brucianti e drammatiche, che trovo inutile elencare, perché ne abbiamo tutti contezza, persino ora sotto i nostri occhi con il cuore pieno di tristezza.
Scrive Grasso: ”Uno Stato in emergenza. Il Consiglio dei ministri ha prolungato lo stato di emergenza per altri sei mesi «in conseguenza dell’eccezionale incremento dei flussi di persone migranti». Sono passati dieci anni dalla tragedia di Lampedusa: il 3 ottobre 2013 morirono in mare 368 disperati. La maggior parte di loro erano fuggiti dall’Eritrea, stipati su un barcone fatiscente di 20 metri salpato dalla Libia. Già allora si parlava di emergenza”.
Si potrebbe risalire più indietro ancora con l’esodo epocale degli albanesi verso le coste italiane!
Incalza Grasso: ”In Italia è sempre emergenza. Dopo l’emergenza rifiuti, l’emergenza idrica, l’emergenza pandemica, l’emergenza gas, l’emergenza taxi, l’emergenza terremoto prosegue ancora l’emergenza profughi. L’emergenza è una condizione eccezionale, imprevista e quindi rara. Da noi, invece, l’emergenza è diventata un requisito della quotidianità. Viviamo perennemente in uno Stato emergenziale dove l’urgenza delle decisioni è una scorciatoia di governo e un’occasione per presentarsi come il Mr. Wolf che risolve problemi. La «filosofia» dell’emergenza nasce dall’incapacità di darsi politiche di prevenzione e dalla retorica dei decreti sicurezza: abituati al fatto che la normalità non funziona, ci affidiamo all’eccezionalità”.
Oggi svettano - e non a torto - l’emergenza climatica e quella demografica. Due casi su cui bisognerebbe muoversi programmando e invece si è sempre all’inseguimento anche nella programmazione e nella legislazione.
Caso di scuola, accennato da Grasso, è l’uso sconsiderato dei Governi italiani della decretazione di urgenza, che dovrebbe essere
motivata dalla ”straordinaria necessità e urgenza”. Ha scritto il mese scorso OpenPolis: ”Facendo un confronto in valori assoluti, possiamo osservare che l’attuale esecutivo presenta numeri ancora relativamente ridotti rispetto a buona parte dei suoi predecessori. In circa 11 mesi infatti il governo Meloni ha deliberato 39 decreti legge collocandosi al sesto posto tra gli esecutivi delle ultime 4 legislature. Ai primi posti della graduatoria troviamo invece i governi Berlusconi IV (80), Draghi (64) e Renzi (56). È significativo comunque osservare che il governo Meloni ha già sopravanzato il primo esecutivo guidato da Giuseppe Conte (26) e quello di Paolo Gentiloni (20), nonostante questi ultimi fossero rimasti in carica per più tempo (rispettivamente 15 e 17 mesi).
Ovviamente questi dati sono influenzati dal periodo più o meno lungo in cui i vari governi sono rimasti alla guida del paese. Per questo un buon modo per fare un confronto è quello di valutare il dato medio di pubblicazioni mensili. Da questo punto di vista il governo Meloni si trova al primo posto con 3,55 Dl pubblicati in media ogni mese. Seguono i governi Draghi (3,2), Conte II (3,18) e Letta (2,78)”.
Chiosa Grasso sulle emergenze italiche: ”Dev’essere una malattia antica se già nel 1796 Goethe scriveva con Friedrich Schiller negli epigrammi degli Xenia: «L’emergenza insegna a pregare, si dice: per impararlo si vada in Italia!»”. Pare che sia ancora così ed è una drammatizzazione non sempre giustificata e ogni emergenza “gonfiata” rende meno efficace la reazione per le grandi emergenze!

L’orrore contro Israele

Non ci voleva una nuova guerra di aggressione e non è sopportabile vedere gli orrori mostrati in modo sprezzante dai “combattenti” islamisti e bisogna gridarlo con tutta la forza, sapendo ormai con chiarezza chi li arma, li istruisce e li finanzia. Sia chiaro che chi li giustifica e ogni sorta di fiancheggiatore non deve avere a spazio alla ricerca di chissà quale giustificazione con il solito benaltrismo d’ordinanza, del genere “sì, ma…”. E in quel ma si riassumono le solite storie ripetute per dare voce alla propaganda degli odiatori dell’Occidente, della democrazia sugli altri Continenti e, nel caso in esame, di noi “infedeli” da debellare come fossimo spazzatura.
Io sono in questo momento difficile con Israele, come sempre è avvenuto in situazioni analoghe nei miei ruoli elettivi e politici. Lo scrivo in modo secco e senza quei distinguo di chi non vuole schierarsi con chiarezza. Ripeto: io sono con Israele di fronte ad un attacco brutale di terroristi e lo sono senza se e senza ma.
La dichiarazione di guerra - perché di questo si tratta - viene da quella vera e propria banda di terroristi sanguinari, che è Hamas, acronimo di Harakat al-Muqawama al-Islamiyya (Movimento Islamico di Resistenza). Hamas è - questi sono dati oggettivi e incontrovertibili - è un’organizzazione politica e paramilitare palestinese, islamista, sunnita e fondamentalista. La sua leadership è suddivisa tra un’ala politica, che governa Gaza da quando nel 2006 Hamas vinse le elezioni legislative (le ultime che sono state fatte e questo è da ricordare bene), diventando il primo partito nella striscia di terra delimitata tra Egitto, Israele e il Mediterraneo in cui vivono circa 2 milioni di palestinesi; e un’ala militare, denominata Brigate Ezzedin al-Qassam. Sono di fatto inscindibili fra di loro e mostrano come i palestinesi delle zone in loro mani abbiano scelto la sottomissione e molti di loro sono perseguitati quando se ne lamentano, imboccando tuttavia collettivamente la strada dello scontro totale con una vena di evidente follia ideologica che si lorda le mani di sangue. Ciò spezza ogni copertura anche da parte di chi sul ”caso palestinese” sperava in quella zona, come nel resto dei territori, nel buon senso reciproco per trovare soluzioni negoziali. Hamas, beninteso, scelto come gruppo politico al comando a Gaza, è - come tutti sanno - per la distruzione totale dello Stato di Israele. Situazione che rende impossibile ogni negoziazione, se non in una logica suicidaria e dunque impensabile per lo Stato di Israele, che va aiutato e difeso, pensando alla Storia e alle vessazioni subite dal popolo ebraico.
Per questo è una vergogna allo stato puro se certi pacifisti e una sinistra estrema impazzita di casa nostra e coloro che, con ben noti atteggiamento antisionisti anche in certa estrema destra, spalleggiano i terroristi e i Paesi come come Iran ed Russia che sono assieme complici e mandanti, mostrando il ruolo di destabilizzatori nel mondo e sono complici di un accordo luciferino. Fa vomitare chi, contro Israele e anche nel caso Ucraino, trova sottecchi le giustificazioni più strampalate per giustificare aggressioni e violenze. Lo fanno nel nome della preziosa libertà di espressione, di cui abusano per aiutare la propaganda dei “cattivi” e per questo vanno isolati e direi , infine, perseguiti per le loro tesi più appunto che aberranti. Chi agita la libertà come vessillo per combattere i principi democratici deve pagarne il prezzo, quando è evidente la strumentalizzazione.
Oggi lo ricorda Paolo Mieli sui Corriere: ”Fa davvero impressione che ci sia un certo numero di nostri connazionali - cantanti o rettori d'università - i quali, senza concedersi neanche un attimo di rispettoso silenzio al cospetto di incursioni esplicitamente indirizzate ad uccidere «ebrei» (non «israeliani», «ebrei»), abbiano ritenuto di esaltare i «legittimi attacchi palestinesi» ”
Aggiungerei che purtroppo più va avanti questo secolo del nuovo millennio e più questi anni Venti si riempiono di eventi che preoccupano per il destino della nostra umanità.

“Notre jardin” non è un orticello

Ogni tanto qualcuno, chi bonariamente con un sorriso aperto e chi con qualche malizia e dietro le spalle, segnala la mia propensione ad avere contatti vari in Italia e in Europa, come se fosse per gli uni un valore aggiunto, mentre per altri sarebbe una sorta di distrazione da questioni locali.
Al momento - sia chiaro - questa propensione fa parte certamente di certe materie che ho come delega nel Governo valdostano, tipo Affari europei, PNRR e politica della montagna.
Credo, però, che sia frutto consapevole delle mie esperienze a Roma e Bruxelles, ma soprattutto di una convinzione più profonda sin dall’inizio della mia attività politica elettiva nell’ormai lontanissimo 1987.
Credo profondamente nella necessità che la piccola Valle d’Aosta debba per scelta ponderata e per evidente necessità non essere chiusa in sé stessa e all’introflessione come rischio deve contrapporre una sana capacità di estroflessione.
Se ho sempre trovato eccellente la frase che Voltaire mette in bocca a Candide “Il faut cultiver notre jardin”, resta chiaro come questa frase non sia affatto un elemento di chiusura dentro i propri confini. Se nell’opera volterriana risulta una critica a chi si occupa di problemi metafisici che rischiano di essere astratti piuttosto che delle cose concrete da migliorare e da cambiare, nelle mie speranze significa aprirsi all’esterno come scelta matura e persino elementi di strategia politica.
Questo oggi significa, con espressione in parte abusata, far parte di reti che ci facciamo crescere nel confronto e nell’interscambio di idee ed esperienze per evitare il rischio del provincialismo e dell’autocompiacimento. Il famoso “guardare il proprio ombelico”, quando al posto di guardare il proprio giardino ci si limita al proprio orticello e spesso, così facendo, finiamo per trascurare contatti e conoscenze utili, immersi come siamo talvolta - e faccio io stesso ammenda di certe debolezze umane - in diatribe minuscole fra noi che servono a poco.
Reti significa opportunità. Essere una Regione vuol dire dialogare con le altre Regioni. Essere una Regione a Statuto speciali si sostanzia nel confrontarsi con le altre Autonomie differenziate. Questo deve avvenire in Italia e in Europa. Esiste poi la rete vasta della montagna, quella alpina e non solo. Ci sono poi i rapporti di vicinato e quelli mondiali grazie alla francofonia.
Sono opportunità e assieme necessità, che devono giocoforza accompagnarsi ad una continua riflessione su noi stessi e sui nostri pregi e difetti, evitando il rischio di pensare di essere i più intelligenti della compagnia, evitando però quella logica di tendenza gruppettara al continuo mugugno a all’autoflagellazione lamentosa.
È un’attitudine che non sopporto più con rosiconi e criticoni in perenne servizio attivo, tristi sentinelle prigioniere di visioni ideologiche, queste sì chiuse al dialogo, prigionieri come sono nel recinto delle proprie intoccabili convinzioni. Convinti in più che il mondo sia fatto solo da nemici da combattere.

Paesi che diventeranno fantasmi

La crisi demografica in atto in quasi tutto l’Occidente non colpisce più di tanto, come se il problema fosse rinviabile, benché incomba già e in modo pressoché irreversibile. Personalmente ho messo i piedi nel piatto, quando ho insistito sulla necessità - ad uso futuro delle scuole con meno giovani e dell’invecchiamento della popolazione - di uno studio su cosa capiterà nei prossimi decenni in Valle d’Aosta a cura del demografo Alessandro Rosina. Ne emerge uno scenario inquietante e, evitando di ripetere molti dati ormai purtroppo noti con le culle sempre più vuote e i cimiteri sempre più affollati, valga questa frase dello studio che suona come inquietante: “Senza una urgente inversione di tendenza della natalità e un rafforzamento anche nel breve e medio periodo della popolazione in età attiva, il rischio è quello di scivolare in una spirale negativa che porta ad un continuo aumento degli squilibri strutturali e indebolisce le possibilità di sviluppo economico e sostenibilità sociale”.
Ora su ”La Lettura” del Corriere della Sera compare un articolo di un importante statistico. Si tratta - prendo dal Web una sua biografia - di Roberto Volpi: ”Volpi ha diretto uffici pubblici di statistica, progettato il Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza, diretto il Gruppo tecnico di programmazione che ha redatto il Piano strategico della città di Pisa. Tra i suoi libri ricordiamo Storia della popolazione italiana dall’Unità a oggi (La Nuova Italia, 1989), C’erano una volta i bambini (La Nuova Italia, 1998), La fine della famiglia (Mondadori, 2007), Il sesso spuntato (Lindau, 2012) e Gli ultimi Italiani (Solferino, 2022)”.
Questa la sintesi proposta nella pagina del giornale: ”Nel nostro Paese 278 comuni hanno meno di 10 abitanti per chilometro quadrato . Sono situati in montagna, ai confini esterni o lungo la catena degli Appennini. La superficie totale equivale quasi a quella del Lazio, i residenti sono poco più di 
100 mila. La loro sparizione, che appare inevitabile, presenta problemi notevoli, perché si tratta di un presidio importante del territorio, soprattutto dal punto di vista ambientale. La retorica del ritorno ai piccoli centri purtroppo non ha fondamento”.
Messa così e pensando a certe riflessioni in corso anche da noi cresce una legittima preoccupazione.
L’autore, con ausilio di apposte tabelle, che campeggiano in pagina, si occupa dello spopolamento delle “terre estreme”: ”Non ci sono «ma» che tengano, le tendenze demografiche italiane questo dicono: ch’è in atto un sistematico spopolamento delle terre estreme, che sono. ”i comuni con meno di 10 abitanti a chilometro quadrato (kmq) in un Paese, il nostro, con 195 abitanti a kmq. Comuni, ed ecco l’altro aspetto, così estremi che sembrano messi lì dove stanno apposta per presidiare confini e frontiere. Ma eccone una prima, essenziale sintesi statistica. Secondo gli ultimi dati del 31 dicembre 2022 i comuni italiani con meno di 10 abitanti a kmq, i più spopolati d’Italia, sono 278, misurano complessivamente 16.783 kmq (più della Campania e poco meno del Lazio), per un totale di 102.749 abitanti. Hanno una superficie media di 60,4 kmq e una popolazione media di 370 abitanti. Sono dunque al tempo stesso comuni molto estesi territorialmente, avendo una superfice media del 60 per cento superiore alla superficie media dei comuni italiani, e molto piccoli demograficamente: ci vogliono venti di questi comuni per eguagliare la popolazione media dei comuni italiani (circa 7.400 abitanti)”.
Dove sono? Così l’autore: ”Sono comuni di montagna, spesso di alta montagna. E non è così significativa la loro altezza media calcolata in base alla sede del municipio, che si aggira attorno ai 900 metri sul livello del mare. I municipi si trovano infatti nei pur minuscoli centri abitati e in posizioni più comode e agibili, cosicché complessivamente i residenti sono situati non di poco a una ben maggiore altezza. Nell’insieme di questi comuni la densità abitativa è di appena 6,1 abitanti a kmq. Per dare un’idea: se l’Italia avesse quella stessa densità, la sua popolazione sarebbe non di 59 ma di 1,8 milioni di abitanti: Lilliput, in pratica”.
Preciso che da tabella la media altimetrica dei Comuni valdostani interessati, che sono 15 ma non si esplorano i nomi ma penso che non sia difficile per noi - dati alla mano - identificarli, è di 1428 metri.
Poi Volpi spiega perché bisogna occuparsene: ”Primo motivo: questi 278 comuni hanno una caratteristica che li rende geograficamente, ambientalmente ed ecologicamente, e molti di loro in qualche modo pure politicamente, importanti: presidiano in certo senso il territorio italiano — addirittura la sua parte più delicata, quella più esposta allo sconquasso dei fenomeni naturali. Lo presidiano innanzi tutto ai suoi confini continentali, e dunque lungo l’intero arco alpino, dalla Liguria al Friuli-Venezia Giulia, che provvede a separarci da Francia, Svizzera, Austria e Slovenia; e poi, ma a questo riguardo il discorso si fa del tutto eco-ambientale, lungo la dorsale appenninica dall’Emilia alla Calabria, e fino ai rilievi montuosi interni della Sardegna.
Secondo motivo: perdono abitanti a una velocità che ne lascia intravvedere la sparizione. Un finale già scritto. Inevitabile. A parte qualche comune di questi 278 che si salverà, la maggioranza, tra il 60 e il 70 per cento, tra mezzo secolo non esisterà letteralmente più”.
Eccoci più avanti agli interrogativi: “Cosa comporterà questo spopolamento radicale? Riusciremo comunque a preservare certi equilibri ambientali e geografici? Non si rifletterà la loro desertificazione in una più accentuata fragilità del territorio italiano, che diventerà così ancora più esposto a eventi estremi?
Si consideri, peraltro, che se pure il clima si stabilizzasse e normalizzasse, il discorso che riguarda quei comuni e quelle aree non sarebbe poi tanto diverso: giacché quanti quei luoghi abitano, e che per il fatto stesso di abitarvi li difendono e proteggono, si andrebbero comunque estinguendo.
Quei 278 comuni diventano così la spia di uno spopolamento del Paese che procede in modo tutt’altro che omogeneo sul territorio nazionale, che non fa anzi che aggravare squilibri, diversità, contraddizioni che percorrono la popolazione italiana, determinando autentiche linee di faglia capaci di allontanare intere aree e regioni le une dalle altre, e di metterle in contrasto se non perfino in contrapposizione le une con le altre”.
E ancora più avanti lo statistico chiarisce quando spariranno le comunità con questo trend, quando cita i “dati che riguardano la stima della sopravvivenza in anni: ch’è di 96 anni per il totale dei comuni delle Alpi, e di 69 anni, quasi un terzo in meno, per i comuni degli Appennini e altri rilievi. E infine ribadita dal fatto che la sopravvivenza ha le sue vette decisamente più alte nei comuni del Trentino-Alto Adige (ben 228 anni) e della Val d’Aosta (168 anni) e quelle più basse nelle regioni del Sud, a cominciare dalla Calabria (appena 40 anni). Guardando poi a questi ultimi dati si capisce bene, ed è questa la seconda considerazione, come, per quanto spopolati al massimo grado, alcuni comuni di questa fascia che si trovano segnatamente in Piemonte, Val d’Aosta e Trentino-Alto Adige riescano a non farsi risucchiare nella spirale demografica dell’estinzione coltivando una qualche vocazione turistica — pur se le grandi mete del turismo tanto estivo che invernale si concentrano in comuni di altre e superiori densità abitative, non così spopolati come quelli di questa fascia”.
Il finale è a tinte scure: ”Ho anticipato che non c’è salvezza per questa fascia di comuni. Alcuni, pochi, si salveranno, è vero, ma la grande maggioranza soccomberà, e anche in tempi assai ravvicinati. E non c’è soltanto la perdita di abitanti, che abbiamo visto essere assai rapida, a contare. C’è anche un altro fattore sul quale poco ci siamo soffermati, ma che conta moltissimo: le minime dimensioni demografiche. 43 di questi 278 comuni non arrivano a 100 abitanti; 119, poco meno della metà, non arrivano a 200 abitanti. Appena 17 di questi comuni superano, di poco, i mille abitanti, forse la dimensione minima per poter sperare in una qualche vitalità demografica, che evidentemente non può esserci quando la popolazione non arriva neppure a 100 o 200 abitanti. Qui, in comuni a tal punto poveri di abitanti, praticamente non ci sono nascite, la popolazione femminile in età feconda è ridottissima, l’età media molto alta, così come l’indice di vecchiaia, i rari, rarissimi giovani scendono nelle pianure, vanno ad abitare le città. Impossibile sperare in una ripresa, in una salvezza, in queste condizioni. La retorica dei piccoli comuni che vivrebbero una nuova fioritura per l’abbandono della grande città da parte di tanti che cercano lidi più tranquilli e riposanti, specialmente ora che con l’accoppiata pc-internet si può lavorare anche da remoto, non è che retorica, appunto. La realtà è che il movimento che dall’alto scende in basso è assai più appetibile e consistente di quello contrario che dal basso sale in alto. Una realtà con la quale fare i conti, non foss’altro per vedere di prendere qualche — peggio che difficile — contromisura”.
Personalmente non sono così pessimista, ma certo le contromisure sono necessarie e condivido che non saranno affatto facili.

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