Acqua!

Sentire tamburellare la pioggia sul tetto di casa suscita i versi dannunziani “Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse”. Quasi lo stupore per qualcosa che ci mancava.
Così Alexis che torna eccitato dall’allenamento e dice: “Finalmente abbiamo sciato in neve fresca!”. Questo avviene per le due stagioni invernali avare di neve naturale quasi dappertutto.
Intanto, anche nel Comune dove abito, l’annuncio di fare attenzione all’uso dell’acqua potabile, mentre in altre zone della Valle sono già in azione le autobotti.
CVA - altro aspetto - annuncia cali significativi nella produzione di energia idroelettrica e anche gli agricoltori seguono con preoccupazione là situazione in vista della bella stagione.
“Siccità” è un prestito dal latino siccĭtas -ātis ‘asciuttezza, aridità’, derivazione ben con comprensibile di sĭccus ‘arido, asciutto’ e naturalmente si declina in modo diverso su ogni Continente e per noi è importante approfondire quanto avviene ed avverrà e ci sono interessanti progetti di fonte europea cui stiamo partecipando per avere dati scientifici di prospettiva che ci consentano le scelte più giuste nella gestione di questa emergenza. Per altro - per essere chiari - questa storia dell’acqua fa parte della nostra storia, come dimostrato dalla costruzione di Ru che attraversano la Valle spostando le acque e anche da cause secolari far Comuni per liti sul loro utilizzo
È ovvio che questa situazione attuale, senza eccessi di allarmismo che non sono mai positivi, si ricollega al cambiamo climatico, di cui ormai si conoscono le cause, ma non del tutto certi meccanismi che hanno come conseguenza questa carenza di pioggia e in quota di neve. Nella speranza che ci siano in questi due inverni elementi di eccezionalità, resta scontato che l’aumento delle temperature (lo zero termine ha raggiunto quote incredibili!) che squaglia e fa arretrare i nostri ghiacciai - vere riserve di acqua - obbliga l’umanità a reazioni politiche rispetto ad arrestare quelle ragioni di cui siamo responsabili nella spinta al climate change.
Sul nostro piano locale diversi progetti sono importanti: la gestione acquedottistica che ha visto nascere un ente specifico e ci vorranno investimenti significativi. Vi è poi la necessità di lavorare in settori specifici come la gestione delle risorse idriche attraverso i consorzi di miglioramento fondiario, che gestiscono la rete di canali che percorrono il nostro territorio. Vi è, in parte collegata, la necessità di costruire bacino di raccolta e già esistono progettualità per un uso più razionale dell’acqua per i suoi diversi usi, compreso l’innevamento artificiale. Ma approfondimenti vanno fatti a tutela delle acque di falda e sulla possibile captazione di acque sotterranee in profondità. Nel settore idroelettrico la modernizzazione degli impianti è importante, così come possibili innovazioni come il pompaggio.
Insomma: una strategia complessa e costosa ma necessaria per contrastare una crisi idrica che può avere gravi conseguenze. Naturalmente bisogna poi dirigere il traffico, sapendo anche del rapporto fra le nostre risorse idriche e il loro uso anche nelle zone di pianura subalpine. Pensiamo all’uso dell’acqua della Dora a valle, ad esempio nel settore della risicoltura vercellese.
Poi ci vuole maggior coscienza personale e familiare nell’uso responsabile dell’acqua e già ci sono state e vanno rafforzare campagne informative anche nelle scuole.
Infine l’acqua, sotto diverse forme, può essere un elemento distruttivo con piogge monsoniche che stravolgono il territorio con allagamenti e frane, per non dire di rischi valanghivi su terreni aridi e bisogna ben comprendere i rischi in alta montagna dello scioglimento del permafrost. Tutte conseguenze che bisogna tenere da conto nella vita quotidiana con una coscienza diffusa di protezione civile e anche di educazione nei confronti dei turisti che frequentano la nostra Valle.
Chiudo con un ultimo rimando a Gabriele d’Annunzio e ad una sua celebre poesia:
Acqua di monte

acqua di fonte

acqua piovana

acqua sovrana

acqua che odo

acqua che lodo
acqua che squilli
a
acqua che brilli
a
acqua che canti e piangi

acqua che ridi e muggi.

Tu sei la vita
e sempre fuggi

Una nuova Dichiarazione per i popoli alpini

Occuparmi di Affari europei e assieme di politiche della montagna è per me fonte di grande soddisfazione. Lo è ormai da tanti anni con diversi ruoli e trovo che avere a che fare con le diverse materie afferenti comporti grandi occasioni di crescita.
Ieri ero, presso la Città metropolitana di Torino, per un evento conclusivo (ma tornerà) del Piter Graies Lab, che riunisce diversi partner piemontesi e savoiardi e naturalmente valdostani.
Per capirci ci sono elementi simbolici che uniscono. Penso al Canavese confinante con la Valle, alle vallate del Gran Paradiso che ci accomuna con il Piemonte, alla Valle di Lanzo dove operò Aymone di Challant, alla Savoia con quel luogo magico e dalla grande profondità storica del Colle del Piccolo San Bernardo. Esiste in questo caso - lo dico con il sorriso - l’unica querelle su dove nacque San Bernardo. Noi sappiamo ormai che le fonti storiche lo fanno aostano, mentre in Savoia di insiste sulla sua nascita a Menthon sul Lago di Annecy, malgrado sia ormai un accertato falso storico.
Ma quel che conta è la filosofia di fondo di questa cooperazione territoriale, che è in questo caso un dato che deriva dall’appartenenza comune e millenaria sotto Casa Savoia con linee confinarie cicatrici della Storia, che andavano ricomposte per cultura e vicinanza, dopo essere state artificialmente create dagli Stati nazionali in una logica di fare delle vallate alpine dei cul de sac.
La cooperazione transfrontaliera è dunque una sorta di piccola politica estera, nel quadro della politica regionale comunitaria (grande intuizione di Jacques Delorsche grazie all’Europa ha superato l’ottusità degli Stati che fino a non molto tempo fa avversavano assurdamente certi legami nel nome della sovranità statale esclusiva. Un vecchio retaggio ormai da considerarsi illogico e anacronistico, ma temo non ancora sepolto del tutto.
A questo si aggiunge un problema di cui si discute su tutte le Alpi ed è il rapporto fra la montagna e la pianura subalpina, dove si trovano le grandi città. C’è chi - penso a Mariano Allocco o ad Annibale Salsa - predica da tempo la necessità di un vero e proprio patto fra questi territori, partendo beninteso da una logica di eguaglianza. Gli strumenti per farlo non sono facili e ci vorrebbe da parte di noi montanari un passo in avanti, una proposta seria, programmatica e assieme piena di ideali e di valori.
Nel prossimo dicembre si celebrerà L’ottantesimo anniversario della Dichiarazione dei popoli alpini di Chivasso, scritta da valdesi e valdostani nell’ormai lontano 1943, in un periodo storico difficile con il giogo nazifascista che imprigionava ancora l’Europa e i montanari lanciarono in clandestinità questo manifesto a vantaggio di tutti i popoli alpini.
Temo sempre le celebrazioni a rischio retorica. Per questo mi piacerebbe - e la Valle d’Aosta è certamente pronta - che l’occasione, come avviene con un vecchio albero che si rinnova nel tempo, servisse a far germogliare una nuova Dichiarazione di Chivasso, mettendo attorno ad un tavolo diversi attori per guardare avanti.
Se nel 1943 i padri della Dichiarazione dettero dimostrazione di essere capaci non solo a guardare al loro presente ma a proiettarsi con preveggenza verso il futuro, allora spetterebbe a noi essere positivamente visionari e capire gli scenari attuali e con grande onestà nel spingerci oltre a certo tran tran che anestetizza le coscienze con proposte che servano per il futuro.
Non ingabbiamoci in logiche convegnistiche e di politique politicienne. Bisognerebbe con grande semplicità ma con forte efficacia e pure con capacità autocritica muoversi con un confronto serio senza troppi fronzoli.
Altrimenti sarebbe davvero un’occasione sprecata, specie guardando alla biografia dei protagonisti della Dichiarazione e a chi, su quelle pagine, ha riflettuto e sgobbato dopo di loro in un solco preciso, provandone ogni volta ad attualizzare i messaggi per evitare di essere anacronistici.
L’esperienza delle Autonomie speciali dell’Arco alpino, pur non essendo lo sperato federalismo, resta un punto di riferimento, che deve accogliere tuttavia un dibattito più vasto, sapendo che c’è un debito storico verso le “altre” montagne che non hanno avuto medesimo destino.
Per cui oggi ragionare sulle montagne alpine e sui popoli che le abitano, lato Sud e lato Nord, vuol dire aggiungere più Europa e tornare a certe radici federaliste, che spetta a noi mantenere vive per contrastare il ritorno a nazionalismi giacobini e centralisti e all’andazzo di chi guarda alla montagna con logica colonialista e con totale incomprensione del ruolo umano nello sviluppo dei territori. L’uso dell’orrendo termine “antropizzazione”, con l’uomo come elemento di inciampo, mostra una visione grottesca della Natura.
Sono temi difficili, ma lancio davvero un appello accorato - e senza intenti strumentali o ambizioni personali - a camminare tutti nella stessa direzione e a scrivere una Dichiarazione condivisa e incisiva, che possa essere degna di quanto si scrisse - a rischio della propria vita (Émile Chanoux venne ucciso pochi mesi dopo dai fascisti) - in quello storico incontro.

Riflessioni su Tik Tok

Sono andato a vedere questo Tik Tok, il Social che ipnotizzava il preadolescente Alexis. Uso il passato perché ormai gli è stato vietato per la sua capacità attrattiva che non gli faceva del bene in una logica compulsiva.
Non so bene - lo ripeto da tempo - come si potrà far risolvere nelle generazioni più giovani il gusto o meglio l’indispensabilità di una socialità vasta, che si fa vis à vis e non in remoto. Intanto i divieti servono ad arginare gli eccessi, ma non mutano la sostanza.
Leggere pareri sul tema resta comunque importante e Internazionale propone le riflessioni del polacco Michal Szuldrzynski,,scritte su Rzeczpospolita. Ma analoghi ragionamenti si trovano ormai in tutti i Paesi. Quel che trovo interessante - pensando a quanto si sia reso ridicolo su Tik Tok Silvio Berlusconi - è già la prima parte, dedicata proprio si politici.
Ecco: “Su TikTok c'è una specie di sdoppiamento della personalità. Da un lato, i politici pensano in modo apparentemente logico. È il social network che cresce più rapidamente, in Polonia l'app è presente in uno smartphone su tre ed è usata da
milioni di polacchi. Bisogna andare là dove sono gli elettori, pensano i politici. E così molti di loro creano account e caricano video su TikTok, mentre partiti e istituzioni lo usano per le loro campagne d'informazione.
Dal momento che in media un utente apre l'app dieci volte al giorno e ci trascorre da mezz'ora a un'ora e mezza, i politici s'illudono che se un milione di utenti visualizzerà un loro video otterranno l'attenzione di un gruppo enorme di potenziali elettori. E così semplificano linguaggio e messaggio, aggiungono una musichetta di sottofondo, effetti grafici e sottotitoli, convincendosi di raggiungere i cittadini.
In fondo dispongono di dati concreti, di statistiche che tracciano il numero di persone raggiunte da ogni contenuto. Sulla carta tutto quadra.
Solo che TikTok è perlopiù uno strumento d'intrattenimento. Chi ci ha passato un po' di tempo sa di cosa sto parlando. E chi non lo ha fatto sappia che si tratta principalmente di video in cui le persone scherzano, fanno smorfie, ballano sulle note di tormentoni musicali, si travestono, mostrano qualche abilità o incidenti registrati per caso. I vecchi filmati a cui ci aveva abituato la televisione, come la telecamera nascosta o i video di matrimonio inviati dagli spettatori in cui si vede per esempio una sposa che cade sulla torta nuziale, sembrano vette di buon gusto rispetto a ciò che passa su TikTok.
Ma non è solo una questione di buon gusto. La domanda è se agli elettori arrivi davvero un messaggio, dal momento che su TikTok un video viene osservato in media per un tempo compreso tra i due e i cinque secondi. Si passa oltre letteralmente dopo un batter d'occhi. Quindi, i dati che mostrano il numero di persone raggiunte da un politico o da chiunque altro non sembrerebbero una mera illusione”.
Concordo pienamente: la brevità, per altro, è croce e delizia. Ormai è vero che scritti come il mio in questo momento sono forse troppo lunghi, ma certi “corti”, specie video, non si prestano a proporre pensieri almeno un pochino più approfonditi.
Ma torniamo a noi e in particolare si nostri figli con le parole di Michal Szuldrzynski: “Allo stesso tempo, i ricercatori mettono in guardia dai rischi legati alle app video, soprattutto Tik-Tok. Gli studi già da qualche anno avvertono che i social network creano una dipendenza neurologica dalla dopamina. Il funzionamento dell'app cinese è stato paragonato senza troppe esagerazioni a quello delle droghe pesanti. Il suo uso prolungato ostacola la concentrazione e l'apprendimento, e provoca tensione nervosa. Promuovendosi attivamente su Tik-Tok, i politici non contribuiscono ad amplificare il potere e le conseguenze dannose di questo tipo di social network?”.
Infine osserva il giornalista polacco: “Recentemente il parlamento danese ha vietato ai suoi funzionari di usare TikTok sui telefoni di lavoro. In precedenza lo avevano fatto anche la Commissione europea e il governo degli Stati Uniti, mentre raccomandazioni speciali sono state adottate anche da Paesi Bassi, Canada, Taiwan e Giappone. La ragione è il timore che l'app possa raccogliere dati dagli smartphone, e che le autorità cinesi possano usarli per attività di spionaggio. Non ci sono ancora prove concrete, ma la prudenza di Bruxelles o di Washington non può essere liquidata con un'alzata di spalle, come sembra fare il governo polacco.
Quindi, indipendentemente dal fatto che si promuovano su TikTok, maggioranza e opposizione dovrebbero almeno considerare per un momento se i vantaggi di ciò che stanno facendo siano effettivamente maggiori dei rischi”.
Insomma: non solo si rischia di fare la figura dei fessi, ma è assai probabile che Tik Tok possa essere strumento spionistico, che viola grandemente la riservatezza, già rimasta flebile di per se stessa.

Meno liquore, più preghiere

Mi ha sempre incuriosito che molti ordini religiosi vendessero dei loro prodotti. Tradizione per altro antichissima, che appare ancora ben vitale, scorrendo app e siti che si occupano della commercializzazione - difficile trovare un’espressione più efficace - di ogni ben di Dio.
Basta vedere cosa c’è su HOLYART e per la gastronomia su Gambero Rosso. Ci sono prodotti varissimi: birre, caramelle, cioccolato, cosmetici, vini e alcolici vari, infusi e tisane, oli e condimenti, rimedi naturali e i piatti cucinati sono varissimi e non li elenco per non farmi venire l’acquolina in bocca.
Mi ha molto colpito una decisione che riguarda un liquore che forse avrete già assaggiato, la Chartreuse.
La storia di questo distillato viene così descritta a uso promozionale: “La storia di Chartreuse inizia nel 1605 quando quando il maresciallo d’Estrées consegna ai monaci della Certosa di Vauvert un manoscritto contenente un elenco di 130 piante e spezie, ricetta che promette di essere un Elisir di lunga vita.
A partire dal manoscritto i monaci Certosini perfezionano nel corso dei decenni la ricetta, raffinando e tramandandosi le tecniche di distillazione e invecchiamento. Il sito produttivo di Chartreuse cambia per ben sette volte: da Parigi a Tarragona a Voiron, la distilleria si sposta assieme ai monaci, ma la Chartreuse rimane sempre se stessa.
Attualmente il sito produttivo è ad Aiguenoire, piccolo villaggio arroccato sulle Alpi francesi poco distante da Grenoble, un luogo remoto e dalla natura incantata, dove i Certosini portano avanti con cura meticolosa e grande amore la tradizione del liquore che non teme il tempo”. Ovviamente non sarà sfuggito il legame fra il nome del distillato e quello dei monaci: “Chartreuse” - luogo fondativo dell’ordine - veniva tradotto nel latino medievale come “Cartusia”.
Negli ultimi tempi questo liquore scarseggia e questo colpisce tra gli altri i consumatori di cocktail che contengono la Chartreuse, tipo il Last Word, che prevede ¼ di gin, ¼ di maraschino, ¼ di Chartreuse verde, ¼ di succo di lime. Tradotto in cl potete usare 3 cl di ogni ingrediente e il cocktail è pronto,. Oppure con la Chartreuse gialla c’è il Black Button, che prevede 1 tuorlo d’uovo, 1/4 granatina (sciroppo), 1/4 amer picon, 2/4 chartreuse giallo. Potrei ubriacarvi con una marea di altri cocktail, ma vale solo per dire di quanto questi liquori siano ricercati.
Ebbene la notizia è che la ragione della scarsità di prodotto alla fine si è svelata con una lettera in inglese mandata a tutti i distributori del superalcolico nel mondo.
Azzardo la traduzione, usandone qualche stralcio: “Nel 2021 è stata presa dai monaci certosini la decisione di non aumentare i propri volumi di produzione per i liquori Chartreuse. Stanno limitando la produzione per concentrarsi sul loro obiettivo primario: proteggere la loro vita monastica e dedicare il loro tempo alla solitudine e alla preghiera. Inoltre, i monaci non stanno cercando di far crescere il liquore oltre ciò di cui hanno bisogno per sostenere il loro ordine”.
Quindi: “Abbiamo deciso di lavorare esclusivamente con i nostri mercati principali e storici. La nostra visione è quella di soddisfare le esigenze del nostro mercato interno tanto quanto possiamo supportarlo. Continueremo a mantenere una presenza nel resto dei nostri mercati strategici: Nord America, Europa, Asia, Oceania. Fondamentalmente, cerchiamo di fare meno ma meglio”.
Insomma: la preghiera torna ad essere elemento centrale. D’altronde secondo la tradizione certosina, il "monaco del chiostro" ricerca la solitudine della cella per cercarvi Dio. La cella è un porto sicuro dove regnano la pace, il silenzio e la gioia. Se sono diversi i compiti ai quali il monaco si dedica durante la giornata, come la produzione del celebre liquore, tutta la sua esistenza deve essere una preghiera continua. Interessante la scelta coerente e forse controcorrente di tornare di più al loro côté mistico. D’altronde Il loro motto, che riassume lo spirito della vocazione certosina, è significativo:
“Stat Crux dum volvitur orbis”. Cosa significa? “La Croce resta in piedi mentre il mondo gira”.

L’uomo, il lupo e l’orso

È del tutto evidente che esiste ormai una parte del mondo degli animalisti che ha perso il senso della ragione e che non si occupa più dei legittimi e ragionevoli diritti degli animali, ma ha attraversato un confine, considerando in molti casi ormai l’uomo il problema. Lo si vede ogni volta che si ragiona sugli eccessi di espansione di certa fauna selvatica e dovrebbe essere l’uomo a cedere i propri spazi vitali.
Un caso di scuola è la strenua difesa dei cinghiali trasferiti a frotte in grandi città come Roma, dove ormai spadroneggiano pericolosamente. L’eventualità di abbattimenti, di recente manifestatasi con scelta del legislatore, è diventato per alcune associazioni una questione di importanza capitale, cui reagire con i soliti esposti di qualunque presso tutte le magistrature e con manifestazioni in cui inneggiano al cinghiale. Naturalmente loro, i cinghiali, non ne hanno consapevolezza e continueranno a creare incidenti stradali o a inseguire la vecchina con il sacchetto della spazzatura in mano, fonte di sostentamento. C’è chi in certi quartiere della Capitale impedisce ai bambini di giocare in cortile. Ma il cucciolo d’uomo ha meno diritti del maialino.
Lo stesso, trasferito sulle nostre montagne, vale per la protezione integrale del lupo, diventata per alcuni una sorta di religione con il canide sull’altare. Gli animali d’allevamento uccisi negli alpeggi o quelli d’affezione ammazzati sulla soglia di casa non interessano. Sono, in questo caso, privi di diritti e non hanno un progetto comunitario per proteggerli, com’è invece Life WolfalpsAlps EU che da anni dispensa milionate a professionisti che fanno ormai questo di mestiere: protettori indefessi del lupo, senza se e senza ma. Mentre tutto un mondo di persone sensate incomincia a preoccuparsi del dilagare del lupo, che si riproduce con grande velocità, le vestali animaliste gridano: no pasaran. Lo fanno con applaudite tournée sulle Alpi, riempiendo di sensi di colpa chi obietta.
Il lupo è diventato il simbolo dell’incomprensione del mondo della montagna, considerato capriccioso e rozzo da chi dice “che bello il lupo!”. Aiutato, anche in Valle d’Aosta da coloro che, tecnicamente capaci, minimizzano il fenomeno e dicono “tanto i lupi in eccesso vanno altrove”. In realtà spostano solo ad aumentarne il numero in vallate vicine, ma molto cambierà quando un lupo o più lupi aggrediranno qualcuno o quando il lupo, come il cinghiale, scoprirà la vita confortevole in pianura e città e dilagherà con buona pace dei difensori più strenui.
Cambio scenario, ma non argomento. Oggi ci sono in Trentino un centinaio di orsi e secondo la Provincia negli ultimi 5 anni c’è stato un trend di crescita annuo medio pari al 12% della consistenza della popolazione. Nel 1999, per salvare il piccolo nucleo di orsi sopravvissuti da un’ormai inevitabile estinzione, il Parco Adamello Brenta con la Provincia Autonoma di Trento e l’Istituto Nazionale della Fauna Selvatica, usufruendo di un finanziamento dell’Unione Europea, ha dato avvio al progetto europeo - anche in questo caso! - Life Ursus, finalizzato alla ricostituzione di un nucleo vitale di orsi nelle Alpi Centrali tramite il rilascio di alcuni individui provenienti dalla Slovenia. Grandi studi per spiegare la convivenza facile, peccato i tassi di riproduzione che sono quelli già descritti e che, per l’espansione dell’orso come del lupo, torneranno piano piano su tutte le Alpi. Scelta nobile, ma sarebbe bene capire se l’espansione sarà - come capiterà con il lupo- infinita.
L’altro giorno, in una vallata trentina, Alessandro Cicolini, 38 anni, si è trovato l'orso che era con un cucciolo a poca distanza. Come già avvenuto in altri casi, l'animale lo ha raggiunto alle spalle, buttato a terra, morso alla testa e al braccio, prima di fuggire. Cicolini ora, ferito a un braccio e alla testa, è in ospedale
Esemplare l’intervento dell'Enpa (Ente nazionale protezione animali): "La Provincia autonoma di Trento - scrive in una nota stampa - ha grave responsabilità: ha il dovere di interdire a persone e cani l'accesso alle zone con presenza di femmine di orso con cuccioli".
E sostiene ancora che quanto avvenuto "non volutamente causato, ma dovuto ad errori involontari o a condizioni inaspettate e imprevedibili".
Vi risparmio il resto: la colpa in sostanza è del povero Ciccolini, trovatosi nel posto sbagliato al momento giusto. Amen.
Interviene sul caso anche l'Oipa del Trentino: l'Organizzazione internazionale protezione animali, in risposta a quanto dichiarato dal presidente della Provincia autonoma di Trento Maurizio Fugatti, preoccupato dell’ennesima aggressione, lo invita a "riflettere sulle responsabilità e sulle soluzioni di cui l'uomo dispone per sostenere la vita selvatica sulla terra".
Si è passati, insomma, ai massimi sistemi, sempre utili per svicolare dal tema specifico: chi andrà in Trentino se la popolazione di orsi crescerà con il ritmo attuale e senza possibilità di fissare dei limiti?
I montanari di un tempo fecero strage anche in Valle d’Aosta di lupi e orsi e nessuno pensa che questa sia la strada, ma si può ritenere invece che certi predatori, senza competitori in natura, possano occupare del tutto montagne abitate e con attività economiche importanti?

Attorno ai migranti

L’argomento è uno di quelli che fanno tremare i polsi e che non si risolve con gli opposti estremismi. Nel caso specifico ciò vale fra chi aprirebbe le frontiere senza alcun limite e chi le sbarrerebbe.
Mi riferisco, infatti, alla delicata e controversa questione dei migranti, balzata in prima pagina per la strage di Crotone e la drammaticità di quegli eventi. Il copione è stato il solito: scafisti senza scrupoli, di certo inquadrati in organizzazioni criminali che gestiscono questa vera e propria tratta, che caricano a caro prezzo disperati che sognano l’Europa su imbarcazioni improbabili e pericolose. Se raggiungo le coste d’Italia è buon per loro e lo stesso capita se vengono trasferiti su navi sicure, quando sono salvati da soccorritori militari o ONG.
Un meccanismo in sostanza delinquenziale anche quando a lieto fine, retto da vere e proprie mafie, che può invece sfociare, come avvenuto in Calabria, in una strage, che giustamente ci addolora e ci commuove, mentre in porti del bacino del Mediterraneo altri migranti sono anch’essi pronti a salpare, sfidando il destino. Ricordo che molti di loro fuggono da Stati con regimi liberticidi e avranno diritto allo stato di rifugiato grazie all’ottenimento dell’asilo politico, altri - e non sono pochi - sono invece migranti economici, che cercano nell’Occidente un’occasione per fuggire condizioni di una disperata povertà senza prospettive.
Insomma: un flusso privo di alcuna regia e in condizioni di evidente pericolosità, compreso il fatto che ad emigrare verso l’Europa ci possono essere anche potenziali terroristi e avanzi di galera.
Cambiamo scenario per essere realisti. La denatalità, che pesa sull’Europa con punte inquietanti anche nella nostra Valle d’Aosta, ci obbliga a ragionare (e per la nostra Regione lo abbiamo fatto) su quale evoluzione demografica avremo e sulle sue conseguenze sulla nostra vita sociale e sulla nostra economia.
Pur invertendo - se mai ci riuscissimo - questo crollo delle nascite, tra pochi decenni avremo molti settori in crisi e già lo vediamo per professioni cardine nel settore sanitario con medici e infermieri o per l’assistenza agli anziani di cui crescerà il numero. Semplici esempi di crisi di capitale umano che potrebbero moltiplicarsi.
Ora, questo significa che l’accoglienza di migranti non può essere affidata al caso e solo sul filo della comprensibile disperazione di chi fugge, perché perseguitato o perché afflitto dalla povertà.
In Italia e in Europa, se da una parte bisogna lavorare per collaborare con i Paesi da cui si fugge per il loro sviluppo e affinché - lo scrivo senza illudermi - elementi di democrazia e di libertà di affermino, dall’altra bisogna avere una politica di accoglienza che garantisca equilibri demografici. Una scelta realista e non egoistica se dall’altra parte della bilancia - in un rapporto in cui entrambe le parti (banalmente noi e loro) ottengano un risultato positivo - questo significa nuove prospettive di vita per famiglie che scelgano - come avvenuto tante volte nella storia dell’umanità - di emigrare per avere speranze e nuove prospettive per i propri figli.
Facile a dirsi, difficile a farsi in un mix complesso di politica internazionale e nel nostro caso di un ruolo dell’Europa e dei singoli Stati, la cui capacità fattuale ricade poi sul reticolo delle comunità locali e dunque della politica di prossimità.
Quest’ultima chiamata a gestire la questione non banale dell’accoglienza e soprattutto dell’integrazione senza la quale è facile che xenofobia e persino razzismo guastino la necessaria convivenza con torti e incomprensioni degli uni e degli altri.
Personalmente ritengo proprio questa storia dell’integrazione la questione capitale, perché non si possono concepire società separate e presenza di comunità di migranti che vivano senza rispettare diritti e doveri scritti nelle nostre Costituzioni.
Resta il fatto ineluttabile che la migrazione è un delicato meccanismo di pro e di contro dal forte impatto sociale e trovare un equilibrio spetta a meccanismi politici e amministrativi, che non possono essere affidati al caso o alle reti internazionali di malavitosi che speculano sulla disperazione. E bisogna sgomberare il campo per non essere ipocriti pure da chi, anche in Italia, ha creato - come dimostrato da molte inchieste - veri e propri business lucrativi sulla pelle dei migranti.

Contro tutti i totalitarismi

Ognuno vede il mondo in politica attraverso le proprie convinzioni personali e, quando può farlo, anche grazie all’eredità familiare, nel mio caso saldamente improntata a valori democratici. Questo significa avere il privilegio di possedere un bagaglio culturale chiaro e esempi da seguire. Un insieme utile e prezioso per formarsi le proprie idee in piena libertà.
È questo uno straordinario antidoto per rispondere sempre con serenità rispetto alle posizioni e ai tentativi di influenza di chi usa la politica con logiche settarie e solo ideologiche. Questo è pericoloso, specie nella scuola, se non si indirizza a logiche di crescita dei giovani e di costruzione di un bagaglio di conoscenze, ma si scelgono logiche di indottrinamento e imposizione di visioni di parte.
Constato che c’è chi, con la giustificazione di educare, cerca di manipolare le coscienze dei ragazzi e al posto di fornire loro strumenti di base di comprensione e di discernimento per crescere rischia di trasformarli in militanti delle loro stesse cause, senza appunto i necessari elementi critici.
Questo è negativo è davvero poco democratico. Si può essere impegnati politicamente nella propria vita, ma è necessario evitare che nelle aule scolastiche ci sia chi prosegue questa medesima attività, senza possibilità di avere opportune distinzioni. Ho avuto nella mia storia personale docenti che mi hanno aiutato a formarmi le mie opinioni, senza trasferirmi le loro, e insegnanti che hanno tentato di fare il contrario.
Guardavo i volti dei giovani nel recente corteo di Firenze e certi slogan inascoltabili, in un tripudio di bandiere rosse. La manifestazione è stata frutto e reazione ad un’aggressione di giovani di estrema destra a giovani studenti di sinistra, la cui gravità è evidente, perché la violenza, specie in chiave politica, non dev’essere mai consentita e questo vale - proprio per non essere ipocriti - per il mondo anarchico che ha manifestato nelle stesse ore a Torino, passando il segno.
L’antifascismo - cui si è ispirato il corteo fiorentino - è sacrosanto e lo è a maggior ragione in un Paese come l’Italia, dove la “pacificazione” post bellica non fece i conti con responsabilità e complicità di un regime dittatoriale. Ma questa è ormai Storia e quella, rispetto alle responsabilità di Mussolini e del Fascismo, è scritta nella roccia e ogni tentativo di revisionismo o di distinguo si urta contro la realtà della dittatura e del dittatore.
Chi oggi dimostra ancora nostalgia è un cretino, perlopiù ignorante, che casca nella trappola del famoso Fascismo “buono” che è frutto di balle spaziali e di tentativi di manipolazione in cui appunto certi neofascistelli cascano come dei gonzi.
Per cui bene evitare che si falsifichi il passato, anche se sappiamo bene che proprio nel secondo dopoguerra si è stati larghi di manica con partiti che si rifacevano al fascismo e ancora oggi in Fratelli d’Italia esistono residui di persone che hanno giocato con la simbolistica fascista come il saluto romano come provocazione o la visita alla tomba del Duce a Predappio per omaggio.
Oggi - anche per questo - coltivare valori e idee della Resistenza dev’essere un patrimonio comune e fa sorridere chi, nell’estrema sinistra anche in Valle d’Aosta, vuole intestarsi l’antifascismo come se fosse un loro patrimonio da spendere sul mercato elettorale e usandolo come proprio tornaconto che li metterebbe nella posizione di fare agli altri la morale. Mentre l’antifascismo da noi ha radici pluraliste e una storia legata in Valle anche al mondo autonomista, che non dovrebbe sopportare certi scippi.
Anche perché - e questo è il punto che oggi deve distinguere l’antifascismo “vero” - è che oggi bisogna essere lucidamente contrari a qualunque ritorno delle dittature figlie della Destra, così come nella formazione dei giovani bisogna egualmente combattere ogni forma di dittatura liberticida di segno diverso e senza logiche omissive.
Per cui sarebbe bene fare i conti sull’eredità del comunismo e dei regimi - come la Russia, la Cina, la Corea del Nord, Cuba e altri ancora - dove la democrazia non c’è e invece si fa finta di niente e virus come l’antiamericanismo esistono e stanno riemergendo. Lo si vede bene in certi atteggiamenti sulla guerra in Ucraina di cui seguo con interesse le evoluzioni, temendo il peggio.

Il silenzio è la solitudine

Un ammonimento che talvolta riecheggiava da bambino era: “Non parlare con gli sconosciuti”. Si trattava di un modo tra il burbero e l’affettuoso per avvertirci, come avveniva anche con alcune favole truculente, dei pericoli del mondo attorno a noi.
Invece, parlare con gli sconosciuti, nelle situazioni della vita, è sempre stato uno stimolo per relazionarci con persone diverse e lo si faceva.
Oggi - leggo un lungo articolo sul tema su Le Monde - tutto è cambiato per via di questi telefoni multitasking su cui, per altro sto scrivendo questa mia breve riflessione.
Si intitola “L’art du papotage”, parola traducibile in italiano con “chiacchiere”, scritto da Guillemette Faure.
Così inizia: “C’est un phénomène que racontent surtout les plus de 35 ans. Des coiffeuses se sont mises à coiffer des gens qui ne leur parlaient plus. Des contrôleurs de train traversent des voitures dans lesquelles chaque voyageur a les yeux rivés sur un écran. Des caissières voient passer des clients, le téléphone coincé dans le cou, en communication avec des interlocuteurs invisibles. Des médecins observent des salles d’attente dans lesquelles on continue à s’asseoir automatiquement aux deux bouts, mais personne ne brise plus la glace. C’est la fin du bavardage. Pas des grands débats, mais du small talk comme on dit en anglais, « de la pluie et du beau temps » en version française, pour parler de ces petits échanges qui n’ont pourtant généralement pas grand-chose à voir avec la météo”.
Chiusi nel nostro telefono o tablet, spesso con le cuffiette nelle orecchie, abbandoniamo il mondo reale.
Così più avanti una prima testimonianza: “Ancien journaliste à l’origine de l’association La République des hyper voisins, Patrick Bernard voit là l’effet de la sacralisation du privé : « L’individu est devenu supérieur au collectif. On dit ma propriété privée, ma vie privée… Avant, tu disais bonjour à tout le monde ; dans une salle d’attente, en entrant dans un café… A présent, le silence est devenu la marque du respect. La conversation s’est fait expulser par les nouvelles attentes du savoir-vivre. Dire bonjour à quelqu’un qu’on ne connaît pas, ce n’est pas une violation de domicile, mais presque. »”.
Avendo vissuto il piacere di un saluto o di due parole in libertà, che spesso hanno portato a conoscenze utili e persino ad amicizie, non si può che intristirci per certi cambiamenti e in fondo le domande della Faure sono le
mie: “Si la vie est vraiment plus agréable en papotant avec des inconnus, pourquoi ne le fait-on pas ? Pourquoi choisir la place isolée dans un train quand on a la possibilité de s’asseoir à côté de quelqu’un?”
Seguono spiegazioni di esperti vari, ma la piega di asocialità è descritta bene più avanti nell’articolo con un esempio: “A force de ne plus produire de small talk, on redéfinit les standards collectifs où la norme devient de rester côte à côte, sans se parler. Quand le Monoprix du quartier Montparnasse, à Paris, a rouvert en septembre 2020 après neuf mois de travaux, il se distinguait par l’installation d’une agora baptisée « place publique », en plein cœur du magasin, autrement dit des tables, des chaises, des gradins pour créer une sorte de forum. Les clients pourraient y refaire le monde, pensait-on. Deux ans plus tard, les gradins sont généralement remplis de visiteurs qui viennent recharger leur téléphone ou se réchauffer en « swipant », mais qui ne parlent jamais entre eux. On a là plutôt une version adulte de ces scènes de départ en colo dans les gares, où des dizaines d’ados sont alignés en brochette, tête baissée sur leur smartphone”.
Ma il fenomeno è vasto: “Sans doute que notre muscle de la conversation s’est aussi atrophié par manque d’occasions. Depuis que l’écran est venu faire l’interface pour passer une commande, prendre un rendez-vous, les occasions de bavardage se tarissent. Peut-être qu’à force de remplacer les gens par des écrans, on s’est mis à les traiter comme tels, avec un service de communication minimum”.
E ancora: “ « Plus on communique par téléphone et messagerie, moins on développe de liens sociaux “offline” et plus on appréhende de parler à quelqu’un qu’on ne connaît pas », résume encore Joe Keohane, dans The Power of Strangers. L’érosion de notre sens du small talk rend plus difficile de rencontrer des gens nouveaux et contribue à l’isolement. Cette perte de capacité nous conduit même à refuser des invitations parce que « je ne connaîtrai personne » “.
Scrivo per chi ha figli che si affacciano all’adolescenza o lo sono già. Abbiamo coscienza che hanno meno amicizie di quanto ne avessimo noi? Che mancano le compagnie e le occasioni di incontro così numerose come ai nostri tempi?
Non è una lode del passato, ma la paura di nuove solitudini e di introversioni nocive.
Ma anche noi adulti rischiamo, come spiega bene l’articolo: “Le small talk, lui, ouvre aussi la voie à des occasions de discussion avec des gens différents, huilant sans en avoir l’air les rouages du collectif. Alors que nos sociétés occidentales sont les premières à nous offrir la liberté de choisir avec qui on vit, travaille et devient ami, on s’est rapprochés de nos semblables au risque de ne plus échanger qu’avec des gens de la même génération, passés par les mêmes écoles et partageant les mêmes idées politiques, ce qui, pense l’auteur, est contraire au fonctionnement d’une démocratie.
Pourtant, explique la chercheuse Stav Atir, les « liens faibles » (les gens que l’on connaît peu) peuvent se révéler d’importantes sources d’information, d’ouverture d’esprit”.
Questo è uno dei grandi insegnamenti e delle grandi chances per chi ha fatto politica: poter conoscere persone così diverse fra loro, anche solo per le “chiacchiere”, e ne esci arricchito. Ma anche la politica, vittima del mondo schiavo di nuove abitudini digitali, si sta impoverendo con una partecipazione che sta scemando e ci si si trova fra noi soliti noti.

Gli ammonimenti di Cassese

Non appaia un paradosso che sia un giurista uotraottantenne come Sabino Cassese a firmare sul Corriere un editoriale intitolato “Il bisogno di futuro”. Se il cervello funziona sono proprio persone di esperienza che possono proporre riflessioni importanti in barba a quel giovanilismo che predicò la rottamazione, quando - come sperimentiamo nella vita - essere incapaci o cretini non è purtroppo solo una cosa che ho visto che è lo questione di età.
Cassese parte dalla recente lettera del Presidente della Repubblica che, oltre allo scandalo dei “balneari”, segnala, come ha già fatto altre volte senza successo, l’ «abuso della decretazione di urgenza e la circostanza che i decreti-legge siano da tempo divenuti lo strumento di gran lunga prevalente attraverso i quali i governi esercitano l’iniziativa legislativa», nonché «il carattere frammentario, confuso e precario della normativa prodotta attraverso gli emendamenti ai decreti-legge e come questa produca difficoltà interpretative e applicative».
Per fortuna al Quirinale abbiamo chi s’intende di diritto costituzionale e vigila davvero sulla Costituzione!
Più avanti elenca il suo plaidoyer: ”Tutto inizia con il fatto che «i partiti si sono allontanati dalla società», come ha scritto Luciano Violante, il 26 febbraio scorso, su Domani : pochi iscritti; forte diminuzione, con bruschi cali, della partecipazione politica attiva; perdita di elettori; rottura del rapporto elettori-eletti; forte volatilità elettorale; congressi rarissimi. Uno dei maggiori partiti degli ultimi trent’anni ha affidato la guida della propria organizzazione ad una candidata iscrittasi in vista delle primarie e scelta da un numero di partecipanti quasi sette volte superiore al numero degli iscritti: c’è differenza rispetto alla scelta di un «podestà straniero»? Si può dire che in questo modo quel partito riesce a perdere anche le proprie elezioni interne, dopo averle delegate ad altri?
La trasformazione dei partiti da associazioni in comitati elettorali, o tutt’al più in movimenti, e quindi il loro regresso allo stato iniziale della «forma partito», comporta anche un’altra conseguenza: le loro rappresentanze parlamentari non sono composte da eletti, ma da nominati, perché scelti dai vertici e assegnati a collegi più o meno sicuri”.
Più avanti Cassese: ”La funzione legislativa è ormai svolta dal governo (si va avanti con più di un decreto-legge a settimana). L’assegnazione alle oligarchie al vertice dei partiti del compito di scegliere i candidati e paracadutarli nei collegi ha invertito il rapporto maggioranza parlamentare-governo: se una volta era la maggioranza che dominava, oggi è il contrario. Quindi, i parlamentari più che «policy makers», sono meri «politicians». Ma, frustrati dal fatto di essere esclusi dalle maggiori decisioni, si prendono una rivincita: inseriscono nei decreti-legge del governo, che debbono convertire, ogni tipo di norme (il presidente Repubblica ha segnalato che ai 149 commi originari del decreto-legge «milleproroghe» se ne sono aggiunti altri 205 nel corso della conversione parlamentare) e propongono commissioni monocamerali o bicamerali di inchiesta, una volta usate con molta parsimonia per raccogliere dati e notizie su materie di pubblico interesse, ora proposte in gran numero come strumento di battaglia politica, o talora come tribunali del popolo”.
Il Parlamento svuotato valorizza in modo abnorme la figura del Presidente del Consiglio: ”Un altro cambiamento riguarda il governo e, in particolare, il suo presidente, il cui peso e la cui forza aumentano. Ciò è dovuto, da un lato, a ragioni strutturali: il capo del governo, in un regime parlamentare, quando ha un mandato popolare e una sicura maggioranza nelle Camere, può contare sul «continuum» maggioranza parlamentare-governo, mentre il presidente di una Repubblica presidenziale non necessariamente gode dell’appoggio di una maggioranza parlamentare. Dall’altro lato, la partecipazione all’Unione europea e ai vertici dei molti organismi internazionali, costituisce un elemento esterno di rafforzamento del ruolo del capo dell’esecutivo perché le decisioni collettive più importanti vengono prese a Bruxelles o in Summit internazionali a Bali, e lì l’Italia è rappresentata dal presidente del Consiglio dei ministri. Questo, quando non è il decisore di ultima istanza, è comunque il punto necessario d’incontro tra i decisori”.
Le conclusioni di Cassese sono lucide e preoccupanti: ”Se alcuni di questi sviluppi rappresentano una tendenza inesorabile e sono effetto e causa della debolezza della democrazia, tuttavia, due aspetti segnalano una vera e propria regressione: i meccanismi di selezione del personale politico e lo «short-termism». Se né la «carriera» all’interno di un partito, né la scelta degli elettori sono utilizzati per reclutare e selezionare parlamentari e ministri, quale è lo strumento per formare le classi dirigenti politiche? Se la politica è tutta declinata al quotidiano, chi disegnerà un futuro per l’Italia?”.
Con molti possibili addendi è legittimo interrogarsi su storture simili se non sovrapponibili nel sistema valdostano, che vanno curate - per quel che mi riguarda - con un rilancio dell’originale esperienza politica rappresentata dal mondo autonomista con il ritorno ad una presenza capillare e autorevole. Chi predica l’elezione diretta del Presidente della Giunta non capisce che non si migliora nulla dando potere ad un solo vertice.

Si apre una nuova porta

Chiudo una porta e ne apro un’altra e nella vita i cambiamenti sono salutari come un bagno freddo. La politica è fatta così, quando il proprio percorso sfocia in nuove cariche elettive che comportino assunzioni di nuove responsabilità. Non è la prima volta che mi capita nelle mie esperienze errabonde e va detto che gli stimoli non mancheranno e metterò entusiasmo ed esperienza.
Così è con le nuove deleghe dell’Assessorato, cui sono stato chiamato in queste ore. Sono deleghe non di cartone, come adombra chi dall’opposizione rosica.
Lascio Istruzione e Università e Partecipate, materie su cui mi sono impegnato nel limite delle mie capacità. Il mondo della scuola è molto complesso, fra autonomia scolastica e il rischio di suoi eccessi e la forte influenza sindacale più protesta che proposta. Credo di aver risolto alcune grane anche grazie ad una Sovrintendente agli Studi, Marina Fey, competente e efficace. Loro, gli studenti di tutte le età, sono energia allo stato puro e ogni incontro nelle scuole è stata una gioia. L’Università valdostana è una certezza da sviluppare, evitando dinamiche autoreferenziali e con la consapevolezza che non si lede l’autonomia universitaria se chi paga, cioè la Regione, esercita un ruolo. La nuova sede è importante e lo sarà la scelta di facoltà e materie che ci azzecchino con un territorio di montagna a vocazione europea.
Le Partecipate - con l’ausilio dell’ottimo coordinatore Valter Mombelli- mi hanno tenuto sempre sulla corda con un rapporto spesso dialettico con una Finaosta che andrà rinnovata per essere all’altezza dei tempi. CVA è uscita dalla Madia e ha una guida sicura verso il tema complesso della scadenza delle concessioni idroelettriche e della diversificazione energetica, restando nel campo delle rinnovabili. Il Casinò sta uscendo dalla tempesta perfetta con buoni risultati, ma bisogna guardare bene al futuro con nuove proposte e idee brillanti per evitare rischi futuri. Inva sarà ancora sotto la mia lente di osservazione e il mondo digitale è una galassia in espansione. Gli impianti a fune andranno accorpati con intelligenza e anche le altre Partecipate vanno seguite con interesse e penso ai trafori alpini e alle autostrade e molti di questi dossier sono già impostati e me ne dovrò occupare a latere in Europa e attraverso la cooperazione transfrontaliera.
Affari europei diventa di fatto il cuore del mio Assessorato e resta del tutto coerente con il mio curriculum e si sposa perfettamente con il coordinamento ottenuto sul PNRR nelle diverse progettualità che incideranno sulla Valle d’Aosta e che bisogna seguire e, se possibile, incrementare. Nello stesso modo le politiche nazionali della montagna sono un vestito che mi va a pennello, essendo state da sempre al centro del mio lavoro politico, così come il rapporto con le minoranze linguistiche a cui sono stato delegato. Il settore cruciale dell’Innovazione è una delle strategie regionali - e non è solo la digitalizzazione - che consente ampi spazi di miglioramento e piste nuove.
Rafforzare l’ufficio di Bruxelles sarà per tutti un valore aggiunto assieme alla mia presenza al Comitato delle Regioni.
Insomma: vaste programme. Ho imparato da mio papà (e lui da mio nonno) l’etica del lavoro, che è una cosa importante, perché implica il senso di responsabilità qualunque cosa si faccia e bisogna farlo senza perdere di vista i propri affetti e talvolta non sono riuscito a farlo del tutto.
Ha scritto Vittorio Messori: "Chiesero un giorno a Sigmund Freud di sintetizzare la sua “ricetta” per difendere l’uomo dai mali oscuri che affiorano dal profondo. “Lieben und arbeiten”, “amare e lavorare” fu la risposta del fondatore della psicoanalisi. È, guarda caso, la stessa formula proposta all’uomo dal Nuovo Testamento, che pone al centro del suo messaggio amore e lavoro”.
Mi pare un bel proposito da seguire e lo farò.

Condividi contenuti

Registrazione Tribunale di Aosta n.2/2018 | Direttore responsabile Mara Ghidinelli | © 2008-2021 Luciano Caveri