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25 feb 2021

Un anno di pandemia

di Luciano Caveri

Dunque è ormai un annetto che conviviamo con l'epidemia. Il virus era arrivato da distante, da quella Cina che appariva remota, mentre abbiamo poi scoperto che il mondo globalizzato agevola le malattie, che viaggiano con noi da un Continente all'altro. Poi, naturalmente, abbiamo verificato che non era neppure così e che il "covid-19" era già arrivato da noi mesi prima, come se tastasse il terreno con avanguardie prima di aggredire anche l'Europa. Questo "Coronavirus" ha cambiato la nostra vita. Due gli aspetti macroscopici, che ognuno alla fine riversa nelle proprie esperienze personali e si mischiano l'un l'altro. La prima questione è il "confinamento", termine che preferisco a "lockdown", e cioè quell'obbligo di stare chiusi in casa, per me attenuato dal lavoro radiotelevisivo, comprensivo di un lungo ciclo di trasmissioni radio per raccontare l'evoluzione della malattia anche con dolori, paure e morti.

Ho imparato così a conoscerla ed a raccontare questo mondo che cambiava in peggio ed i miei spostamenti erano comunque solo su un percorso fisso casa-lavoro. Scandito, ogni volta, dal cambio di autocertificazioni e dalla mortificazione di dover informare con la "spada di Damocle" dei paradossali comunicato notturni di Giuseppe Conte, contro cui è andata la mia più sincera disistima e la consapevolezza che la sua durata a Palazzo Chigi più del dovuto è stata uno degli effetti collaterali del virus. La gestione dell'emergenza è stata schizofrenica e contraddittoria e incarnata da quel personaggio che è ancora Domenico Arcuri, il dominus di larga parte delle decisioni assunte. Viene da ridere per non piangere pensare alla catena di errori macroscopici e ci si chiede quale santo in Paradiso abbia per essere ancora lì. Lo stesso vale per il mediocre Roberto Speranza, che è rimasto alla Sanità dopo aver detto e fatto cose che lo rendevano meritevole di scomparire dalla scena ed invece è rimasto grazie al suo partitino che ha mantenuto un posto chiave nel Governo Draghi. Ma torniamo all'esperienza personale. Il caso vuole che in questo annus horribilis mi sia ritrovato di nuovo in politica, nel senso che sono stato eletto in Consiglio regionale e poi nel Governo valdostano. Ho scoperto dunque sulla mia pelle come sia difficile assumere decisioni, ad esempio sulla Scuola che mi compete, costruendo le cose sulle sabbie mobili della continua incertezza, maturando una convinzione: per gestire certe emergenze Roma non può pretendere, pur comprendendo la gravità della situazione in continua evoluzione, di fare e disfare. Abbiamo visto, infatti, l'imposizione di regole e divieti mai discusse con gli eletti locali, che conoscono territori e popolazioni cui devono essere applicate decisioni che siano intelligenti e confacenti alle singole situazioni. Fare di ogni erba un fascio è una stupidaggine ed in certi passaggi si sono violate norme costituzionali, esautorando le assemblee elettive e considerando il sistema regionalista come una rottura di scatole nel nome di un centralismo cieco e inefficace. E temo che sul punto non si sia ancora voltato pagina. Tutto ciò con un'economia che soffre, cittadini stanchi e sfiduciati, prospettive incerte, notizie date a spizzichi e bocconi, complottisti e stupidi in crescita e via di questo passo. Insomma: una situazione brutta con in più la minaccia di queste varianti del virus - che sono la normalità per un virus che muta per migliorare - che pesa sulle decisioni da assumere, che devono essere prese informando bene e spiegando il perché in dettaglio. Basta con questa logica del "prendere o lasciare" come se fossimo bambini cui imporre senza declinare le ragioni delle scelte. Aggiungo infine quanto sia stato contento dell'arrivo dei vaccini e colpito dai ritardi e dalle inefficienze. Speravo che, per chi come me incontra centinaia di persone diverse nel proprio lavoro, ci fosse la possibilità di essere vaccinato. Invece non è così, perché pesa la solita storia della "casta", che non pare non serva neppure più nel dare il buon esempio convincendo gli altri a vaccinarsi, ma deve aspettare con pazienza di essere, malgrado abbia superato i sessant'anni, in fondo alla fila per evitare polemiche sui "privilegi". Noto che ad essere privilegiati sono tantissimi attorno a me e capisco come questa sia l'aria dei tempi in cui i politici restano marchiati a fuoco con ignominia, a prescindere. Continuo, comunque sia, a fare il mio lavoro e non mi chiudo ai rapporti interpersonali, perché non si possono fare Politica ed Amministrazione solo davanti allo schermo di un computer. Nulla di eroico, ma nient'altro che il mio dovere. Spero che arrivi prima o poi il mio turno e brinderò al vaccino.