Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
23 nov 2022

Maroni e gli interrogativi di Zaia

di Luciano Caveri

Credo di poter dire di aver conosciuto bene Roberto ”Bobo” Maroni, che frequentai per larga parte durante mio percorso da parlamentare. Entrò a Montecitorio nel 1992, diventando Capogruppo della Lega in piena espansione, e vi rimase sino al 2013, avendo importanti incarichi di Governo. Divenne poi Presidente della Regione (ci sentimmo anche allora), finendo nell’ombra - anche dopo una ingiusta vicenda giudiziaria finita con l’assoluzione in Cassazione - per gli evidenti dissidi con Matteo Salvini (auspicò di recente che ci fosse un nuovo Segretario per la Lega). Era un uomo simpatico e preparato e come tale spiccava nelle file leghiste per le sue capacità di mediazione, condita da una sorridente ironia da generazione rock. Fu lui ad invitarmi all’inizio degli anni Novanta a congressi leghisti, quando esisteva ancora una sorta di rispetto verso la Valle d’Aosta, visto che si ascriveva il merito di quel risveglio federalista dei “padani” al ruolo dell’esponente unionista Bruno Salvadori, cui Maroni dedicò la grande sala riunioni del Gruppo, che dalla DC era stata intestata ad Aldo Moro. Io avevo cominciato la mia carriera da deputato nel 1987, condividendo gli uffici con un amico di Maroni, Giuseppe Leoni, primo onorevole della Lega, mentre Umberto Bossi, il Senatur, era approdato – anche lui da solo – a Palazzo Madama. Questo aveva cementato un rapporto di collaborazione, dentro i rispettivi Gruppi Misti. Poi nella Legislatura successiva la Lega ebbe un mare di voti e di seggi e arrivò anche Maroni, sempre gentile con le minoranze linguistiche. Bossi, invece, non sempre si dimostrò simpatico, capitanando all’epoca polemiche contro i privilegi delle Regioni a Statuto speciale e anche con atteggiamenti di chi si era un pochino montato la testa ed era forse comprensibile per chi era diventato dal nulla un importante ago della bilancia. Ricordo, perché il caso volle che fossi al Viminale da lui per un appuntamento preso tempo prima, la caduta nel 1995 del Governo Berlusconi. Maroni era Ministro dell’Interno e con me quel giorno non si dava pace della scelta del Capo, sostenendo che si trattasse di un errore politico clamoroso. Mi inquietò poi il fatto che profittò dell’incontro per mostrami della carte - una sorta di dossier - che dimostravano come io fossi controllato e spiato in quegli anni da non so bene quali “Servizi”. Non ne capisco bene ancora oggi le ragioni, se non perché – commentammo assieme allora - ero un esponente “autonomista” e come tale forse sospetto di chissà che cosa di potenzialmente eversivo. Con Maroni esce di scena un esponente dell’ala federalista della Lega, risultata perdente dalla scelta nazionalista e sovranista dell’attuale leader. E’ una constatazione non un giudizio e spiace il ridimensionamento di quella spinta federalista, che era in capo al grande politologo Gianfranco Miglio (ero con lui nella Bicamerale per le Riforme), che portai ad Aosta con Augusto Barbera proprio per discutere di federalismo in anni in cui la spinta leghista aveva posto la questione forma di Stato in una posizione rilevante nel dibattito italiano. Nel 1992 personalmente presentai una Costituzione federalista fatta e finita, la prima mai presentata alle Camere. Ora quell’eredità federalista della Lega delle origini resta in capo a qualche Presidente di Regione, come Luca Zaia, che proprio ieri ricordava su La Stampa alcune questioni legate alla possibilità per le Regioni Ordinarie, come il Veneto, di avere un’autonomia differenziata grazie ad un comma aggiuntivo all’articolo 116 della Costituzione, che è lo stesso che sancisce l’Autonomia speciale della nostra Valle. Osserva Zaia: “L' autonomia è figlia della Costituzione. Il nostro progetto non è frutto della ricerca di cavilli o di divagazioni giuridiche, perché la nostra Carta fondamentale è limpida a riguardo. Lo era fin dalla sua promulgazione nel 1947 e ancora più chiara si presenta dopo la modifica del titolo V del 2001. Tutt' oggi, però, la gestione del Paese è centralista e quindi inadempiente nei confronti dei dettami messi nero su bianco dai padri costituenti. È la Carta costituzionale che prevede si possa concretizzare l' autonomia differenziata che, come dice lo stesso termine, rappresenta un federalismo su misura, un «abito sartoriale», che possa adattarsi alle esigenze di ogni Regione che desideri adottarlo. Prevede, infatti, la possibilità per tutte le Regioni di sottoscrivere un'intesa propria con lo Stato in cui possono chiedere di gestire fino a ventitré materie, elencate in maniera puntuale nella Carta”. Più avanti incalza: “È il momento di una presa di coscienza generale. Il vero nemico dell'autonomia è la disinformazione che in alcuni casi la dipinge come una minaccia per il Paese. Autonomia significa federalismo, un obiettivo di modernità che contraddistingue oggi i Paesi più efficienti, mentre l'Italia continua a vivere arroccata nel suo modello centralista che, come diventa ogni giorno più palese, è uno dei grandi limiti che ne frenano il progresso. Impegnarsi per un futuro del Paese basato sull' autonomia regionale non vuol dire contrastare l identità nazionale o svilirla. Ci sono realtà squisitamente federali, come la Germania o gli Stati Uniti, in cui le identità territoriali non confliggono con quella nazionale, anzi, la rafforzano”. E ancora: “Il federalismo è centripeto e il centralismo è centrifugo; il primo rafforza gli Stati, il secondo li disgrega. (…) Il vero tema su cui ci si deve confrontare è se siamo o non siamo d'accordo nel disegnare un Paese federale. Oggi la storia sta offrendo su un piatto d'argento al nuovo governo, emerso dalle elezioni del 25 settembre 2022, l'opportunità di segnare una tappa fondamentale per il futuro del nostro Paese: scegliere tra il medioevo del centralismo e il rinascimento del federalismo, scongiurando l'alternativa di un disastro annunciato. Dovrà essere questo esecutivo a dimostrare di saperla cogliere fino in fondo. L' autonomia, infatti, prima o poi si raggiungerà e diventerà una realtà. Quel giorno decisivo passeranno alla storia sia coloro che, pur avendone avuto l'occasione, non saranno riusciti a dare compimento a un simile obiettivo, sia coloro che si saranno resi capaci di concretizzarlo, per la lungimiranza e, soprattutto, per aver consegnato al Paese quella che è la vera grande opportunità affinché possa costruire una prospettiva di ripartenza”. Dubito francamente che questo potrà avvenire con Meloni Presidente del Consiglio e credo che lo stesso Maroni, da quanto aveva scritto ancora di recente sulla situazione politica italiana, condividerebbe il mio pessimismo.