Autostrade colabrodo

Ci sono località in Italia che vanno raggiunte necessariamente con la macchina. Così è per Perugia, incantevole capoluogo di Regione dell’Umbria, dove sono stato in diverse occasioni anche in vacanza e questa volta per un fruttuoso convegno su digitalizzazione e Intelligenza Artificiale.
Per lavoro ricordo ormai moltissimi anni fa - roba da essere lapidato da certi facinorosi - di esserci andato in aereo, quando c’era un volo da Milano. Ho sempre escluso di prendere il treno, che per un valdostano è un viaggio della speranza e la famosa elettrificazione della linea fino a Chivasso ormai imminente non cambierà i tempi di percorrenza. Mi duole il fatto che sia risultato impossibile bloccare questa scelta finita nel PNRR, che un tempo sarebbe stata sensata e venne auspicata anche da me quando mi occupai dei Trasporti. Ma oggi i treni ad idrogeno, già in esercizio altrove, sarebbero stati una soluzione migliore anche sotto il profilo ambientale in barba a chi milita in quell’area e ha operato per questa scelta ormai fuori tempo per semplice ticchio ideologico. Chiudo la parentesi.
Per andare laggiù, dicevo, ho scelto l’auto con un tempo presunto di circa 7 ore, calcolando pause necessarie. Ebbene, per l’ennesima volta, mi sono trovato di fronte ad una realtà ormai inoppugnabile: il collasso del sistema autostradale italiano, già ben visibile anche nella nostra piccola Valle d’Aosta. Non parlo solo, avendolo fatto in tutte le salse, dei pedaggi ormai stellari, legati a regimi concessionari che ingrassano le società monopolistiche che gestiscono questi gangli vitali per i trasporti. Mi riferisco anche agli aspetti infrastrutturali e cioè al fatto che, specie dopo lo scossoni del Ponte Morandi con quei morti che hanno illuminato la scena con le note omissioni nelle manutenzioni, ormai si sono moltiplicati i cantieri, creando caos infiniti dovunque. Che poi spesso i cantieri non vedano nessuno al lavoro, malgrado restringimenti e cambi di corsia, meriterebbe qualche approfondimento giudiziario, perché è evidente che non si possono cominciare lavori che poi languono con code che facilmente possono sfociare in tragedie della strada su cui si verserebbero le solite lacrime di coccodrillo.
La privatizzazione delle Autostrade, un tempo in grembo alle Partecipazioni statali, fu una scelta in linea con i tempi, ma il mancato funzionamento dei meccanismi e l’assenza di controlli sulla gestione ha generato mostri. Oltretutto non si capisce niente della Governance di gran parte delle autostrade dopo l’uscita del Gruppo Benetton e la sopravvenuta Cassa Depositi e Prestiti, una delle cassaforti dello Stato. Tutto, compresa la dirigenza che conta, è rimasta la stessa e la situazione dell’impazzimento dei cantieri tale e quale. Sfuggono strategie e - lo ribadisco - chi controlla punto per punto?
Ma la percorrenza autostradale quotidiana e in caso di viaggi in auto in giro per l’Italia conferma lo strabordare del traffico pesante. I TIR sono una costante dappertutto e segnano il fallimento a occhio nudo del trasporto merci su rotaia, oggetto di viva retorica negli anni non solo in Italia, come dimostra l’esempio svizzero e la presunzione elvetica di farli sparire. Investendo cifre colossali per provarci.
Ora - e ciò vale anche per il trasporto merci attraverso le Alpi - sarebbe il caso da una parte di accelerare i tunnel in costruzione e cioè Torino-Lione e Brennero, ma anche di capire se davvero n Italia si fa davvero per agevolarne l’uso futuro in termini di linee ferroviarie, logistica, intermodalità e tutto il resto. Altrimenti sarà una beffa analoga alla cessione a privati ingordi della rete autostradale ridotta nel tempo ad un colabrodo dai costi stellari per noi utenti.

“Qui Nuova York…”

Oggi scrivo per le generazioni più vecchie di un personaggio misconosciuto al di sotto di una certa età e lo faccio con gioia, avendo goduto della sua conoscenza e persino - potrei dire - della sua simpatia.
“Qui Nuova York, vi parla Ruggero Orlando”. Indimenticabile - in una tv rigorosamente in bianco e nero - spuntava questo personaggio con la sua r moscia e la sua strana postura.
Classe 1907, nato a Verona ma originario del messinese, morì a Roma nel 1994. Orlando è stato uno dei volti storici della RAI in epoca di stretto monopolio e spiccava rispetto al grigiore dei mezzibusti. In privato grande raccontatore degli Stati Uniti, curiosissimo delle vicende del mondo, evocava la breve parentesi da deputato.
Su Nuova Armonia, giornale dei Senior Rai, Renato Annunziata dà conto di un dossier rinvenuto all’Archivio di Stato di Roma. Propongo alcune parti dell’articolo su Orlando: “Un promemoria del Minculpop ci rende chiara la sua condizione dal punto di vista economico e della sua attività di giornalista che, all'età di vent'anni, sembra essere intensa: nel 1936 si propone al direttore de La Stampa Alfredo Signoretti per essere assunto come inviato in Etiopia, ricevendone risposta negativa. Stessa cosa pochi mesi dopo, con i fatti di Spagna, dove Orlando chiede al ministro Alfieri di intercedere presso il direttore de Il Messaggero di Roma Pio Perrone per diventare corrispondente e raccontare i tragici avvenimenti della guerra civile: ma anche in questo caso, non ci sarà un seguito.
Ma in quelle stesse settimane diventa collaboratore dell'EIAR, dove viene inizialmente impiegato per sostituire i redattori in vacanza e per firmare brevi note e necrologi. Tale circostanza gli consente comunque di entrare in un mondo, quello del "giornalismo parlato", che avrebbe in seguito caratterizzato buona parte della sua esperienza professionale.
La vera occasione appare nell’autunno del 1938 quando EIAR deve individuare un corrispondente da inviare in Inghilterra per sostituire il collega Carlo Franzero. Orlando conosce i pezzi grossi della nomenclatura fascista, essendo iscritto al partito dall'11 aprile del 1921 e scrive nuovamente al capo di Gabinetto del Ministro della Cultura Popolare, il prefetto Celso Luciano
- grande amico del direttore Eiar Raoul Chiodelli - proponendosi e chiedendo di occupare quel posto.
E Chiodelli assume Orlando alla radio, provvedendo anche nel giro di qualche mese ad aumentargli il rimborso spese per la sua permanenza in Inghilterra, apprezzando il suo operato.
Il 30 ottobre 1938, il giornalista si trova a Londra, in una bellissima casa vittoriana in St George' Square, nella centralissima city ed inizia la sua collaborazione con la radio italiana”.
Anche lui ammette una fascinazione del Fascismo in un brano riportato;
“ “Da ragazzo mi trovavo a mio agio nelle organizzazioni fasciste, ma poi pian piano mi seccai maledettamente. Stavo sempre più a disagio in un ambiente in cui non sapevo, e non volevo, nuotare; poi cominciai ad essere arrestato e perseguitato, per i discorsi che facevo e soprattutto per la mia collaborazione con i corrispondenti dei giornali esteri”.
Il trasferimento nel 1938 a Londra, gli da modo, oltre che di collaborare con nuove prestigiose testate (tra cui Il Messaggero e la Gazzetta del Popolo), di maturare un diverso rapporto col fascismo, poi trasformatosi in un vero e proprio distacco.
Con l'entrata in guerra dell'Italia, i giornalisti cosi come i diplomatici ricevono l'ordine di rientrare, pena la sospensione del servizio e - per i giornalisti - la cancellazione dall'albo. Orlando si oppone al rientro in patria con gli altri colleghi e viene licenziato, oltre che radiato dall'albo gestito dal sindacato fascista.
Dopo essersi iscritto alla sezione londinese del Partito socialista italiano viene assoldato dal Political intelligence department, divenendo - con lo pseudonimo Gino Calzolari - uno dei principali redattori di Radio Londra, programma radiofonico in italiano curato dalla BBC nell'ambito dell'European Service. Nel 1941, con Umberto Calosso e i fratelli Paolo e Pietro Treves, è tra i fondatori del Free Italy movement, sodalizio sostenuto dai laburisti inglesi e finanziato dallo Special operations executive per contribuire alla liberazione dell'Italia dal fascismo.
Il resto è storia: nel 1944-1945 ha l'incarico di tenere i collegamenti tra le forze alleate e la resistenza. Primo corrispondente dal'estero dell'Avanti! (dal 1945), dal 1947 al 1954 ritorna ad essere corrispondente da Londra per la RAI, di cui si ricordano i primi interventi nella radio repubblicana”.
Poi il salto negli States come corrispondente Rai dall'America nel periodo compreso tra il 1954, anno di nascita della nostra televisione,
fino al 1972”.
Personalmente ricordo il primo allunaggio e il battibecco che ne scaturì. Avvenne fra i due conduttori Tito Stagno, grande giornalista, e lo stesso Ruggero Orlando nel momento in cui il Lem si posò sul Mare della Tranquillità. Era il 20 luglio 1969, Stagno urlò «Ha toccato il suolo lunare... sono le 22,17 precise» (ora di Roma). Orlando, che era nella sala stampa di Houston e forse aveva una percezione ambientale più esatta del collega, lo interruppe dicendo che il Lem era sì allunato, ma dieci secondi dopo l’annuncio di Stagno. Aveva ragione lui…
Osserva infine Annunziata: “Dal suo osservatorio privilegiato ha saputo rivelarsi attentissimo lettore e narratore della cultura oltreoceano, riuscendo ad avvicinare alcune tra le figure di maggiore spicco e fama della realtà americana di quegli anni (Henry Kissinger, Martin Luther King, Lyndon Johnson, Neil Armstrong, Marylin Monroe, Frank Sinatra) e a proporle ai telespettatori italiani con naturalezza e spigliatezza.
Anche per via di una dizione ben lontana dalla perfezione, unita a un incedere piuttosto singolare e alla particolare formula «Qui Nuova York, vi parla Ruggero Orlando», con cui amava aprire i suoi collegamenti televisivi, diventa in breve tempo una vera e propria star dell'informazione televisiva, capace di raccontare l'America agli italiani con uno stile originale e personalissimo e di cui oggi tutti noi abbiamo certamente memoria”.
Per chi ha vissuto quegli anni un ricordo indelebile.

L’intervista per svelare

Mi è sempre piaciuto, nel mio lavoro di giornalista sin dagli esordi, intervistare le persone. Naturalmente il mio terreno privilegiato all’inizio è stata la radio, quando ero un ragazzino e poi la televisione.
Intendiamoci: la tecnica dell’intervista radiotv è la rapidità e la capacità di far sparire il proprio protagonismo per far emergere la personalità e i pensieri chi si incontra. Oggi mi accorgo che in troppi nei reportage dei telegiornali usano l’intervista non per questo, ma per pigrizia e cioè l’ospite fa risparmiare la fatica di ricostruire i fatti. Così com’è insopportabile l’intervista per partito preso, in cui il giornalista vuole dimostrare una tesi precostituita. Lo ha detto bene Andy Warhol: “Mi sono reso conto che quasi tutte le interviste sono preconfezionate. Sanno già quello che vogliono scrivere su di te e sanno già quello che pensano di te prima ancora di parlarti, così vanno in cerca di frasi e di particolari per confermare quello che hanno già deciso che dovrai dire”.
Ricordo che agli esordi mi ero dato una regola: interrompere il mio interlocutore appena mi accorgevo io stesso di annoiarmi e lui di essere ripetitivo o infruttuoso. Un equilibrio spesso difficile, perché interrompere è sempre brutto e non è facile seguire il discorso senza distrarsi e infilare una domanda successiva che crei un fil rouge che interessi chi segue lo svolgimento. Chi si prepara le domande e segue un copione intoccabile rischia di passare malamente di palo in frasca, perché bisogna saper improvvisare per rendere fluido il discorso.
E in TV, un buon giornalista deve far sparire i fogli in mano e si vede lontano un miglio chi usa autori e suggeritori. Per questo vanno distinti i conduttori eterodiretti con i giornalisti in grado di intervistare per proprie capacità e conoscenze.
Assisto con sgomento e dolore al declinare della vendita dei giornali cartacei. Ma i dati sono i dati e la morte delle edicole l’aspetto finale. Così come si evidenzia nei diversi media, compresi quelli digitali, la proletarizzazione del mestiere di giornalista. Epilogo triste rispetto ad anni in cui questo lavoro era considerato haut de gamme. Già ho detto del discrimine fra chi fa questo mestiere e certe starlette e presentatori che si limitano a fare i pappagalli di pensieri altrui.
Fra i quotidiani italiani sembra resistere un pochino di più il Corriere della Sera e chissà se è un caso, al di là della qualità elevata del prodotto, che sia al momento
l’unico giornale che ha puntato moltissimo sulle interviste a personalità varissime. Ogni giorno al mattino presto, quando scorro alcuni giornali e le rassegne stampa, confesso di divertirmi a leggere gli ospiti che spuntano sul giornale milanese.
È sempre occasione per scoprire nel batti e ribattiti fra domande e risposte la parte più profonda di chi viene intervistato. E anche - va detto - è modo per far emergere la capacità del giornalista di scavare dentro il personaggio e l’onestà di intenti nel farlo. Scrisse Gaetano Salvemini, storico, politico e giornalista: “Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. L’imparzialità è un sogno, la probità è un dovere”.

Come giocolieri sul Web

Capisco quanto sia tristemente contraddittorio passare il tempo con i più giovani a dir loro che l’impiego delle strumentazioni digitali, dai motori di ricerca all’Intelligenza artificiale sino alla miriade variegata delle applicazioni, va fatto con misura e intelligenza. Specie se poi ci si trova noi stessi ad essere bombardati, vittime e carnefici, da mille sollecitazioni senza troppe regole e facendo saltare gli orari, assillati come siamo dalle messaggistiche le più varie.
Interessante leggere quel che scrive
François Desnoyers su Le Monde, che racconta come siamo ormai simili a dei giocolieri che si trovano a destreggiarsi fra diverse e spesso contemporanee sollecitazioni.
Ecco l’inizio dell’articolo: “C’est une gymnastique périlleuse, tant au niveau pratique qu’intellectuel. Lorsqu’elle est en télétravail, Claire, cadre dans le marketing digital, assiste parfois à deux réunions simultanément. « Je me connecte à la première depuis mon téléphone, à la seconde avec mon ordinateur, explique-t-elle. Je coupe ma caméra et mets le son en fond pour la visio qui me semble moins prioritaire, et je me concentre et interviens essentiellement sur l’autre. C’est complexe, assez fatigant, mais ça m’évite de rater une information qui pourrait ensuite me faire défaut. »
Dans le monde du travail, le don d’ubiquité développé par Claire porte un nom : le multitasking ou multitâche. Il désigne la propension de certains salariés à réaliser plusieurs tâches en même temps”.
Da un’esperienza soggettiva ma esemplare ad un approccio più scientifico: “Une étude de l’Observatoire de l’infobésité et de la collaboration numérique (OICN) souligne l’importance du phénomène : 21 % des réunions acceptées se chevaucheraient (36 % pour les seuls dirigeants). Autre illustration : les sondés enverraient 1,1 mail par heure de réunion en moyenne (1,7 pour les dirigeants).
Ces pratiques en développement apparaissent comme des révélateurs. Elles témoignent d’une intensification des échanges et des sollicitations en entreprise, portées en premier lieu par les transformations digitales et l’extension du télétravail”.
Vale ormai, sottolinea Desnoyer, per tutti i livelli: “Au quotidien, les collaborateurs sont régulièrement interrompus dans leurs missions par téléphone, mail ou chat et doivent « multitasker » en jonglant simultanément entre différents dossiers. « On assiste à un morcellement du travail, note Marc-Eric Bobillier Chaumon, professeur au Conservatoire national des arts et métiers. Cette fragmentation avait déjà été observée chez les cadres dans les années 1980. Désormais, elle peut toucher tous les salariés utilisant différentes technologies. Le phénomène s’est aussi intensifié : la durée moyenne des tâches était alors de quinze à vingt minutes en moyenne, elle n’est plus aujourd’hui que de quatre minutes trente. »
« Les salariés travaillent de manière dispersée et cela a un coût pour leur santé, poursuit-il. C’est une situation très exigeante cognitivement et très déstabilisante professionnellement. Ils ne contrôlent pas le flux des injonctions qui leur parvient mais le subissent. » ”.
Ma esistono certe difese, come mettere nei contratti di lavoro il diritto alla disconnessione e cioè al diritto dei dipendenti di disconnettersi dal lavoro e di non ricevere o rispondere a qualsiasi e-mail, chiamata, o messaggio al di fuori del normale orario di lavoro. Più difficile incidere su di un fenomeno incidente dentro l’orario di lavoro.
Il giornalista propone, però, qualche caso di scuola in positivo: “De rares entreprises y travaillent toutefois. C’est le cas de Dalkia, filiale d’EDF. Sa branche francilienne a lancé voici quatre ans une démarche pour réguler les flux de mails, tant en interne qu’avec la clientèle. « Nous avons mené une opération de sensibilisation, montrant que si nous pouvions “subir”, nous pouvions également “faire subir”, en envoyant beaucoup de courriels, parfois sans s’en rendre vraiment compte », explique Benoit Guiblin, directeur régional Ile-de-France. Prise de conscience et diffusion de bonnes pratiques (éviter les conversations par mail…) ont permis « de diminuer le volume global de courriels de 10 à 15 % selon les entités », indique-t-il.
Alan, spécialiste de l’assurance-santé, a pour sa part pris une décision radicale : bannir les réunions. « Les échanges se font uniquement à l’écrit et de manière asynchrone dans de petits forums de discussion ouverts pour quelques jours sur un sujet précis, explique son DRH Paul Sauveplane. Chacun apporte sa contribution au moment où il le souhaite. » Dans le même temps, les messageries instantanées sont soumises à des règles visant à « casser l’instantanéité. Chaque jour, une seule personne par service active ses notifications et devra être réactive face aux sollicitations ». L’objectif étant que tous les autres collaborateurs puissent bénéficier « de longues plages de concentration ».
Enfin, des initiatives visant à réduire les sollicitations sont parfois prises par les salariés eux-mêmes, de manière spontanée. C’est le cas de Kathia, formatrice dans le secteur de la vente : « Je bloque d’office chaque semaine des créneaux dans mon agenda partagé, afin de montrer que je ne suis pas disponible pour une réunion. » Une heure le mardi, une autre le jeudi et deux le vendredi durant lesquelles elle peut préciser sur les messageries qu’elle ne doit pas être dérangée. De quoi lui permettre de se concentrer, « couvrir enfin les objectifs de [son] poste sans avoir à basculer en mode “multitâche” ». Et, finalement, reprendre le contrôle de son rythme de travail”
Interessante, ma temo che sempre più bisognerà trovare modalità regolamentari per evitare stress e crescente difficoltà di concentrazione.

AlpMed occasione da non perdere

Ci sono passaggi politici importanti, che spesso accelerano e decelerano a seconda delle circostanze e anche delle volontà di chi governa.
Nei giorni scorsi - e l’esempio è significativo - ha ripreso il suo cammino, dopo una vera e propria eclissi, l’Euroregione AlpMed.
Mi assumo a pieno la responsabilità di avere pensato e poi ad aver operato per la nascita di questo strumento, normato con un regolamento europeo del 2006 poi aggiornato nel 2013 e che è servito per far nascere accordi importanti in diverse zone dell’Unione europea.
Chi ha scritto del tema anni fa in un articolo a carattere giuridico è stata mia moglie, Mara Ghidinelli, che seguì a suo tempo il dossier: ”Basta un semplice colpo d’occhio alla carta geografica per rendersi conto che lo spazio compreso tra il Rodano, il Ticino ed il Golfo di Genova forma un’entità geografica omogenea, di cui le Alpi costituiscono la spina dorsale. Uniti e separati più volte nel corso della storia già a partire dall’antichità, questi territori hanno conservato la loro identità seppure all’interno di due diversi Stati: le montagne e le frontiere non sono riu- scite a cancellare o inquadrare in rigide categorie o territori popolazioni e culture di italiani, francoprovenzali, francesi e occitani.
Quella dell’Euroregione Alpi-Mediterraneo è una storia di prossimità che è stata caratterizzata da una lunga alternanza di unioni e di separazioni decise a Parigi, Vienna o Madrid, senza tenere minimamente in considerazione le volontà, i desiderata e le affinità dei popoli interessati. Un trascorso dunque di scomposizioni e ricomposizioni territoriali, di cui uno degli ultimi episodi, probabilmente il più significativo degli ultimi cinque secoli, fu, nella seconda metà del XIX secolo, la separazione tra Italia e Francia del Regno di Sardegna.
Il 18 luglio 2007, a circa centocinquanta anni dal Trattato di Torino, la spinta volontaristica e consapevole della storia ha fatto il suo corso e i rappresentanti di Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria, Provence-Alpes-Côte d’Azur e Rhône-Alpes hanno firmato l’accordo per la costituzione dell’Euroregione Alpi- Mediterraneo: uno spazio di collaborazione istituzionalizzata che conta circa sedici milioni di abitanti”.
Nel frattempo l’Auvergne è stata accorpata a Rhône-Alpes, allargandone il perimetro.
Le vicende di quegli anni sono appassionanti in una logica autonomistica. Nel 2009 le Regioni italiane interessate votarono una legge regionale per appoggiare l’Euroregione su di un gruppo europeo di cooperazione territoriale (GECT). L'obiettivo di un GECT consiste nel facilitare e promuovere in particolare la cooperazione territoriale tra i suoi membri – comprese una o più linee di cooperazione transfrontaliera, transnazionale e interregionale – al fine di rafforzare la coesione economica, sociale e territoriale dell'UE.
Incredibilmente il Governo italiano impugnò le leggi alla Corte Costituzionale, prendendo una batosta del grande giurista Giuseppe Tesauro e cito solo un passaggio della sentenza “le attività di partecipazione del GECT risultano expressis verbis ricondotte alle finalità proprie della cooperazione territoriale, in aderenza alle disposizioni del più volte citato Regolamento. Inoltre, la «promozione degli interessi dell’Euroregione presso gli Stati e le istituzioni europee», in quanto «compito» previsto per la realizzazione degli obbiettivi del GECT, risulta anch’esso ricondotto nell’ambito delle finalità di cooperazione territoriale che il regolamento comunitario affida ai GECT”.
Insomma una visione ciecamente nazionalista e di fatto antieuropeista venne sconfitta ed è sempre un bene che ciò avvenga.
A Courchevel, giorni fa, siamo usciti dal torpore di questi anni, peggiorato dal periodo pandemico, e cito una parte del comunicato ufficiale, di cui sono lieto, avendo rappresentato la Valle d’Aosta in questa riunione: “Cette rencontre politique entre les cinq Régions a permis de définir les priorités stratégiques à porter ensemble, en lien avec la Stratégie de l’Union européenne pour la région alpine (SUERA), et sur lesquelles des financements européens pourront être mobilisés, dans le cadre du programme Interreg ALCOTRA ou d’autres programmes européens”.
Insomma facciamo parte di un sistema essenziale per le Alpi in Europa e per le alleanze politiche che esaltano il ruolo della nostra Autonomia speciale.
Ma c’è poi il cruciale Trattato del Quirinale: “Cette réunion s’inscrit dans un contexte particulièrement favorable à la coopération dans ce territoire transfrontalier : la signature du Traité du Quirinal, le 26 novembre 2021 à Rome, visant à sceller une coopération bilatérale renforcée entre la France et l’Italie dans des domaines prioritaires ; le lancement du programme ALCOTRA France Italie pour la période 2021-2027, et l’ouverture d’appels à projets ciblant notamment la gouvernance et le dépassement des obstacles juridico-administratifs limitant la coopération transfrontalière.
Par ailleurs, les défis majeurs auxquels les territoires sont confrontés, en particulier le changement climatique, le dépeuplement et l’accès aux services de santé en zone de montagne, rendent nécessaire une concertation politique renforcée entre les cinq Régions pour garantir aux habitants, comme les jeunes et les familles, la possibilité de rester à habiter et travailler dans les zones plus éloignées”.
Ora si guarda avanti: “Les représentants des cinq Régions se sont accordés sur les grandes thématiques qui structureront les travaux de l’Eurorégion ces prochaines années, et qui pourront faire l’objet de projets conjoints :
- La décarbonation - mobilité durable
- Le développement économique et l’aménagement des territoires ruraux - La santé
- La jeunesse : éducation et formation
Dans la perspective de projets communs, les cinq Régions ont également convenu de renforcer la mobilisation de l’ensemble des ressources européennes disponibles en les diversifiant au-delà du programme Interreg ALCOTRA, en visant par exemple, les programmes Espace alpin, ou les programmes sectoriels, tels qu’Erasmus +, le Fonds Européen d’Innovation, le Mécanisme d’Interconnexion en Europe (MIE) volets transport et Energie”.
Il 2024 sarà cruciale: “Les Régions se sont donné rendez-vous en 2024 pour une nouvelle Conférence des Présidents en Vallée d’Aoste, et pour un évènement conjoint à Bruxelles, qui pourrait se tenir lors de la Semaine Européenne des Régions et des Villes”.
La ripartenza darà grandi soddisfazioni.

La minaccia dell’Overtourism

L’altro giorno a Roma mi sono chiesto come diavolo potesse vivere un residente in mezzo alla bolgia del centro e la stessa sensazione l’ho avuta nelle visite a Venezia, quando in una calle ho avuto il moto spontaneo di buttarmi in un canale per evitare il pigia pigia. Anche nella piccola Valle d’Aosta in certe occasioni – non parlo della Fiera di Sant’Orso perché in quel caso chi ci va lo sa – mi sono chiesto come fosse possibile essere tutti concentrati in un certo posto, quando la Valle offre, magari a distanza ravvicinata, località in cui si può stare più tranquilli.
Esiste ormai una parola che esprime questo disagio. Overtourism (in italiano suonerebbe come “Troppo turismo”) è, infatti, un neologismo in inglese che indica il sovraffollamento di turisti in una meta vacanziera. Il termine è stato inserito per la prima volta nel dizionario Oxford nel 2018, e venne candidato come parola dell’anno.
Antonio Polito sul Corriere, nel dirsi preoccupato, ha iniziato in suo articolo sul tema con una battuta: “Naturalmente siamo tutti «open to meraviglia»”, riferendosi alla sciagurata campagna del Ministero del Turismo della Ministra Daniela Santanché (che in un Paese normale avrebbe già dato le dimissioni per le sue attività imprenditoriali “dubbie”)  con una Venere di Botticelli trasformata incredibilmente in una turista contemporanea con un sito Internet sul quale risultavano delle terribili sciocchezze anche sulla Valle d’Aosta.
Prosegue Polito: “Nel senso che il boom del turismo ci fa felici, se non fratelli siamo pur sempre figli d’Italia, avere successo nel mondo è comunque una soddisfazione. E poi ci fa ricchi, o almeno fa ricco il vicino che ha comprato l’appartamentino e l’ha messo a reddito come casa-vacanza, o il bar all’angolo che ormai ha la fila al mattino per la colazione col buono, o il negozio che affitta le biciclette a muscolosi olandesi incuranti del solleone. E se non ci fa ricchi ci fa comunque meno poveri, come accade ai plotoni di affannati bengalesi e cingalesi, sottopagati a cottimo per adescare a gran voce i clienti davanti ai fast food, un tanto a turista.
Poi però non ne possiamo nemmeno più. Non se n’erano mai visti tanti. Almeno a Venezia, Firenze, Roma, e sempre più a Napoli e Milano, l’invasione sta assumendo forme patologiche, ormai incompatibili con le normali funzioni urbane delle nostre città. Complice il tradizionale lassismo italiano e una certa anarchia nella gestione delle regole, assistiamo a fenomeni alluvionali di vera e propria tracimazione di folle. Nella Suburra di Roma, nei vicoli di Spaccanapoli, nel quadrilatero della moda a Milano, i marciapiedi non ne contengono letteralmente più il fiume, che così esonda sul manto stradale:
Descrizione perfetta del rischio scempio che molti di noi hanno visto.
Più avanti aggiunge: “Dopo una mattinata in giro (diamo questa notizia: oltre ai turisti nelle città c’è anche gente che lavora, o che non lavora più perché si è fatta anziana ma si ostina a uscire per la spesa), bisogna tenere i nervi molto saldi prima di parlare di «overtourism», come è ormai definito questo fenomeno. Non bisogna cioè cedere alla facile e snobistica tentazione di disprezzare le masse quando non ne facciamo parte, di rifiutare agli altri bellezze, monumenti e atmosfere che ci godiamo ogni giorno, o piaceri che noi stessi avidamente cerchiamo invadendo a nostra volta Parigi o Londra.
Ma qualcosa va fatta. Di questo passo si rischia un infarto urbano. E non siamo che agli inizi: nel 2018, prima del Covid, il numero di turisti in giro per il mondo era di 1,4 miliardi. Sarà di 2 miliardi tra sei anni. Di 3 miliardi nel 2050. Il guaio (per modo di dire) è che anche le esigenze di mobilità dei non turisti aumentano con l’aumentare della rapidità dei trasporti (alta velocità, aerei) e con l’invecchiamento della popolazione (gli over 65 non vanno in monopattino, hanno bisogno di autobus, metrò e taxi). Il che ci fa facilmente prevedere che, tra poco, nelle città non ci staremo più tutti insieme”.
Poi la parte di riflessione costruttiva: “Fare qualcosa vuol dire adeguare la nostra vita, le nostre strutture civili, le nostre città, ai numeri crescenti di turisti, in modo che portino reddito e benefici al settore senza rendere impossibile la vita degli altri. Per esempio riorganizzare il traffico urbano, con aree pedonali per loro e aree di circolazione automobilistica per i residenti. Potenziare la raccolta dei rifiuti in quartieri in cui ormai vivono stabilmente alcune migliaia di persone in più. Chiedersi di quanti voli aerei abbiamo bisogno d’estate per evitare che i prezzi schizzino di ora in ora o che ti lascino a terra per overbooking. Aumentare il numero dei taxi così da non dover fare file di un’ora all’uscita dalla stazione. In una parola programmare, quello che in Italia non si fa mai; e avere un potere pubblico in grado di farlo, perché è suo dovere proteggere lo spazio e le funzioni pubbliche, e un capitalismo moderno non consiste nel dominio dell’algoritmo e del profitto senza regole. È il potere pubblico che può mettere in campo gli incentivi e le norme che spingano a diversificare, distribuire, indirizzare le masse di turisti anche verso i «second best», posti e luoghi magnifici che alleggerirebbero le mete tradizionali e meriterebbero più presenze, ma non finiscono mai nelle campagne pubblicitarie della Venere di Botticelli, dietro la quale spiccano solo Venezia, Firenze e Roma (basti pensare che in Italia ci sono 610 musei con una media di appena 2,7 visitatori al giorno, e altri 998 che arrivano a 13,7)”.
La chiosa in qualche modo persino ci riaguarda: “Il turismo è una benedizione del cielo, ovviamente. Per almeno cinquecento dei tremila comuni turistici italiani, in particolare quelli montani, è addirittura condizione di vita, nel senso che senza morirebbero. Dunque lo vogliamo. E anche se non lo volessimo, è ormai una realtà, destinata a crescere ancora e tumultuosamente. Dunque ci dobbiamo convivere. Perciò sarebbe meglio pensare al più presto a una strategia, prima di restarne soffocati”
L’organizzazione mondiale del turismo (UNWTO) ha dedicato un intero Rapporto al fenomeno dell’overtourism., che propone 11 strategie di contrasto, alcune comprensibili, altre meno. Le elennco.
1) Incentivare la dispersione dei turisti all’interno della città, e anche oltre nel territorio, suggerendo la visita di mete meno note e di aree meno turistiche.
2) Promuovere il turismo in periodi diversi (ad esempio fuori stagione) e in fasce orarie diverse dalle più gettonate.
3) Creare nuovi itinerari e attrazioni turistiche diverse dalle più frequentate.
4) Rivedere e migliorare i regolamenti, ad esempio chiudere al traffico alcune aree più fragili o troppo frequentate.
5) Attrarre tipologie di viaggiatori più responsabili.
6) Garantire i benefici del turismo alle comunità locali, ad esempio aumentando il numero di abitanti impiegati nel turismo, e coinvolgendo i residenti nella creazione di esperienze turistiche.
7) Sviluppare e promuovere esperienze della città o del territorio che beneficino sia i turisti che i residenti.
8) Aumentare le infrastrutture e i servizi della località.
9) Coinvolgere la comunità locale nelle decisioni e scelte turistiche.
10) Educare i viaggiatori e comunicare loro come essere più responsabili e rispettosi del luogo.
11) Monitorare e misurare i cambiamenti.

Dietro la pizza

Mi ha sempre profondamente divertito constatare come la stessa cosa cambi a seconda degli usi e dei costumi su cui impatta. Segno che la globalizzazione esiste e rischierebbe di imporre tristi serialità, ma viene mitigata grazie alla differenza delle culture, che sanno reinterpretare in modo straordinario qualunque cosa per evitare piattezza e conformismo.
Il caso della pizza è davvero straordinario. Ormai non esiste Paese al mondo dove, che sia un chioschetto scassato o un locale standard di una multinazionale, non ci sia una più o meno ammiccante scritta “Pizza”, ma ognuno aggiunge elementi propri di differenziazione e originalità.
Ha ragione l’intellettuale francese Jacques Attali a sintetizzarne il successo: ”Se c’è un piatto universale, quello non è l’hamburger bensì la pizza, perché si limita a una base comune – l’impasto – sul quale ciascuno può disporre, organizzare ed esprimere la sua differenza”.
Insomma, come la tela per un pittore, ognuno può esprimere i propri gusti.
Per me la pizza ha il gusto antico ed evocatore di quella ligure dell’infanzia cucinata dalla mamma Brunildee quella mangiata sotto l’ombrellone comperata al bar della spiaggia appena sfornata. È la prima socialità con i compagni del Ginnasio alla vecchia Grotta Azzurra di Aosta. Poi si snoda nelle abitudini con familiari e parenti in quella mappa mentale (il proprio TripAdvisor) di pizzerie viciniore in Valle d’Aosta, rassicuranti quando scatta la frase "È andassimo a mangiare un pizza?” o l’altra proposta, da quando la pizza é diventata a domicilio, ”ordinassimo la pizza?”.
A conti fatti, in quelle parti di linguaggio che fanno parte di un patrimonio comune dell’umanità, la parola “pizza” spicca e mi ha fatto, come capita spesso, chiedermi da dove venga questa parola di uso universale. E mi stupisco per lo spazio enorme proposto da Etimologico.
Il descrittivo iniziale è chiaro: “FORMAZIONE ROMANZA DI ORIGINE LATINA: probabilmente derivato del latino volgare “pisiāre ‘pestare, schiacciare con le mani’ attraverso una variazione. *pitsiāre con rafforzamento della fricativa e genere femminile dovuto al sinonimo latino placenta ‘focaccia’ “.
Chiaro? Non molto, ma almeno le radici passare e remote appaiono.
Ma poi l’anonimo autore si allarga non poco e le origini della parola si complicano: “La semplicità fonetica di una parola come pizza, con le varr. pinza sulla costa alto-adriatica e pitta in Calabria e nel Salento, la espone a molteplici interpretazioni etimologiche, che si contrappongono secondo almeno quattro filoni: quello greco-semitico, orientato verso il bacino del Mediterraneo (Fanciullo, Alinei & Nissan), quello germanico che chiama in causa Goti e Longobardi (Princi Braccini), quello di ascendenza diretta indoeuropea (Kramer 1) e quello del sostrato con epicentro illirico (Hubschmid, Kramer 2). Tutte le proposte hanno qualche argomento forte a proprio favore, ma nessuna è in grado di render conto di tutte le varianti e della loro distribuzione geografica. L’ipotesi greco-semitica si fonda sulla presenza di pitta in calabr3/3 in salentino in continuità coi Balcani (greco pit(t)a, albanese pite, serbo pita, rumeno pită, ungherese pite, turco pita), che a loro volta sono debitori della Siria e della Palestina (aramaico pitā, dalla radice verbale ptt ‘sbriciolare, sminuzzare’); l’efficacia della motivazione dal verbo semitico si arresta però di fronte alle varr. pizza e pinza. L’ipotesi germanica si fonda sul fatto che solo la fenomenologia fonetica del gotico e del longobardo è in grado di spiegare le varr. pitta, pizza e pinza, che si riscontrano nei testi medievali come corrispondenti al latino buccella ‘boccone’ e ‘panino’ e che chiamano in causa il gotico “bita e il longobardo “pizzo ‘morso, boccone’ (alto tedesco bizzo ‘morso’, tedesco Bissen); ma il contatto romanzo-germanico ha confini ben precisi che non hanno giurisdizione sul Mediterraneo. L’ipotesi indoeuropea, poi abbandonata dal suo stesso sostenitore, è in grado di dominare l’area italiana e balcanica, ma si fonda sulla ricostruzione di una forma “pĭtu ‘cibo’, che è priva di consistenza e di evidenza. L’ipotesi del sostrato aggiunge a questi difetti l’evocazione di un fantasma *pĭtta, privo di fondamenti storici”.
A questo punto si tirano le fila: “La conclusione che emerge da questi confronti è che una soluzione unitaria non pare possibile; il calabrese e il salentino pitta è in continuità con l’area mediterranea e risale in ultima analisi all’aramaico pittā, documentato fin dal sec. II d.C., mentre pizza (con la var. pinza), le cui prime attestazioni in documenti latini datano alla fine del sec. X, è riconducibile alla famiglia del latini pi(n)sāre “pestare, schiacciare con le mani". A questo verbo risalgono diversi termini culinari, che indicano cibi ottenuti manipolando una sfoglia di acqua e farina, come i pici senesi, che sull’Amiata diventano piciarelli e nell’Umbria adiacente picchiarelli”.
Mi fermo qui perché si rischia davvero di perdersi in mille rivoli, anche se è davvero affascinante scavare nelle parole, che mostrano interscambi e assonanze.
Resta chiara la sua complessa semplicità e cioè una base che sostiene un mondo culinario che ne approfitta a beneficio dei nostri palati.

Scenari alpini da cambiamento climatico

Il cambiamento climatico è un tema da mantenere in cima ai nostri pensieri, quando si ragiona sul futuro delle Alpi e naturalmente della Valle d’Aosta.
Ricordo alcune conseguenze di questo fenomeno, che mai ha avuto una velocità così terribile e un’incidenza umana così rilevante ed evidente in barba a chi continua ad essere negazionista per ignoranza.
Il cambiamento climatico sta avendo diverse conseguenze sulle Alpi, molte delle quali sono già visibili e altre potrebbero manifestarsi in futuro. Ecco alcune delle principali questioni.
Riduzione dei ghiacciai, visto purtroppo con i miei occhi, dove sono salito con tamponi oggi è pietraia. A causa dell'aumento delle temperature, le calotte glaciali delle Alpi stanno perdendo massa in modo significativo. Questo ha per cominciare un impatto sulla disponibilità di acqua, sull'habitat degli animali e della flora che dipendono dai ghiacciai come riserva di acqua.
Vi e poi la serie degli eventi meteorologici estremi: mai avrei pensato di vedere i vecchi temporali trasformati in simil monsoni. Questo aumento di eventi meteorologici estremi innesca inondazioni, valanghe in zone mia viste, frane che minacciano zone abitate e vere e proprie tempeste. Questi eventi possono causare danni alle infrastrutture, alle comunità locali e all'ambiente naturale.
Assistiamo poi all’impatto sulla vegetazione e l’incisione sugli ecosistemi. Le temperature più elevate influenzano la distribuzione e la composizione della vegetazione alpina e lo ai vede dalla vite e dagli ulivi, per citare due casi. Le specie vegetali che dipendono da condizioni di freddo e umidità specifiche potrebbero trovarsi in difficoltà, mentre altre specie invasive se non persino pericolose su stanno espandendo. Questo può alterare gli ecosistemi e la biodiversità sulle Alpi con scomparsa anche di specie animali, tipo la sofferenza di stambecchi e difficoltà per pernice bianca o lepre variabile.
Vi è poi il tema dei corsi d'acqua e, nel caso valdostano, l’alimentazione dei Ru che servono alle zone dell’Envers. Questo perché - come dicevamo - l’aumento delle temperature provoca lo scioglimento dei ghiacciai contribuisce all'aumento del flusso d'acqua nei fiumi alpini e in prospettiva al rischio di periodi di prosciugamento. Questi cambiamenti nel regime idrologico, avranno conseguenze sulla disponibilità di acqua per uso umano, agricoltura e sulla produzione di energia idroelettrica e per questo fa bene la nostra CVA a puntare fuori Valle su eolico e fotovoltaico a vantaggio dei finanziamenti per la Valle derivanti da queste produzioni di energia pulita.
Segnalo ancora l’impatto sull'agricoltura e sull'economia locale. Come già accennato, i cambiamenti climatici possono influenzare le attività agricole e l'economia delle regioni alpine. Le colture possono essere soggette a nuove sfide, come periodi di siccità o piogge intense, che possono compromettere la produzione agricola e influenzare pratiche tradizionali estive come l’alpeggio. Inoltre, il turismo alpino, che è una fonte importante di reddito per molte comunità locali, potrebbe a certe quote risentire degli effetti del cambiamento climatico, ad esempio a causa della riduzione delle nevicate invernali e su questo bisogna lavorare senza drammatizzazioni, perché alle quote più elevate la neve ci sarà.
Questi sono solo alcuni esempi delle conseguenze del cambiamento climatico sulle Alpi. Dovendo sintetizzare in slogan persino troppo alla moda: è importante adottare misure per mitigare l'impatto e adattarsi a queste sfide, riducendo le emissioni di gas serra e implementando politiche e pratiche sostenibili sin da ora e non inseguendo le emergenze al loro apparire.
In questo modo si vola alto e se esistono responsabilità personali nel proprio stile di vita, ce ne sono anche per le comunità come la nostra e quelle di tutte le Alpi, ma senza una politica globale le temperature aumenteranno con esiti sempre peggiori.
E la macchina del cambiamento ormai è destinata a non arrestarsi, anche se si prendessero ora le misure più drastiche possibili. Per cui spetta a noi oggi e non domani assumere le decisioni per prepararsi e adattarsi, sperando naturalmente che il mondo intero acquisisca consapevolezza dei rischi.
Ne abbiamo discusso qualche ora fa in un incontro a a Macugnaga con il mio vecchio amico, il climatologo Luca Mercalli, mischiando il tema con l’altrettanto, tema sconvolgente per la montagna, crollo demografico.
Luca segnala un’opportunità che può pure diventare un pericolo senza politiche adatte. Le grandi città della pianura padana avranno fra 30 anni temperature pazzesche nelle stagioni calde, arrivando - secondo le previsioni - a punte di 35-40 gradi, se non peggio (già viaggiavamo in queste ore in pianura sui 33!). Intanto le zone costiere saranno gravemente erose, creando zone inabitabili ad esempio in vaste zone sull’Adriatico.
Le montagne, con temperature meno terribili e spazi vitali meno compromessi, potranno essere oggetto di spostamenti di popolazione a compensare gli abbandoni avvenuti nel tempo in molti paesi in montagna e il crollo delle nascite.
Ma come regolare questo fenomeno? La questione, in modo previsionale e con le opportune azioni e contromisure, si gioca pensandoci oggi e non rinviando a quando avverrà.
Senza drammatizzare ma con realismo, si tratta nel caso valdostano di una sfida epocale da affrontare nel rispetto delle comunità locali e della nostra autonomia.

Il richiamo della Poesia

C’è stato un tempo della mia vita in cui leggevo in modo continuativo le poesie e per farlo scoprivo i poeti. Ho letto di tutto sia in italiano che in francese. Da adolescente scribacchiavo qualche verso sbilenco. Rileggo ogni tanto e con invidia le poesie di mio zio Séverin Caveri e trovo in quelle generazioni tutte novecentesche una cultura umanistica profonda che anche oggi fa la differenza.
Ora ne leggo meno e vedo attorno a me generazioni più giovani che, finiti gli obblighi scolastici in cui la poesia compare spesso in modo ripetitivo coi medesimi autori di sempre, alla Poesia dedicano in genere scarsa attenzione. Sul totale del mercato editoriale italiano, già esangue con il passare degli anni, i libri del genere oscillano fra lo O,5 e l’1% e, proprio tenendo conto degli obblighi scolastici, è poca cosa
Sofia Greggio su BuoneNotizie aveva scritto con un barlume di speranza: “La poesia ha visto un declino sempre più allarmante negli ultimi anni; è stata surclassata dalla narrativa e dalla saggistica, divenendo impopolare come mai è stata storicamente. Ma forse siamo vicini a un cambio di direzione, che è iniziato con il fenomeno di Amanda Gorman. Con la sua raccolta “Call Us What We Carry” – in arrivo in Italia per Garzanti nella primavera del 2022 – si è piazzata al primo posto delle classifiche di New York Times, Usa Today, Wall Street Journal e Indie-Bound (superando John Grishman). Un successo importante per una forma d’arte rimasta tanto in ombra, ma che potrebbe rappresentare una gradito ritorno sul palco dell’editoria nel 2022 anche in Italia”.
Per ora non mi pare che l’atteso risveglio sia avvenuto e mi spiace, ripromettendomi di comprare la citata raccolta che ha infiammato gli States.
Marcello Veneziani, uno dei pochi intellettuali di Destra sinceramente federalista e per questo l’ho seguito nel tempo, ha scritto argutamente: “Il brutto è che i sedicenti poeti scrivono poesie ma non le leggono; non le proprie, che sanno a memoria, dico le poesie grandi. Da un popolo di poeti– occasionali, intermittenti, accaniti – uno si aspetterebbe un boom di libri di poesie.
E invece niente. Perché scrivono poesie come sfogo del singolo, esaltazione egocentrica, preghiera a dei, natura o a singoli amati, soprattutto se perduti. E fin qui capisco. Ma scatta l’aggravante quando il poeta non vuole solo esprimere quel che ha dentro, ma pretende di pubblicare il suo sfogo e farsi ammirare”.
Già leggere i classici è sicuramente un bene e consente di scavare nella lingua e l’obbligo di memorizzarne alcune per ripeterle a memoria è un esercizio utile e mi pare non più tanto praticato.
“L’uomo sordo alla voce della poesia è un barbaro”, scriveva Goethe e si tratta di un grido da ascoltare. il filosofo Byung-Chul Han crede che stiamo sviluppando una fobia della poesia come società perché non siamo più ricettivi a quel meraviglioso caos letterario con cui dobbiamo connetterci a livello emotivo ed estetico. Saremmo schiavi nella sostanza di linguaggi standard, poveri di emozioni e sentimenti, mentre “La poesia è fatta per sentire ed è caratterizzata da ciò che chiama sovrabbondanza e significanti […] L’eccesso, la sovrabbondanza di significanti, è ciò che fa sembrare il linguaggio magico, poetico e seducente. Questa è la magia della poesia”.
Insomma una prigione derivata da sorta di pigrizia intellettuale. Temo che il trionfo delle immagini e la rapidità crescente delle comunicazioni, che già si riflette su molte cose nella nostra vita, spenga l’approccio pensoso e la ginnastica mentale cui ci obbliga la
Poesia.

L’imprescindibile aperitivo

Ci sono argomenti seri o forse seriosi e ce ne sono - come dire? - sbarazzini e divertenti. Che grigiore sarebbe la nostra vita se ci fermassimo solo alla prima categoria.
Più passano gli anni e più credo che si debbano vedere le cose con un pizzico di ironia e necessitino momenti di distensione anche quando ci si trova ad affrontare argomenti da non prendere alla leggera. Vi sono poi situazioni in cui bisogna surfare su forme collettive di incontro in un mondo in cui la socialità viene avvelenata - paradosso linguistico - dai Social.
Per questo plauso ad un articolo sul giornale francese OBS di Anna Topaloff, che si occupa del rito crescente dell’Aperitivo, cui offro il massimo riconoscimento con l’uso della maiuscola. Momento buono per tutti i…momenti, ma il cui fulgore è nel ”farniente”, come dicono in francese con un italianismo, delle vacanze estive.
L’incipit è avvolgente: « Il y a ceux à qui suffisent une bière et un vague paquet de chips ; ceux qui dégainent les tartinades maison, une effilochade de pata negra et les infusions de kombucha ; les amateurs de terrasses, et leur passion coupable pour les « planches mixtes » ; les fous de cocktails, qui cherchent les meilleurs accords gastronomiques dans les bars des grandes villes”.
Assodato che in Francia il rito è diventato abitudine per il 90% dei francesi, più avanti si spiega: ”Cette idée assez curieuse quand on y pense – boire et manger, avant de passer à table – est née d’un impératif, ou plutôt d’une croyance d’ordre médical. Le
mot vient du latin apertivus, dérivé d’aperire qui signifie « ouvrir », et la pratique vise alors à boire de l’alcool en préambule au repas, pour favoriser la digestion. Elle pourrait remonter à l’Antiquité, quand on trinquait vers le ciel pour ouvrir son esprit aux dieux. Elle s’est en tout cas ancrée dès le Moyen Age, comme remède préventif à la mauvaise qualité de l’eau. Le grand tournant viendra plus tard, quand l’Italie du XVIIIe siècle donne naissance à l’aperitivo. La création du vermouth, en 1786, à Turin, lancera l’aventure des « boissons apéritives », parées de vertus aussi médicinales que gustatives, comme Martini&Rossi, Cinzano, Gancia, Campari… La France attendra le XIXe siècle pour s’y mettre, mais ça décolle vite : c’est l’âge d’or du Dubonnet, de la Suze, du Lillet, de l’absinthe, puis de l’anis Pernod ».
Excursus rapido in vista della successiva estensione: ”D’abord réservée à une élite, la pratique se démocratise au tournant du xxe siècle, à la faveur du développement de l’industrie de la distillerie en France et en Europe. Alors, les rituels évoluent, comme l’explique l’historien Didier Nourrisson, auteur du merveilleux livre « Crus et cuites. Histoire du buveur » (Editions Perrin). « L’apéritif des plus aisés se prend à la maison, avant le dîner. Celui des ouvriers à la va-vite, à la pause de midi, debout au comptoir. On commence à l’appeler “apéro”, et pas toujours de façon positive… D’ailleurs, pour s’en distinguer, les bourgeois vont préférer le vocable de “cocktail”, popularisé par le roi Edouard VII, en visite à Paris en 1903. » Les fêtes en son honneur étaient si courues, les gin tonics si réussis, les cacahuètes (venues des pays colonisés du Commonwealth) si exotiques, que le terme cocktail a fini par ne plus désigner une boisson, mais la version « ultrariche » de l’apéritif”.
Finalmente la parola prende la scena: ”Aujourd’hui, le mot « apéro » est partout. Et chez les jeunes générations, le terme englobe indifféremment toutes sortes de rassemblements, qui peuvent s’étendre jusqu’au matin – sans qu’il soit jamais question de passer à table. Et pourtant, on mange, à l’apéro ! On n’a même jamais passé autant de temps à composer ce qui s’apparente de plus en plus à un vrai repas. Pris dans la grande tendance du « fait maison », le phénomène rencontre un insolent succès en librairie : chaque semaine ou presque offre son nouveau livre de recettes « spécial apéro », versions chaudes, froides, italiennes, tapas espagnoles, libanaises, finger food, campagnarde ou végétale… Même les accros de la junk food ne désarment pas : le Syndicat des Apéritifs à Croquer se félicitait début juin de la belle résistance du marché de la chips face à la hausse des prix. A force, on en oublierait presque les vertus digestives du rite originel”.
Aveva ragione Marcello Marchesi riferito agli italiani: ”Un popolo con una così grande varietà di aperitivi come il nostro non può morire di fame”. Ma il grande battutista chissà che cosa avrebbe detto del tragico neologismo “apericena”, che in realtà si è configurato come un sostituto della cena con grande possibilità di alzare il gomito. Ci ha pensato Serena Cappelli: “Ingozzarsi di roba imprecisata ha l’indiscutibile vantaggio di attutire, oltre alla fame, anche l’effetto dei tre Negroni.
Ma perché, perché dobbiamo chiamarlo apericena?
È una parola tristissima, accidenti, come le sue sorelle aperipasta e aperipizza”.

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