blog di luciano

Un anno dall’aggressione all’Ucraina

Un anno fa, la Guerra. Brutta parola, la cui etimologia si ricollega all'antico tedesco werra che esprime l'idea della mischia, del groviglio, della scontro disordinato in cui si avviluppano i combattenti in un vero e proprio "macello" (la stessa radice si trova nell'inglese war).
Scriveva nel dopoguerra Piero Calamamdrei: ”Chi è che semina le guerre? Se tra uno o tra dieci anni una nuova guerra mondiale scoppierà, dove troveremo il responsabile? Nell'ultima guerra la identificazione parve facile: bastò il gesto di due folli che avevano in mano le leve dell'ordigno infernale, per decretare il sacrificio dei popoli innocenti. Ma oggi quelle dittature sono cadute: oggi le sorti della guerra e della pace sono rimesse al popolo. Questo vuol dire, infatti, democrazia: rendere ogni cittadino, anche il più umile, corresponsabile della guerra e della pace del mondo: toglier di mano queste fatali leve ai dittatori paranoici che mandano gli umili a morire, e lasciare agli umili, a coloro ai quali nelle guerre era riservato finora l'ufficio di morire, la scelta tra la morte e la vita.
Ma ecco, si vede con terrore che, anche cadute le dittature, nuove guerre si preparano, nuove armi si affilano, nuovi schieramenti si formano. Chi è il responsabile di questi preparativi? Si dice che gli uomini, che oggi sono al potere, sono stati scelti dal voto degli elettori: si deve dunque concludere che le anonime folle degli elettori sono anch'esse per le nuove carneficine?
Questa è oggi la terribile verità. La salvezza è solo nelle nostre mani; ma ognuno di noi, se la nuova guerra verrà, sarà colpevole per non averla impedita. [...]
Se domani la guerra verrà, ciascuno di noi l'avrà preparata. Non potremo nascondere la nostra innocenza dietro l'ombra dei dittatori: quando c'è la libertà, tutti sono responsabili, nessuno è innocente”.
La tradizionale definizione di guerra così recita: lotta armata fra stati o coalizioni, per la risoluzione di una controversia internazionale appare scarsamente adatta all’aggressione russa dell’Ucraina, giusto un anno fa.
Doveva essere nelle intenzioni di quel matto di Vladimir Putin un’azione di riconquista con un vero e proprio bliz. Termine che in tedesco - ricorda Treccani - significa «lampo», ma diffuso nel linguaggio giornalistico internazionale, e quindi anche in Italia, dagli Stati Uniti, come abbreviazione di Blitzkrieg per indicare un’operazione militare eseguite con estrema rapidità e precisione, o un audace colpo di mano fulmineo e risolutivo, con significato quindi corrispondente all’italiano operazione-lampo.
Invece i russi si sono trovati di fronte a ucraini risulti nel resistere e la guerra è diventata di logoramento e, malgrado la propaganda di Mosca che parla di una guerra resa indispensabile contro i neonazisti ucraini (sic!), una sconfitta per gli aggressori che non sono riusciti a sfondare, come avevano previsto di fare in quattro e quattro otto.
L’Occidente, fatta eccezione per i filorussi e estremisti vari, ha scelto di aiutare l’Ucraina e lo ha fatto sia per bloccare le logiche di espansionismo russo con fare imperialista, sognando una nuova Unione Sovietica sia per la ferocia dei russi, soldati regolari e mercenari, che si sono resi protagonisti di atti di violenza sui civili - autentici crimini di guerra - su cui indaga lo stesso Tribunale dell’Aja.
Condivido totalmente l’impegno assunto per fermare Putin, la cui deriva psichiatrica è evidente dalle cose che dice. Si tratta non solo di agire militarmente, con buona pace di quegli stessi pacifisti che con i loro ragionamenti del passato aiutarono Hitler a conquistare l’Europa, ma di isolare la Russia per avere un tavolo di pace credibile e non utopistico. Nella speranza che il dittatore venga abbattuto dai russi stessi, che oggi sono isolati da tutto il mondo civile.
La democrazia nel mondo sta declinando e questo il grande Calamandrei non poteva prevederlo. La situazione la racconta un articolo de La Voce, di cui pubblico due stralci: ”L’Economist ha recentemente pubblicato il Democracy Index 2021, che misura il livello di democrazia di 167 paesi. Già l’anno scorso, il rapporto 2020 era stato presentato con un laconico “La democrazia nel mondo ha avuto un brutto anno”, con una riduzione consistente a livello globale soprattutto a causa delle situazioni emergenziali dovute alla pandemia. Nel 2021, l’indice ha raggiunto un nuovo minimo storico.
La pandemia, accompagnata da misure restrittive e dal ricorso, in molti casi, ad un approccio tecnocratico, ha certamente accelerato il trend, ma il livello di democrazia nel mondo, secondo questa rilevazione, è in calo da molti anni. Dopo una riduzione legata alla Grande Recessione, l’indice aveva ripreso a crescere
In generale, negli ultimi due decenni lo stato della democrazia del mondo non è migliorato. Dal 2006, 108 delle 167 nazioni prese in esame dall’indice hanno peggiorato, o comunque non migliorato, il proprio punteggio e nessuna delle macro regioni considerate ha visto il proprio punteggio medio aumentare. Nel 2021, l’indice è calato di 0,09 punti su scala globale (in una scala da 1 a 10). Complici del calo sono state le misure straordinarie imposte dalla pandemia, che hanno permesso di accentrare il potere con la scusa dell’emergenza. Tra i fattori fondamentali troviamo anche l’intensa presenza di cambi di regime repentini e colpi di stato, da quello in Myanmar fino al ritorno dei talebani in Afghanistan. Più della metà della popolazione mondiale vive oggi sotto un regime non democratico, con oltre un terzo dei paesi che si trova in veri e propri regimi autoritari”.
Putin va fermato per non incrementare - come vorrebbe - i Paesi sotto il suo giogo liberticida.

Pronto a nuove sfide

Con l’approssimarsi del cambio di Giunta, di cui mi pare inopportuno parlare nel merito prima del voto in aula del Consiglio Valle, mi capita di rivedere – come al rallentatore – gli episodi salienti del mio cammino politico. E farlo serve, in pochi istanti, a rivivere momenti importanti della mia vita.
Era il 1987, quando in modo del tutto inaspettato, mi ritrovai giovane deputato valdostano, cominciando un’avventura distante dai miei progetti, che erano tutti indirizzati al giornalismo radiotelevisivo.
Mi buttai capofitto nel lavoro, cercando di capire i meccanismi complessi del lavoro parlamentare, avendo la possibilità interessante di vedere ancora la Prima Repubblica, la sua caduta e scenari nuovi della politica italiana, conoscendo bene i principali personaggi sulla scena, compresi i Presidenti della Repubblica che incontravano i due parlamentari valdostani con dignità di delegazione e lo stesso facevano i Presidenti del Consiglio che si succedettero.
Da Segretario del Gruppo Misto, divenni poi – nel corso delle quattro Legislature – Presidente del Gruppo e Segretario di Presidenza. Avendo come base la Prima Commissione Affari Costituzionali, dove tutto transita per la costituzionalità, viaggiavo di Commissione in Commissione, a seconda della necessità per il lavoro da svolgere, cercando con interrogazioni e interpellanze e nelle discussioni principali di marcare il territorio.  
Ricordo in più la Commissione d’inchiesta sulla condizione giovanile e quella sulla riforma dell’immunità parlamentare. Nelle Bicamerali, fu interessante l’attività in quella per le Riforme istituzionali e quella sulla riforma amministrativa Non sto qui ad elencare altro, perché per fortuna a parlare sono le schede parlamentari, che danno conto di quello che ho fatto con le rendicontazione sommarie e quelle stenografiche. Alcune leggi portano il mio nome o il mio contributo in tema di regionalismo e di minoranze linguistiche, così come su materie come la montagna (presiedetti il Comitato italiano per l’Anno internazionale delle Montagne) e la donazione degli organi con una normativa ancora oggi in vigore. Infine l’esperienza di Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel Governo D’Alema. Il Presidente Giuliano Amato che gli subentrò mi voleva Ministro delle Regioni, ma nel frattempo ero diventato parlamentare europeo e sarebbe stata una contemporaneità delle funzioni del tutto incompatibile.
Al Parlamento europeo divenni, poco dopo, Presidente della Commissione Trasporti, Politiche regionali e Turismo e considero questa esperienza come il culmine della mia carriera politica. Comprendere i meccanismi della massima istituzione comunitaria non fu facile, ma mi diede grandi soddisfazioni.
Poi la scelta di tornare in Valle con le elezioni del 2003: un grande risultato elettorale e divenni prima Assessore e poi Presidente più tardi a causa di camarille nell’UV, che poi abbandonai nella Legislatura successiva, dove divenni consigliere semplice con la gioia di poter restare in Europa al Comitato delle Regioni, dove divenni Presidente della delegazione italiana, facendo anche una serie di esperienze al Consiglio d’Europa.
Tornai poi - senza incarichi elettivi per 7 anni - al mio lavoro in RAI, perché in politica si è liberi se si ha una propria professione
Il ritorno alla politica è avvenuto con le scorse elezioni regionali con un posto da Assessore su materie significative e ora l’attesa per capire bene quale sarà il mio incarico, a partire da domani.
Si discute spesso – e lo faccio anch’io – sulla necessità del ricambio generazionale. Credo che sia importante farlo, immaginando però che chi ha avuto la fortuna di vivere esperienze come le mie possa fare un passaggio di competenze con i giovani, perché l’esperienza conta e la famosa “rottamazione” di renziana memoria e il “nuovismo” grillino non hanno portato bene – per la loro rozzezza – alla politica italiana e pure valdostana.
Comunque sia, sono intanto pronto a nuove sfide.

Il passaggio impercettibile

Il passaggio è impercettibile. Da oggi siamo in Quaresima, anche se poi – a definire l’incertezza del confine esatto del Carnevale (che vuol proprio dire “carnem levare”, togliere la carne, e cioè il periodo della Quaresima) – ci sono carnevali che sforano. L’esempio più eclatante resta il Carnevale ambrosiano, i cui festeggiamenti principali saranno il sabato di questa settimana, anziché il martedì. Questo accade perché, nel rito ambrosiano, è diverso il modo di contare le date di inizio e fine Quaresima. Nel rito romano (quello osservato dal resto d’Italia) le domeniche non vengono contate come giorni di penitenza e dunque la Quaresima dura di più e comincia prima. Fu Sant’Ambrogio, che nel IV secolo era vescovo di Milano, a decidere che le domeniche fossero calcolate.
Mi stupisce sempre questa banalità del calendario che ci scandisce la vita con una rassicurante ripetitività, di cui il Carnevale, che oggi da noi si estingue, è uno dei passaggi obbligati. Questa idea che permea le nostre culture, che alternano momenti di follia controllata, qual è appunto la logica carnevalesca, a momenti morigerati come il periodo quaresimale. Anche se il primo resta piuttosto stabile, mentre al Quaresima, con l’assottigliarsi dei praticanti, ha perso quel suo duplice significato: “fare la quaresima”, ovvero osservare il periodo di digiuno e di astinenza in preparazione alla resurrezione di Cristo e, dall’altra in termini sanzionatori, “rompere la quaresima”, che significa trasgredire ai precetti.
Perché il Carnevale non deflette e resta vivo nell’animo popolare? Con una sociologia da strapazzo si potrebbe annotare che il Carnevale afferma dei diritti e cioè la libertà di divertirsi e anche di trasgredire pur all’interno di confini non troppo valicabili. Mentre la Quaresima non è solo questione di Fede, ma anche una sorta di imposizione di doveri, che certo hanno significati antropologici assai profondi, come una specie di pausa che ha anche significati legati alla salute dopo gli eccessi.
Capisco che sono ragionamenti forse bislacchi, ma fino ad un certo punto.
Scriveva Umberto Eco nel suo libro ”Il nome della rosa: ”Anche la chiesa nella sua saggezza ha concesso il momento della festa, del carnevale, della fiera, questa polluzione diurna che scarica gli umori e trattiene da altri desideri e da altre ambizioni... ”.
Certo la giornata di oggi ha aspetti che arrivano da un passato remoto.
La definizione di questo mercoledì è ”delle Ceneri” per l’antica usanza risalente dei primi secoli della Chiesa di imporre le ceneri sul capo dei peccatori penitenti. Le ceneri sono di conseguenza il simbolo della penitenza. Il sacerdote segna la fronte dei fedeli con la cenere che si ricava dai rami di ulivo benedetti nell’anno precedente.
Le ceneri sono considerate un simbolo dell’umiltà, attraverso la quale i peccatori possono sperare nella futura gloria della resurrezione, che è esaltata durante la processione delle palme.
Nel 1091 il concilio di Benevento impose che il mercoledì delle ceneri “tutti i religiosi e laici, uomini e donne, che riceveranno le ceneri in un certo senso saranno considerato tutti penitenti”. L’imposizione delle ceneri ad opera del celebrante durante la Messa è inoltre accompagnata anche dalla formula tradizionale “Ricordati che polvere sei ed in polvere ritornerai”. Oppure da quella introdotta dopo il concilio Vaticano II “Convertitevi e credete al Vangelo”.
I simbolismi cristiani sono interessanti e basta seguire una Messa in maniera attenta, seguendo il rito e osservando la chiesa dove si celebra, per coglierne la vastità e la profondità.

Fragilità

Incertezza del futuro, fragilità della propria condizione sociale e insicurezza esistenziale − queste onnipresenti compagne di vita in un mondo liquido-moderno.
(Zygmunt Bauman)
La citazione iniziale è la cornice che mi porta a dire, nell’affrontare in punta di piedi un tema complesso, che parte dall’affermazione che non bisogna essere spaventati dalle nostre fragilità. Credo che sia una delle poche cose che ho imparato negli anni, specie constatando quante siano le persone - talvolta impensabili e più numerose di quanto si ritenga - che hanno problemi a vivere bene con sé stessi e nel rapporto con gli altri. Anche a me è capitato e capita ogni tanto di interrogarmi sulle mie insicurezze e sulle mie vulnerabilità che devo fronteggiare. Così come avviene spesso, per l’ampio spettro di incontri e la Politica è un porto di mare, di trovare persone che vivono queste stesse difficoltà anche con risvolti davvero patologici.
Lo psichiatra Vittorino Andreoli ha scritto: “Ebbene, se sono stato, e sono, un buon psichiatra, se ho aiutato i miei matti, ciò è avvenuto per la mia fragilità, per la paura di una follia che si annida dentro di me, per la fragilità che avverto capace di sdoppiarmi, di togliermi la voglia di vivere e di rendermi simile a un depresso che chiede soltanto di scomparire per cancellare il dolore di cui si sente plasmato”. Sappiamo bene come il confine fra normalità è aspetti problematici possa essere sottile.
Quando sono malattie non bisogna vergognarsi e bisogna curarle seriamente non considerandole solo uno stato d’animo. Lo sappiamo bene in Valle d’Aosta con il sinistro record di suicidi che sono di fatto un fallimento nella prevenzione e con una percentuale molto elevata nel consumo di farmaci antidepressivi.
Ha scritto lo psichiatra Umberto Galimberti: “Che cos’è la depressione? Quella condizione dell’anima che si registra quando il mondo circostante non ci dice più nulla e il mondo immaginifico, quello dei nostri sogni e dei nostri progetti, tace avvolto da un silenzio così cupo e impenetrabile da impedire anche il più timido degli sguardi che osi proiettarsi nel futuro”.
Ben prima che si studiassero a fondo questi disturbi, che sono ancora oggetto di ricerche per comprenderne bene meccanismi e cure con grande poesia Victor Hugo scriveva: “Soyez comme l'oiseau posé pour un instant sur des rameaux trop frêles qui sent plier la branche, et qui chante pourtant, sachant qu'il a des ailes”
Bisogna che queste ali ci siano.

L’alleanza delle Speciali

Sono stato in Trentino, esattamente a Borghetto sull’Adige, in una tenuta vitivinicola straordinaria, per un incontro politico con supporto di giuristi vari sul futuro delle Autonomie speciali.
Questo tema ha occupato una parte della mia carriera politica e ogni occasione di confronto - come una torta multistrato - è stata utile, perché nel cuore stesso del futuro di una comunità come la nostra. Se non stiamo vigili, il peggior fantasma sarebbe quello di diventare zona negletta nell’area metropolitana di Torino, come capitato alle vallate piemontesi a noi vicine. Altro che Dichiarazione di Chivasso per i popoli alpini: sarà bene lavorare su documenti nuovi, senza mai negare queste radici.
Riporto in premessa la notizia dell’Ansa di Trento con le mie dichiarazioni:” "Come valdostani siamo lieti di questa iniziativa degli amici trentini e sudtirolesi con la presenza anche del Friuli-Venezia Giulia. Un dibattito dallo stampo giuridico ma con forte impronta politica per presentare al Governo un fronte comune per un rafforzamento delle autonomie speciali". Lo ha detto all'Ansa l'assessore all'istruzione, università, politiche giovanili, affari europei e partecipate della Val d'Aosta, Luciano Caveri oggi a Borghetto in occasione di un confronto sul tema dell'autonomia. L'appuntamento è promosso dal Comitato per il Cinquantenario del secondo Statuto di Autonomia del Trentino-Alto Adige. "Si tratterà di un documento organico e direi coraggioso in controtendenza con certi rischi di centralismo di ritorno", ha detto Caveri in riferimento alla bozza sull'autonomia differenziata presentata da Calderoli. "Centrale per il futuro è immaginare una riforma e modernizzazione degli Statuti speciali, ma con una logica d'intesa per evitare stravolgimenti nel passaggio parlamentare previsto dall'articolo 138 della Costituzione. Abbiamo tutti apprezzato certe rassicurazioni del Ministro delle Regioni, Roberto Calderoli, rispetto al futuro delle Specialità. Nelle settimane a venire affineremo i contenuti del documento, già in bozza assai convincente"”.
In effetti il clima è stato utile ed interessante e soprattutto costruttivo.
Erano anni che non vedevo Calderoli, con cui abbiamo condiviso anni di lavoro parlamentare, e devo dire che il suo approccio - compreso il racconto inedito del nonno autonomista, che aspirava a Bergamo come Provincia autonoma - sulle prospettive delle autonomie speciali è stato chiaro e documentato. Lo stesso Valle d’Aosta detto dell’intervento del capofila delle Speciali nella Conferenza dei Presidenti, il sudtirolese Arno Kompatscher, che mi ha illustrato, prima dell’inizio dei lavori, il documento su cui proporrà di lavorare per presentarlo poi ufficialmente al Governo.
Nel mio intervento, ricordato il mio rapporto da sempre costruttivo con sudtirolesi, friulani e trentini (nel dopoguerra mio zio Severino fu a Trento a sostenere l’autonomismo trentino), ho confermato come il vento dell’antiregionalismo soffi forte e le polemiche speciose sull’autonomia differenziata per le Regioni ordinarie lo dimostrano. Per questo ho riassunto la necessità di una svolta in un slogan ”dalla difesa all’attacco” nel solco del federalismo come reale alternativa istituzionale. Chiedendo nel breve che le norme di attuazione degli Statuti smettano di sparire nella palude romana e che si possa mettere mano agli Statuti con l’assicurazione sulla vita dell’intesa, come detto nella dichiarazione pubblicata poco sopra.
Forse il torto delle Autonomie speciali - specie di quelle del Nord - è stato quello di non fare blocco e impegnarsi in difese separate fra di noi delle rispettive specialità. Stare insieme e battersi in modo risoluto contro le derive centraliste è sforzo politico, giuridico, culturale e sociale. L’arrendevolezza o la logica del "cappello in mano” a Roma e anche a Bruxelles sono atteggiamenti non solo mortificanti ma pure perdenti.
Bene schiacciare sull’acceleratore, sapendo che per noi - a differenza di Bolzano e a rimorchio di Trento - l’assenza di una garanzia internazionale non è un differenza di poco conto, che comporta maggior sforzo e più consapevolezza di chi siamo e dove dobbiamo andare.

La medicina predittiva

So che lo scrivo spesso, ma sarebbe bene - pur nella giusta dimensione delle autocritiche sui nostri comportamenti - che tenessimo in assoluta considerazione che cosa l’umanità (nel senso di humanĭtas -atis, derivazione di humanus «umano»; nel significa di «genere umano») sia stata in grado di fare in circa mezzo milione di anni nell’evoluzione dagli ominidi a quello che siamo oggi.
Ha scritto un grande medico e ricercatore come Enzo Soresi: ”Noi discendiamo da una lunga serie di antenati umani e animali, per un’innumerevole successione di eventi casuali, incontri fortuiti, brutali catture, fughe riuscite, tentativi ostinati, migrazioni, sopravvivenze da guerre e da malattie. Per produrre ognuno di noi fu necessaria un’improbabile e complessa catena di eventi, una storia immensa che dà ad ogni individuo la sacralità della sequoia a ogni bambino il capriccio del segreto”.
E proprio la ricerca scientifica, applicata alla cura delle malattie, è sempre stata per me una storia appassionante, perché dimostrazione del genio umano di fronte agli attentati alle nostre vite.
Ci pensavo, leggendo un articolo del Sole24 ore, Andrea Finotto, cui tempo fa citai e l’ha poi ripresa una singolare ricerca in corso in Valle d’Aosta dal valore mondiale.
Così la racconta: ”Sono già centinaia le persone arruolate nell'ambito del progetto 5milagenomi@VdA con l'obiettivo di creare una banca dati con il "profilo" genetico di una parte della popolazione, coinvolgendo sia soggetti sani, over 55 anni, sia malati oncologici, sia persone con malattie a livello neurologico. Al momento sono stati "raccolti" già circa un migliaio di genomi, rivela la dottoressa Manuela Vecchi, responsabile dipartimento di genomica medica nell'ambito del progetto. Secondo il presidente regionale, Luigi Bertschy, «il progetto ha le carte in regola per essere punto di partenza per un vero sviluppo dell'economia locale. Abbiamo numerose aziende in Valle che possono sviluppare intorno al centro dei progetti di ricerca». E l'assessore all'Università e agli Affari europei, Luciano Caveri, parla di «vera eccellenza e un grande investimento dal punto di vista scientifico» ».
Scusate l’autocitazione. Aggiunge ancora il giornalista: ”Le forze in campo si raggruppano in un consorzio di ricerca guidato dall'Istituto Italiano di Tecnologia (Iit) e composto da Università della Valle d'Aosta, Città della Salute e della Scienza di Torino, Fondazione Clément Fillietroz-Onlus Osservatorio Astronomico della Regione e Engineering D.HUB. Il progetto conta sul supporto dalla Regione con fondi strutturali Ue (Fesr e Fse) per 12,2 milioni di euro in 5 anni, e da 9,7 milioni di cofinanziamento da parte del consorzio. Tra i primi effetti concreti, la nascita ad Aosta di un nuovo centro di analisi genomica e big data: il Centro di Medicina Personalizzata, Preventiva e Predittiva (CMP3VdA) che unisce esperienze multidisciplinari, con focus sulla genomica e l'intelligenza artificiale e si trova nell'Area Espace Aosta con più di 450metri quadrati di laboratori divisi in due dipartimenti, Genomica medica e Genomica computazionale”.
Poi la spiegazione: ”Per Stefano Gustincich, direttore scientifico del CMP3VdA e anche Principal investigator all'Iit di Genova, rispetto ad altre esperienze la Valle d'Aosta presenta alcuni vantaggi: «Partire da zero - sottolinea Gustincich - consente di avere un approccio omnicomprensivo: tutti gli aspetti sono stati pensati nel dettaglio. I risultati non possono essere immediati: stiamo costruendo l'infrastruttura per il domani. La chiusura del cerchio si avrà con la possibilità che l'analisi dei genomi diventi un supporto fondamentale per l'esame clinico e sfociare nella medicina personalizzata». Il progetto si sviluppa su «cinque studi principali - spiega Manuela Vecchi - l'analisi di una parte della popolazione sana, di riferimento; l'esame di soggetti con problemi di neurosviluppo; di soggetti con patologie neurodegenerative; i malati oncologici; i trapiantati. Tutti e 5 gli studi sono stati approvati nel 2022 e sono attivi - prosegue Vecchi -. I referenti clinici stanno arruolando i pazienti, vengono raccolti i campioni biologici e si sta procedendo con il sequenziamento. La fase iniziale prevede la raccolta e l'analisi del genoma completo di 500 persone in buono stato di salute con origini valdostane».(…) Quella che affrontano i ricercatori del CMP3VdA è una «complessità incredibile», afferma Gustincich: «Analizzare milioni di variazioni nel genoma di soggetti malati rispetto al genoma di riferimento. E poi chiedersi, e capire, quali di queste differenze siano collegabili alle malattie di cui i pazienti sono affetti». È per questo che serve la "popolazione di controllo", per avere un genoma confrontabile e costruire una mappa delle variazioni. Nell'ambito dei problemi neurologici, il progetto punta a «studiare il genoma di circa 400 bambini con disturbi dello spettro autistico e altri disturbi cognitivi (da confrontare con i genomi provenienti dai rispettivi genitori), per indagarne l'origine genetica e migliorare sia i sistemi di diagnosi precoce che i possibili trattamenti - sottolinea Manuela Vecchi - e di 1.500 pazienti affetti da Morbo di Alzheimer o Parkinson al fine di identificare varianti significative». Nel caso dei tumori, spiega ancora Vecchi, «saranno studiati circa 800 casi di pazienti oncologici con l'obiettivo di sviluppare un nuovo pannello genomico personalizzato per le alterazioni genetiche a incidenza nella popolazione valdostana. Infine, per i trapianti, saranno analizzati circa 200 pazienti per identificare varianti genomiche non ancora riconosciute come causa o fattore di suscettibilità per malattie curabili con il trapianto» ”.
Sono ricerche come queste che potranno fruttare una medicina che sarà sempre più in grado di prevenire e curare molte malattia. E questo è confortante non solo per la nostra vita o meglio in considerazione dei tempi di una vera e propria rivoluzione per la vita di chi verrà dopo di noi, ma appare come elemento lenitivo, pensando ai tanti orrori di cui in parallelo ci macchiamo noi esseri umani.

Gli eredi Agnelli e lo sciopero dei loro giornali

Alla mattina leggo, come base poi scorro anche la rassegna stampa del lavoro e giornali francesi, La Stampa, La Repubblica e il Corriere.
I primi due vanno maluccio come vendite. Scriveva con i dati più recenti Professione Reporter: ”Sempre negativi i conti del Gruppo Gedi. La Repubblica segna un altro meno 11,6, La Stampa meno 11,3, Il Secolo XIX meno 11,5, rispetto al dicembre dello scorso anno. Un trend che prosegue da quando si è installata la nuova proprietà nel 2020”.
Bene, invece, il Corriere dalla stessa fonte: ”Il Corriere della Sera, Gruppo Cairo, diretto da Luciano Fontana, vende, nell’ultimo dicembre, 256.069 copie al giorno, quasi il doppio di Repubblica (che è a 133.723), quasi tre volte della Stampa (93.012)”.
Non è un caso se gli eredi Agnelli hanno cominciato ad avere strane idee, che hanno portato oggi i giornalisti ad uno sciopero quest’oggi.
Sempre Professione Reporter: “Sono in vendita Repubblica, Stampa e Secolo XIX? L’amministratore delegato del Gruppo Gedi, Maurizio Scanavino, ha detto: “Di perimetri non parlo più”. Per il Coordinamento dei Comitati di redazione dei giornali editi dal presidente John Elkann è ormai chiaro che sono sul mercato tutti i giornali: dipende solo dal manifestarsi di un compratore con sufficienti risorse”.
Continua l’interessante fonte on line, che si occupa con brillantezza dell’informazione: “In un comunicato il Coordinamento dei Cdr afferma che “la logica del vantaggio economico si è rapidamente sostituita a quella dell’interesse per i territori e l’informazione, per la quale tutte le giornaliste e i giornalisti hanno lavorato in questi anni. In un libero mercato la proprietа ha certamente facoltа di vendere – pur assumendosi la responsabilitа di disperdere l’eredità di un gruppo editoriale che ha fatto la storia dell’informazione in Italia, proiettandosi per primo e in posizioni di primato anche nel mondo della comunicazione digitale – ma avendo ben chiaro che l’informazione libera e il pluralismo sono un bene sensibile essenziale alla democrazia. Serve massima trasparenza su chi ne avrà la futura proprietа e garanzie sul rispetto dei diritti di lavoro dei dipendenti” “.
Sarebbe interessante capire, nel caso se La Stampa venisse ceduta, che fine farebbero le nostre pagine regionali, rimaste le sole dedicate alla Valle d’Aosta dopo la chiusura nel lontano 1983 del secondo quotidiano torinese, La Gazzetta del Popolo.
Ancora Professione Reporter: “Nell’incontro del 15 febbraio fra Cdr (l’organo sindacale, Comitato di Redazione) e Scanavino nessuna risposta, inoltre, è arrivata alla domanda fondamentale: “Perché comprare il primo gruppo editoriale italiano e farlo a pezzi nel giro di tre anni?”. Il Coordinamento ha evidenziato la mancanza di piani industriali, i passi indietro su affermazioni recentissime e il doppio ruolo di Scanavino, ad in Gedi e Juventus: Scanavino aveva assicurato essere di natura temporanea, ma ora durerà finché “non saranno messe a posto le situazioni problematiche” della squadra. Rispetto al conflitto di interessi, l’ad ha spiegato che “sono questioni personali che sto gestendo bene” e che “sul piano giornalistico potete sentirvi liberi di scrivere quello che volete” “.
Si fanno grandi discorsi sulle edizioni digitali, ma chi guarda i siti di La Stampa constata l’assoluta somiglianza del prodotto. Dice l’articolo: “L’editore ha rivendicato una serie di risultati, a cominciare da “una transizione al digitale sviluppata con grande successo” e Scanavino ha accusato i giornalisti di essere “troppo legati al passato” e di avere “un approccio poco contemporaneo”. Nel corso della riunione l’azienda ha confermato la voce secondo cui si stanno preparando con l’Ansa pagine sinergiche.
Un segnale che i Cdr interpretano come ulteriore passo verso la cessione, ma che Fabiano Begal, responsabile dei quotidiani locali, ha chiarito essere “volontà di integrazione per fornire contenuti di cronaca più spicci”, che si affianchino a quelli della Stampa, spesso troppo lunghi e che impediscono quindi di pubblicare una più ampia serie di notizie”.
Intanto la vendita di pezzi del gruppo è già avviata: ”Nell’incontro c’è stata anche la conferma che sono in vendita i quotidiani locali del Nord Est: “I vertici dell’azienda hanno parlato di trattative in corso, ma di offerte formali non ancora pervenute”. “Il quadro -scrive il Coordinamento dei Cdr- ci è parso agghiacciante anche sul piano strettamente imprenditoriale. L’ad Scanavino ha spiegato che ‘nel tempo sono arrivate varie manifestazioni di interesse per il Nordest’ e che ‘ultimamente le richieste di contatto arrivate a Begal sono state più frequenti e serie. Può succedere che qualcosa possa manifestarsi con offerta significativa e dovremo valutare da chi arriverà e quale sarà l’offerta. Nel frattempo non interromperemo i progetti in corso per tutti i quotidiani: dobbiamo andare avanti con questo perimetro finché non ci saranno considerazioni differenti’”.
Gedi è intenzionata a vendere tutto il pacchetto dei quotidiani veneti (Mattino di Padova, Tribuna di Treviso e Nuova Venezia, Corriere delle Alpi) insieme al Piccolo di Trieste e al Messaggero Veneto con cui sono strettamente interconnessi per piattaforme tecnologiche, sinergie e pubblicità”.
Capisco la possibile osservazione e cioè che la crisi della carta stampata è grave e forse ineluttabile, ma il rischio è il venir meno - pur nella prospettiva della maggior digitalizzazioni - di patrimoni editoriali e di redazioni conseguenti, che hanno un ruolo importante sui territori. Ma forse i proprietari del gruppo GEDI vogliono solo fare operazioni finanziarie e il resto ormai non conta più.

Pensieri notturni

Capita ogni tanto di mettersi da soli su una specie di lettino dello psicanalista e pensare a se stessi e a posizionarsi rispetto alla propria vita.
Esemplare è quando questo accade la notte, magari in un momento di dormiveglia, quando - credo sia capitato a tutti - i problemi si gonfiano come i fantasmi notturni di Ebenezer Scrooge, il personaggio dickensiano del racconto Canto di Natale.
Così riflettevo sulla politica non solo valdostana, anche se quella in questi mesi naviga in acque procellose e non è una novità, pensando a quanto cerco di riportare in ordine sparso.
Nessuno obbliga nessuno a fare politica e mi riferisco in particolare a chi sta nelle istituzioni con ruoli di diversa importanza. Nel senso che per finirci ti devi candidare e farlo è una scelta consapevole senza costrizioni.
Per cui chi c’è non si deve mai lamentare di esserci finito, perché la situazione è stata scelta e perseguita, se si viene eletti è perché si è partecipato senza costrizioni.
Però questo non significa, almeno di tanto in tanto, guardare allo stato della situazione e fare qualche riflessione senza offendere nessuno.
Che la Politica e con essa i politici abbiano una cattiva fama è facile constatarlo. Per altro in democrazia la scelta degli eletti la fanno gli elettori, per cui giusto tirare le freccette sui politici, sapendo però che la loro salita è dipesa dai cittadini che li hanno scelti. Invece, il tam tam sulla Casta ha finito per mettere tutti nello stesso pentolone e attizzare il peggio del peggio è certa politica ci ha messo del suo a dare eco anche alle maldicenze.
Posso testimoniare come sia pieno di persone che fanno politica, mista ad amministrazione, con tutto l’impegno possibile. Non si può però negare che il gradiente di conoscenza utile per svolgere questo lavoro (pro tempore, ma pur sempre lavoro) si sia abbassato nel tempo e certe professionalità - non solo legate al titolo di studio, ma anche all’esperienza - si siano assottigliate. E non è certo un bene.
L’altro aspetto e il venir meno di un rispetto reciproco di fondo fra politici, senza nulla togliere alla dialettica spesso piena di polemica che fa parte del gioco. Il bon ton è crollato con fenomeni politici rozzi di stampo populista e demagogico, che hanno trovato terreno fertile nell’uso volgare e spregiudicato dei Social. Non ci sono più avversari politici ma nemici e il confronto scade nel dileggio e persino nella menzogna. Anche in questo caso vale la regola che può non piacere di doversi adeguare ai costumi in uso, per quanto disdicevoli .
Se si guarda l’altra parte della barricata, rispetto a chi fa politica, spiace constatare che esiste una crescente ignoranza degli elementari principi istituzionali che reggono le nostre istituzioni.
Ha scritto di recente sull’astensionismo su Huffpost di Pierluigi Battista: “Astenersi non è un difetto, è un altro modo di esercitare il proprio diritto a dire No. O a dire che non mi piace nessuno. O a dire che non ve lo meritate, il mio voto. Astenersi è protestare democraticamente contro una cessione troppo disinvolta e spensierata della volontà popolare. Se mi fate la lezioncina da primo anno di diritto costituzionale, sul fatto che non sono le urne a decidere i governi e che dunque i partiti possono fare e disfare governi come pare a loro, uno poi è tentato di dire: fate quello che vi pare, ma non fatemi perdere tempo”.
Può essere così e non lo nego. Ma esiste anche la già accennata altra faccia della medaglia e cioè un astensionismo da beoti, che hanno perso il valore della democrazia e non la praticano perché non ne hanno consapevolezza.
Insomma: situazione complessa e fantasmi spariti ai primi bagliori dell’alba.

L’utilità della comparazione

È stato molto interessante partecipare a Bolzano/Bozen ad un incontro dedicato al plurilinguismo nelle scuole della Provincia autonoma. Realtà molto particolare con tre tipi di scuole, a seconda dell’appartenenza etnica, quella italiana, quella tedesca e quella ladina.
Non è toccato a me presentare il modello valdostano dal punto di vista tecnico, perché lo ha fatto chi ha maggior competenza di me, essendomi invece concentrato su aspetti giuridici che riguardano minoranze linguistiche e affini ovviamente nel settore scolastico.
Il punto di partenza è stata nella mia presentazione la celebre frase di Emile Chanoux, che campeggia su di una parete del Consiglio Valle.
La ricordo: ”Il y a des peuples qui sont comme des flambeaux, ils sont fait pour éclairer le monde ; en général ils ne sont pas de grands peuples par le nombre, ils le sont parce qu'ils portent en eux la vérité et l'avenir”.
Chanoux si riferiva alla Svizzera e in fondo questo vale per la Valle come per molte altre comunità alpine ed è da sempre l’esempio federalista della convivenza, come appunto avviene nella Confederazione elvetica, di più lingue (francese, tedesco, italiano, romancio), senza turbare un senso identitario più vasto.
Concetti ben ripresi da quel famoso documento, frutto dei valdostani e dei valdesi, la Dichiarazione di Chivasso, che si avvicina ai suoi 80 anni e bisognerà celebrarla e anche, se lo sapessimo, fare un testo attualizzato.
Ricorso solo due passaggi della Dichiarazione che segnalavano il disastro della dittatura fascista sulle Alpi: “DISTRUZIONE DELLA CULTURA LOCALE, per la soppressione della lingua fondamentale del luogo, là dove esiste, la brutale e goffa trasformazione in italiano dei nomi e delle iscrizioni locali, la chiusura di scuole e di istituti autonomi, patrimonio culturale che è anche una ricchezza ai fini della migrazione temporanea all'estero; la libertà di lingua, come quella di culto, è condizione essenziale per la salvaguardia della personalità umana; che il federalismo è il quadro più adatto a fornire le garanzie di questo diritto individuale e collettivo e rappresenta la soluzione dei problemi delle piccole nazionalità e minori gruppi etnici, e la definitiva liquidazione del fenomeno storico degli irredentismi, garantendo nel futuro assetto europeo l'avvento di una pace stabile e duratura”
Basi importanti che furono espresse in parte per la Valle d’Aosta nel
Decreto luogotenenziale del 1945, che sancì le ragioni geografiche, economiche e linguistiche della prima Autonomia, confermata - anche con il bilinguismo - nello Statuto speciale del 1945, cui dal 1993 si è aggiunta la germanofona comunità walser. Analogamente nello Statuto del Trentino Alto Adige si riconobbe il particolarismo linguistico, specie della comunità tedesca, cui si aggiunse la preziosa tutela internazionale dell’Austria, purtroppo non esistente per la Valle d’Aosta.
Alla Costituente fu l’azionista Tristano Codignola a chiedere con un intervento accorato una norma quadro per le altre minoranze linguistiche in Italia attraverso quanto poi previsto all’ultimo dal dispositivo dell'art. 6 Costituzione: ”La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”.
Troppi anni ci sono voluti per avere questa legge, che esprime anche in materia scolastica, una varietà di modelli assai diverso. La legge n. 482 del 1999 recante “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche-storiche” - che è anche in buona parte una mia creatura - riconosce dodici minoranze: albanese, catalana, germanica, greca, slovena, croata, francese, franco-provenzale, friulana, ladina, occitana e sarda.
Ognuna di queste minoranze ha modellistiche sue, quasi sempre non ripetibili, anche in campo scolastico. Ogni aspetto comparativo e qualunque esempio torna comunque utile per tutti gli altri. E confrontarsi, sempre per capire come migliorare, è esercizio di grande utilità.

La guerra dei palloni

Nell’Italia pallonara, dove ormai l’unico quotidiano che tiene e persino cresce sul mercato è la Gazzetta dello Sport (135.166 copie a dicembre con un clamoroso più 41,2 per cento sul 2021), il titolo “La guerra dei palloni” farebbe pensare a chissà quale storia calcistica.
Invece tocca riferirsi a questa specie di Spy fiction della guerra dei cieli fra Stati Uniti e Cina con un reciproco palleggiarsi (mi scuso per la banalità del verbo) sul sorvolo nei cieli di palloni spioni.
Il passo indietro è intriso di nostalgico romanticismo. Su National Geographic si legge: “Era il primo dicembre del 1783. Nel giardino reale delle Tuileries, a Parigi, si riunì una grande folla; secondo alcune fonti, si sarebbero radunate addirittura 400mila persone. Tutti i presenti volevano assistere a uno spettacolo che nessuno si sarebbe immaginato fino a poco tempo prima: quello di due uomini pronti a sollevarsi fino al cielo a bordo di un pallone riempito d'idrogeno.
Da giorni in città non si parlava d’altro e l’avvenimento aveva avuto grande eco sui giornali. Gli spettatori gremivano le banchine e i ponti, le finestre e le terrazze delle case, i campi e i villaggi circostanti. Ancor prima del suo decollo, la semplice vista dell’aerostato, con un diametro di nove metri e realizzato in seta, destò meraviglia. Al di sotto dell’imboccatura del pallone era collocata una robusta cesta di vimini destinata ad accogliere i due aeronauti: il fisico Jacques Charles e il suo assistente, Nicolas-Louis Robert”.
Ma quell’anno ricorda lo stesso giornale non finì lì: “Il 4 giugno del 1783, nella piazza principale di Annonay, davanti ai notabili locali e a un’ampia folla accorsa per l’occasione, i fratelli Montgolfier diedero la prima dimostrazione pubblica del volo di un globo ad aria calda. Un aerostato con una circonferenza di 30 metri, e senza alcun equipaggio, coprì un chilometro in un quarto d’ora, tenendo un’altezza di 2000 metri, e ridiscese una volta che l’aria al suo interno si fu raffreddata”.
Naturalmente questa novità non passò inosservata già allora ai militari e il Post in questi giorni ha non a caso ricordato: “L’idea di utilizzare i palloni aerostatici per la sorveglianza in ambito militare fu messa in atto fin subito dopo l’invenzione della mongolfiera da parte dei fratelli francesi Montgolfier nel 1782–1783.
Il primo a usare in battaglia i palloni aerostatici fu l’esercito francese, che li impiegò per la prima volta nella battaglia di Fleurus del 1794, una delle prime della Francia rivoluzionaria contro le altre potenze europee. Per l’occasione, l’esercito francese creò anche un Battaglione aerostatico. Al tempo i palloni aerostatici erano usati soprattutto come mezzi di osservazione: erano riempiti di idrogeno o elio e rimanevano ancorati al suolo tramite cavi di metallo. Servivano per osservare il campo di battaglia dall’alto, gestire la sistemazione delle truppe e i colpi dell’artiglieria”.
E, venendo ad oggi, si osserva: “A favorire il ritorno dei palloni aerostatici potrebbe esserci il fatto che le fotocamere e gli altri sistemi di sorveglianza ormai hanno raggiunto un tale livello di miniaturizzazione che anche apparecchi molto sofisticati possono essere montati su un pallone, e fornire dati e immagini di ottima qualità. Un pallone aerostatico oggi può montare fotocamere e videocamere, radar, sensori di vario tipo, strumenti di comunicazione e pannelli solari per dare energia al tutto.
I satelliti sono e rimarranno ancora per molto tempo lo strumento migliore per attività di sorveglianza e spionaggio, ma i palloni aerostatici potrebbero fornire una valida alternativa in alcune circostanze”.
A me la cosa che ha divertito di più di questa disputa nei cieli è il risveglio degli ufologi, che alla notizia che americani e canadesi hanno abbattuto “oggetti non identificati” si sono eccitati, annunciando il possibile arrivo degli alieni.
In effetti in quest’epoca di tante difficoltà mancano solo loro perché interessati ad invaderci, come avvenuto in tanti film di fantascienza. Se davvero, come sostengono alcuni (da ragazzo lessi le teorie di questo tipo di Peter Kolosimo) sono ormai millenni che ci spiano, allora potremmo essere tranquilli, perché conoscendoci a fondo avrebbero già deciso da tempo di lasciarci perdere…

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