blog di luciano

Non sottostimare San Valentino

Che i maschi all’ascolto ne abbiano consapevolezza: San Valentino nel tempo si è trasformato in una trappola e vi spiegherò bene il perché. Una specie di manuale d’uso, che è frutto di una certa esperienza pregressa,
Intanto, ricordiamo il percorso, prima di esplicitare le conclusioni che indicano la strada percorribile, nel caso in cui - beninteso - siate nelle condizioni di condividere la festa con chi desiderate, come da copione.
L'origine di San Valentino, come spesso capita, parte dalla necessità per la Chiesa cattolica di "cristianizzare" (lo ha fatto per molto altro) il rito pagano della fertilità, praticato dagli antichi romani.
A metà febbraio, fin dal quarto secolo a.C., iniziavano infatti le celebrazioni dei "Lupercali", per tenere i lupi lontano dai campi coltivati, quanto sulle Alpi - con il moltiplicarsi dei lupi - rischia di diventare di stretta attualità, anche se i rimedi oggi non potranno essere ovviamente gli stessi…
Allora i sacerdoti di questo ordine entravano nella grotta in cui, secondo la leggenda, la lupa aveva allattato Romolo e Remo, e qui si svolgevano sacrifici e riti propiziatori. Contemporaneamente lungo le strade di Roma veniva sparso il sangue di alcuni animali. I nomi di uomini e donne venivano inseriti in un'urna e poi mischiati; quindi un bambino estraeva i nomi di alcune coppie che per un intero anno avrebbero vissuto in intimità, affinché il rito della fertilità fosse concluso. 
Per cui, con l’avvento del cristianesimo che certo non poteva tollerare logiche così promiscue, nel 496 d.C. Papa Gelasio annullò la festa pagana, decretando che venisse seguito il culto di San Valentino, vescovo romano che era stato martirizzato con la brutta fine purtroppo consueta agli albori della Chiesa.
Per riassumere il concetto: San Valentino ha incanalato in modo religiosamente…corretto quanto prima risultava eroticamente sfrenato. Ricordo ai tempi del Ginnasio quanto ci fosse da ragionare per capire, nello studio della antica letteratura greca, l'amore in diverse sfumature: familiare ("storge"), di amicizia ("philia"), il desiderio erotico ma anche romantico ("eros"), infine l'amore più prettamente spirituale ("agape") e ci sono molte altre sottigliezze e c'è difficoltà di trovare certi confini e fra gli uni e gli altri. Chi oggi predica il “fluido” e il “gender” potrebbe scoprire di aver inventato l’acqua calda.
La giornata di oggi si gioca molto attorno a un simbolo antico, che è quello del cuore. Cuore e Amore: un binomio di cui difficile fare a meno e che ha avuto le più varie declinazioni da livelli altissimi alla banalità più evidente da Baci Perugina. Un esempio elevato? "On ne voit bien qu'avec le cœur. L'essentiel est invisible pour les yeux" (Antoine de Saint-Exupéry).
Ma veniamo al fatto che non ci dobbiamo distrarre o prendere la data sottogamba per evitare problemi con l’altra metà del cielo.
Sarà pure vero, infatti, che ho personalmente assistito al gonfiarsi commerciale di San Valentino, che da passaggio senza troppe pretese è assurto - ecco il punto - ad occasione affinché anche il maschio più distratto comprendesse le ragioni per pensare ad un regalo, ad esplicitare un pensiero, ad organizzare una serata. Quanto non sempre ci riesce con brillantezza. Altrimenti il rischio, tipo calcio, è di passare direttamente al cartellino rosso senza passare attraverso quello giallo. Per cui bisogna stare vigili e reattivi.
Nel mio caso Mara mi aspetta a piè fermo per vedere se e come mi ricorderò di lui, San Valentino, e di conseguenza di lei. Sono già attrezzato!

Bizzarrie della comunicazione politica

Ci sono evoluzioni della comunicazione politica che stupiscono. Non si finisce davvero mai di imparare, anche dopo anni di esperienza nel settore. Questo significa mantenersi vigili e scoprire filoni nuovi e aggiornarsi in un mondo che cambia, restando poi per molti versi - e non sempre per fortuna - immutato a causa della natura umana.
Come sempre, il caso valdostano sembra utile come laboratorio di certe nuove tendenze e lo dico, per evitare ambiguità, con un pizzico di ironia. Specie in un periodo nel quale - per le continue instabilità di governo - non credo che chi fa politica in Valle d’Aosta e forse nel mondo terraqueo goda di grande popolarità e qualunque sia la sua storia personale conta poco per fare dei distinguo.
Una volta esistevano i partiti. Non che non ci siano più, ma sono diventate creature fragili, conseguenza del fatto che le granitiche appartenenze del passato non ci sono più. Lo si vede da elettori che non seguono più una linea, ma saltabeccano dagli uni agli altri, azzoppando leader dopo averli fatti salire in cima. In più mancano risorse economiche, essendoci stata a suo tempo la scelta sull’onda populista che nessun finanziamento pubblico dovesse aiutare le organizzazioni politiche.
Una volta i dibattiti su temi politici - che poi riguardano qualunque cosa! - si facevano soprattutto nelle assemblee, nel caso valdostano il Consiglio Valle, cuore della democrazia rappresentativa, almeno fino a quando il voto conterà qualche cosa. Ma l’attenzione dell’opinione pubblica, anche per colpa dei politici, non c’è più, malgrado le dirette dei lavori che stravolgono pure la dialettica interna. Molti infatti parlano solo a favore delle telecamere e non degli interlocutori in aula e dunque più che trovare sugli argomenti posizioni di compromesso si usa la benzina per appiccare i fuochi della polemica. La perenne campagna elettorale e l’idea di alcuni che la politica sia solo la ricerca del consenso per le elezioni che verranno di certo non aiutano.
Certo una parte della comunicazione passa sui Social, ma non è facile farlo perché l’attenzione alla fine è minima e si passa avanti su qualunque tema che invecchia in poco tempo e ciò avviene senza troppi approfondimenti. In più la litigiosità intrinseca in questi dibattiti virtuali stravolge tutto e butta in vacca ogni reale confronto e ci sono distributori che si divertono a peggiorare le cose.
Ma la novità più clamorosa viene da un vecchio strumento che vive ancora e anzi troneggia nella politica valdostana: il comunicato stampa. Che cosa sia lo sappiamo tutti, ma il nuovo uso - nelle mani di esponenti e di partiti - è fantastico, perché paradossale, perché offre visibilità eccessiva a chi in realtà conta poco per decisione degli elettori.
C’è infatti chi o assente in Consiglio Valle o in opposizione con piccoli numeri inonda le redazioni di prese di posizione le più eclettiche che vengono riprese senza nessun filtro e soprattutto senza alcuna proporzionalità. Chi sfrutta questo filone con logica compulsiva, che fa da contrappunto a qualunque decisone democraticamente presa da chi governa, appare così più grande di quello che è. Quel che conta è apparire e questo avviene se poi c’è chi, in uno strano concetto di democrazia, dà loro spazi non corrispondenti alla loro reale rappresentatività. Il vecchio problema fra l’essere e l’apparire…
Una situazione ridicola che falsa la comunicazione con giornalisti che spesso inconsapevolmente e talvolta consapevolmente diventano i megafoni del nulla. Mai proposte, solo proteste o critiche, verso chi le cose le cose le fa: una politica di rimessa facile e comoda.

La Corte Costituzionale e la pandemia

La pandemia speriamo risulti davvero un ricordo. Verrebbe voglia di aggiungere “da dimenticare”, mentre in realtà la lezione è da ricordare bene e farne tesoro per le minacce di episodi analoghi che il mondo della scienza annuncia in futuro come eventi purtroppo certi.
Sembra passato chissà quanto tempo dalla ruvida esperienza delle restrizioni e degli isolamenti. Forse questi eventi ci hanno fatto capire l’importanza di certe libertà personali e collettive, compresse dall’emergenza sanitaria. Resto convinto che molte cose abbiamo funzionato come un generale senso di responsabilità e di civismo, ma certi meccanismi di restrizione - senza tener conto delle situazioni locali - sono stati subiti con strumenti giuridici impropri con tempi di imposizione troppo stretti e mal comunicati.
La logica di una gestione pandemica diretta in toto dallo Stato, come decisa dalla Corte Costituzionale su di una legge regionale valdostana che intendeva regolare meglio l’impatto delle misure sulla nostra Regione, non la ritengo logica ancora oggi. La flessibilità di applicazione non è lassismo, ma capacità logica di adeguarsi a situazioni particolari non generalizzabili.
Il problema più grande e l’ho vissuto con insulti e minacce è stato il sorgere del variegato fenomeno NoVax, di cui resta qualche cascame e che ha assunto un carattere assai divisivo anche da noi con bagliori complottisti e settari. Aggregazioni che meriterebbero uno studio apposito per capire il cemento che ha unito persone diverse nel destino di contestatori del “sistema” e una parte di loro è pure diventata filorussa o vive in quel perimetro di discipline spiritualiste e animiste detto un tempo “alternative”.
In questi giorni è, intanto, uscita una decisiva sentenza della Corte Costituzionale.
La commenta Ermes Antonucci sul Foglio, che ricorda come già si sapesse che erano state ritenute “legittime le norme che hanno introdotto l’obbligo vaccinale contro il Covid19 per il personale sanitario e, soprattutto, la sospensione dal lavoro dei sanitari non in regola con le dosi”.
Così spiega: “Nelle sentenze la Consulta ha evidenziato alcuni principi che vale la pena ricordare, soprattutto ai tanti No vax che ancora affollano politica, informazione e social network.
Come prima cosa, la Corte ha ritenuto che la scelta assunta dal legislatore al fine di prevenire la diffusione del virus, limitandone la circolazione, “non possa ritenersi irragionevole né sproporzionata, alla luce della situazione epidemiologica e delle risultanze scientifiche disponibili”. L’articolo 32 della Costituzione, infatti, affida al legislatore il compito di bilanciare, alla luce del principio di solidarietà, il diritto dell’individuo all’autodeterminazione rispetto alla propria salute con il coesistente diritto alla salute della collettività: esistono diritti individuali, questo è vero, ma anche “doveri inderogabili, a carico di ciascuno, posti a salvaguardia e a garanzia dei diritti degli altri”.
Per bilanciare queste situazioni, il legislatore ha tenuto conto dei dati forniti dalle autorità scientificosanitarie, nazionali e sovranazionali preposte in materia (Agenzia europea del farmaco, Istituto superiore di sanità, Agenzia italiana del farmaco) circa l’efficacia e la sicurezza dei vaccini, e, sulla base di questi dati scientificamente attendibili, ha operato una scelta che non appare inidonea allo scopo, né irragionevole o sproporzionata.
“Relativamente al profilo della sicurezza, l’iss attesta che ad oggi miliardi di persone nel mondo sono state vaccinate contro il Covid-19. I vaccini anti SARS-COV-2 approvati sono stati attentamente testati e continuano ad essere monitorati costantemente. Numerose evidenze scientifiche internazionali hanno confermato la sicurezza dei vaccini anti Covid-19”, si legge nella sentenza n. 14 del 2023. I dati, proseguono i giudici costituzionali, non solo “attestano concordemente la sicurezza dei vaccini”, ma anche “la loro efficacia nella riduzione della circolazione del virus, come emerge dalla diminuzione del numero dei contagi, nonché del numero di casi ricoverati, in area medica e in terapia intensiva, e dall’entità dei decessi associati al SARS-COV-2 relativi al periodo che parte dall’inizio della campagna di vaccinazione di massa risalente a marzo-aprile 2021” “.
Spiega ancora Antonucci: ”Per la Consulta, l’idoneità dell’obbligo vaccinale “vale con particolare riferimento agli esercenti le professioni sanitarie”: “E infatti, l’obbligo vaccinale per tali soggetti consente di perseguire, oltre che la tutela della salute di una delle categorie più esposte al contagio, il duplice scopo di proteggere quanti entrano con loro in contatto e di evitare l’interruzione di servizi essenziali per la collettività”. Non è un caso che misure simili siano state adottate anche in altri paesi, come Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti.
Anche la conseguenza del mancato adempimento dell’obbligo vaccinale, vale a dire la sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie, risulta per la Consulta “non sproporzionata”: “Il sacrificio imposto agli operatori sanitari non ha ecceduto quanto indispensabile per il raggiungimento degli scopi pubblici di riduzione della circolazione del virus, ed è stato costantemente modulato in base all’andamento della situazione sanitaria, peraltro rivelandosi idoneo a questi stessi fini”. Del resto, l’alternativa, vale a dire il ricorso a tappeto ai test antigenici ogni due o tre giorni, avrebbe comportato “costi insostenibili” e “uno sforzo difficilmente tollerabile per il sistema sanitario, già impegnato nella gestione della pandemia”. Per di più, il ministero della Salute ha attestato come la campagna vaccinale tra gli operatori sanitari abbia determinato un netto sviluppo dell’immunità rispetto al resto della popolazione.
Su questo aspetto c’è un passaggio della Corte costituzionale che merita di essere posto in risalto: “Il diritto fondamentale al lavoro, garantito nei principi enunciati dagli articoli 4 e 35 della Costituzione (…), non implica necessariamente il diritto di svolgere l’attività lavorativa ove la stessa costituisca fattore di rischio per la tutela della salute pubblica e per il mantenimento di adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza” “.
Mi paiono spiegazioni chiare e fanno evaporare una serie di tesi contrarie, che abbiamo sentito ripetute in questi anni.

Ferragni, l’influencer

"Influencer”, chi diavolo sei? Questo nuovo mestiere è così riassunto dalla Treccani: ”Personaggio di successo, popolare nei social network e in generale molto seguìto dai media, che è in grado di influire sui comportamenti e sulle scelte di un determinato pubblico”.
Ha scritto, più approfondendo, un esperto dei Social, Stefano Gallon: "Un influencer è un utente con migliaia (se non milioni) di seguaci sparsi sui vari social network; può essere uno YouTuber, un Instagramer, un blogger o avere semplicemente una pagina su Facebook dove condivide foto, video e contenuti vari. Fin qui è come un qualsiasi utente nella rete, ma a differenza degli altri, l’Influencer è in grado letteralmente di influenzare i suoi followers". Questo, detto brutalmente, significa commercio e soldi.
Laura Fontana su rivistastudio.com ha spiegato molto bene perché è una delle star del settore, il cui ruolo oggi pare scricchiolare. Ecco cosa ha scritto: ”Chiara Ferragni partecipa a Sanremo non all’apice del suo successo. Lo dicono le metriche social, lo dice l’engagement; la sua massa di follower è stabile sui 34,6 milioni tra Instagram e TikTok, ma Khaby Lame ne ha 234,4 milioni, ammassati in meno di due anni. Durante la prima serata di Sanremo, Chiara Ferragni viene citata in 55mila contenuti online, ma Blanco arriva agilmente a 150mila. Tra i top hashtag #chiaraferragni si ferma al decimo posto. Webboh, termometro di cosa interessa alla generazione Z, dedica la prima card del dopo-Sanremo sempre a Blanco. Chiara Ferragni ha fatto di sé stessa un content e in quanto tale vale solo quanto riesce a stare sulla cresta dell’hype. È il motivo per cui alla fine ha accettato di andare a Sanremo; a differenza di quando era ancora solo una fashion blogger, adesso la concorrenza è aumentata esponenzialmente, Instagram sta perdendo la battaglia contro TikTok, e l’algoritmo comunista di TikTok le è meno amico. Rimanere in hype è un lavorio giornaliero: gli influencer ragionano per content, frammentano le loro vite, le spezzettano e le riadattano ai formati, alle challenge, alla musica virale del momento; poi tutto viene portato in dono al dio algoritmo, che decide a chi tocca il jet privato e i viaggi pagati a Dubai, e a chi no”.
Insomma, fuori dal mito, una professione che lei ha interpretato con grande maestria e intelligenza e che la obbliga però a stare sulla cresta dell’onda: ”Chiara Ferragni è stata tra i primi in Italia a concepire la vita interamente come content, tra l’altro con grande successo avendo il dono naturale della viralità. Dono che si manifesta curiosamente molto più di frequente nei corpi di giovani fanciulle dall’aspetto virginale, meglio se bionde, con occhi azzurri e fisico longilineo. Chiara Ferragni, devota ancella dell’algoritmo, ha da sempre dato tutto di sé: la sua quotidianità, le sue relazioni, la famiglia, le sorelle, il cane, il matrimonio, i figli. Donando tutto di sé stessa, ha preteso e ricevuto in cambio moltissimo ma non ha mai accettato e neanche capito i commenti non adoranti. L’unico commento possibile è come quello che le lascia la mamma a ogni post: «Bravissima e bellissima, amore mio!». Ultimamente invece, oltre al calo dai dati, ha dovuto vedersela con critiche molto più specifiche e ragionate, queste non cucite sul vestito a differenza di «hai le tette piccole»: la beneficenza performativa, il dibattito sul diritto alla privacy dei bambini usati come leve per l’engagement.
La Ferragni finché ha potuto ha mutato forma come muta forma continuamente il mondo virtuale. Prima erano le giovani Millennial che la seguivano, trovando in lei un modello di ragazza che fugge dalla provincia e finisce a Los Angeles. Il periodo losangelino della Ferragni è quello che preferisce ricordare di meno: diventa più magra, scurisce i capelli, segue i consigli del fidanzato americano, fotografo bello e tenebroso, probabilmente quello che le ha fatto “violenza psicologica”, probabilmente quello che le ha fatto notare che Hollywood non è CityLife e se vuole avere successo lì, il sacrificio richiesto è ancora più alto. A Los Angeles, Chiara soffre di solitudine, non ha vicino quella rete familiare che a Milano la sostiene; i brand che ama continuano a snobbarla, le Chanel dovrà continuare a comprarsele da sola, si imbuca ai party di Louis Vuitton sognando di diventare il volto del brand, cosa che non succederà. Torna in Italia e arriva il raggio di luce alla fine del tunnel: Fedez. Si fondono e diventano entità unica, i Ferragnez, si scambiano gli anelli e uniscono l’engagement, raggiungendo il picco massimo con il matrimonio e poi con la prima gravidanza. Raggiunta la cima, inizia la discesa: la condivisione minuto per minuto della crescita del feto porta tanti follower a smettere di seguire l’influencer. La documentazione sistematica della vita del figlio mette ansia: Leone Lucia Ferragni fa parte di quei bambini online di cui puoi riavvolgere e rivedere in un attimo la sua vita scrollando all’indietro i feed dei genitori. Oggi a seguire la Ferragni sono rimaste ancora alcune ragazze di provincia alla ricerca di visibilità, ma locale più che internazionale. Le borse brandizzate Chiara Ferragni non vanno a ruba a Rodeo Drive ma da Monelli Kids. Il nuovo pubblico della Ferragni sembra fatto soprattutto di audience mature, di nonni lontani fisicamente dai propri nipotini, o desiderosi di nipotini che non avranno, che trovano un palliativo nella relazione parasociale con Leone e Vittoria. I figli diventano il perno centrale del piano editoriale. Gli unici altri momenti in cui i numeri salgono di nuovo è quando posta foto in intimo”.
Poi la Fontana - che certo innervosirà certi fans - smonta per filo e per segno l’esibizione sanremese della influencer e il flop avuto rispetto alle reali intenzioni. Personalmente penso che abbia fatto il pari con il pistolotto notturno assai dubbio sul palco sanremese del marito Fedez. Meglio le canzonette estive e, assieme alla moglie, lo spaccio di prodotti, certo in modo più elegante e tecnologico di come avveniva con le vecchie televendite, perché inserito nello storytelling familiare.

L’isolamento della Meloni

Il confronto fra l’allure internazionale di Mario Draghi e l’approccio alla vaccinara con il resto del mondo di Giorgia Meloni imbarazza.
Per chiunque fosse andato a Palazzo Chigi dopo l’ex big della BCE il confronto sarebbe comunque risultato difficile. Draghi ha di certo sbagliato molte cose e mi riferisco alla totale incomprensione del regionalismo, ben visibile dal montaggio sbagliato del PNRR e dalla scelta di snobbare la democrazia locale su tanti dossier, ma la sua capacità di dialogare senza complessi, grazie allo status conquistato sul campo, con i leader mondiali è stata indiscutibile.
Fatto fuori interrompendo la Legislatura senza motivi plausibili, l’esperienza con Draghi è finita bruscamente e a furor di popolo è spuntata Meloni. La giovane donna dal passato di estrema destra di estrazione fascista (dirlo è una constatazione) è stata bravissima a sfruttare la situazione con un berlusconismo al tramonto e un salvinismo in crisi. Il centrosinistra tafazziano ci ha messo del suo e la Meloni è assurta al ruolo che ricopre legittimamente e lamentarsene sarebbe ridicolo, avendola spinta una forza elettorale.
Ma questo non significa evitare di notare che, specie nell’Unione europea ma anche nella considerazione con altri Paesi del mondo, siamo scesi di graduatoria e questa è una facile constatazione, priva di qualunque compiacimento. Altri leader italiani del passato sono state figure non particolarmente considerate e dunque non è una novità, però oggi siamo molto giù.
Forse una novità deriva da una qual certa aggressività che, benché neofita nei rapporti internazionali, la Meloni sta dimostrando. In particolare questo vale per il rapporto con la Francia, che sembrava partito bene nel primissimo incontro a Roma, dopo l’elezione della Meloni con buon faccia a faccia con Emmanuel Macron, poi degradatosi. Ultimo episodio la critica, inconsueta nei toni usati dal Presidente (Meloni gradisce il maschile) per la visita a Parigi (ma prima era stato a Londra e anche a Bruxelles) del Presidente ucraino Zelensky e contro il summit franco-tedesco con lo stesso Zalensky. Essere stata snobbata, dopo non aver avuto polso consentendo all’Ucraina di avere voce e soprattutto video al Festival di Sanremo, è bruciato sulla pelle della Meloni, che ha reagito malamente. Si direbbe: coda di paglia e isolamento politico.
Ma esiste qualcosa di profondo in questa lite con Parigi, che ci deve preoccupare. Noi valdostani, con buona pace dei fessi che guardano anche da noi Oltralpe con spirito polemico, coi francesi abbiamo tutta la necessità di mantenere rapporti stretti e di grande comunanza.
Non è solo la francofonia e neppure il confine comune, è il buonsenso tenendo conto della storia vissuta nel tempo coi territori vicini e delle molte cose - rese evidenti dai fondi comunitari - di lavori assieme in diversi settori.
Lo dimostra la questione del traforo del Monte Bianco e chi polemizza coi francesi dimentica la necessità di accordi per disegnare un futuro del tunnel. Ma il quadro è enormemente più vasto: il Trattato del Quirinale, con la cooperazione rafforzata Italia-Francia, è per la Valle uno strumento preziosissimo in molti campi e bisogna essere miopi o ignoranti ad negare la portata storica per il nostro futuro.
Ma la conditio sine qua non è che i rapporti bilaterali Italia-Francia non vengano avvelenati da logiche di un nazionalismo italiano da operetta, pernicioso se non ridicolo. Meloni capirà presto che solo con dei buoni rapporti con tutti (che non vuol dire non difendere le proprie posizioni) avrà un posto e non uno sgabellino con i Grandi del mondo e otterrà - se ne sarà capace - quel peso essenziale per avere un ruolo motore nell’Unione europea.

Sanremo e la Costituzione

Leggo diversi commenti sulla performance sanremese di Roberto Benigni sulla Costituzione italiana. Quanto già fece in passato con apposita trasmissione televisiva, che si chiamava con enfasi “La più bella del mondo”. Introdotta da l’Inno di Mameli, la cui bruttezza specie del testo è ormai manifesta, cantata da Gianni Morandi (sic!), l’occasione era ghiotta per la presenza in una sorta di tribuna d’onore in velluto nel cinema-teatro Ariston del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che assomigliava purtroppo alla tribunetta con i vecchietti terribili del Muppet show.
Cito un pezzo di un Tweet di Marco Cantamessa, professore universitario che stimo anche per il suo ruolo di Presidente di CVA: “Fatico a ritrovarmi nel tentativo di rappresentare la Costituzione come forma d’arte, o come testo sacro. E’ la legge fondamentale del nostro Paese, e ne definisce le Istituzioni e il perimetro delle norme, il che è tanto, ma nulla più”.
Le norme giuridiche servono a questo e quel che è bello della Costituzione italiana, almeno nelle parti originali e non in certe norme successivamente inserite, è l’antiretorica presente nel suo articolato con frasi tacitiane, scritte in un italiano inappuntabile. Per questo l’ampollosità sul testo stride, specie se a commentarla – diciamoci la verità – è un comico, pur intelligente e sensibile come Benigni, che incomincia ad avvertire il rischio di ripetitività. Ed anche - spiace aggiungerlo - che ha una scarsa attenzione al fatto che i tempi televisivi si sono fatti più corti e cala facilmente la palpebra.
Tornerò al tema, ma intanto fatemi dire che a Sanremo (dove l’unica digressione accettabile sarebbe stato il video di Zalensky) delle volte bisognerebbe ricordarsi che siamo al Festival della canzone e di conseguenza certi monologhi, come quello imbarazzante di Chiara Ferragni che ha scritto a se stessa bambina, sarebbero meritevoli di spazi altrove.
Dicevo della Costituzione e del suo uso “sanremese”. Evito un excursus storico sul significato profondo delle Costituzioni, quel che conta, senza svolazzi e eccessi, è che le carte fondamentali indicano la strada. Per questo la vecchia educazione civica - oggi riproposta sotto nuova forma - si dovrebbe occupare di un tema cruciale come questo, al posto spesso di spaziare in terreni troppo diversi. Vale a dire della necessità, cominciando appunto dalla scuola ma non ritenendola esaustiva, di avere cittadini che capiscano le fondamenta della Repubblica. Per ottenere la necessaria conoscenza della Costituzione anche i messaggi di Benigni sono utili, ma la spettacolarizzazione non basta, perché poi a seguire ci vuole la sostanza, che non si esaurisce sul palco di Sanremo.
Ci penso sempre rispetto anche al nostro Statuto, che alla fine sono pochi a conoscere davvero e ci vogliono sforzi per far capire come l’Autonomia debba avere una base giuridica, senza la quale ci sarebbe il nulla.
Da un certo punto di vista, proprio in maniera esemplare, ricordo quanto scritto nel decreto luogotenenziale del 1945 all’inizio dell’articolo 1: “La Valle d'Aosta, in considerazione delle sue condizioni geografiche, economiche e linguistiche del tutto particolari, è costituita in circoscrizione autonoma…”.
C’è tutto un mondo in quei tre termini. Geografico è condensato in un solo aggettivo la Montagna nella sua essenza più forte e questo ha a che fare con l’economia e le sue conseguenti particolarità, ma anche con l’aspetto linguistico che non è frutto del caso ma della naturale logica di appartenga a una medesima area con Francia e Svizzera.
Una sorta di triangolo - i luoghi, le attività umane e le lingue parlate - che fonda le ragioni del nostro ordinamento e che sono da tenere a mente in ogni circostanza. Ciò non riguarda solo la storia contemporanea ma un lunghissimo fil rouge che iniziò già in un lontano passato, di cui noi bene o male siamo l’attuale espressione e dovremmo esserne fieri e pure degni.

Sanremo e l’Italietta

Edoardo Bennato, con grande ironia, usava in una celebre canzone l’espressione “Sono solo canzonette”.
Nel testo figura, al limite del sarcasmo, quanto riporto:
“Non potrò mai diventare/ Direttore generale/ Delle poste o delle ferrovie/ Non potrò mai far carriera/ Nel giornale della sera/ Anche perché finirei in galera/ Mai nessuno mi darà/ Il suo voto per parlare/ O per decidere del suo futuro/ Nella mia categoria/ È tutta gente poco seria/ Di cui non ci si può fidare/ Guarda invece che scienziati/ Che dottori, che avvocati/ Che folla di ministri e deputati/ Pensa che in questo momento/ Proprio mentre io sto cantando/ Stanno seriamente lavorando”.
Lo ricordo mentre l’Italia giunge nella settimana canonica del Festival di Sanremo. Un crescendo che ci porterà alla serata finale di sabato con la solita ripetitività che ci accompagna dall’infanzia.
Lo posso testimoniare dell’importanza di Sanremo, dove pure mi trovai con un gruppo di colleghi parlamentari a cantare in playback e ne rido ancora oggi. Era il
1995 e un’agenzia stampa così ci descriveva: “Sono 35 i parlamentari del coro per il Festival di Sanremo, che domani sera sara' sul palcoscenico del Teatro Ariston per cantare ''Cosa sara''', brano composto da Alberto Laurenti, Marco Carmassi, Francesco Migliacci, Marco Dane', a scopo benefico. La formazione dei parlamentari, alcuni dei quali eurodeputati, rappresenta tutte le forze politiche presenti alla Camera e al Senato”.
Fummo persino applauditi, oggi saremmo sommersi da fischi.
La canzone, che ricordo a memoria, per qualche serata in sala d’incisione a Roma faceva così:
“Cosa sarà, cosa sarà/ Che fa nascere una canzone/ Cosa sarà, cosa sarà/ Che fa crescere un’illusione/ Se hai visto il cielo abbracciare il mare/ Se conti le stelle ogni notte come me/ Ma la mia stella poi qual è”.
Mi fermo per carità di patria, ma mai rinnegare le cose fatte!
Quel che da allora è cambiato è l’idea politicamente corretta di aggiungere nella lunga maratona televisiva della Città dei Fiori anche una coloritura politica su temi sociali i più vari per far finta di dimostrare chissà quale impegno.
Così nelle ultime edizioni ci siamo sorbiti crescenti predicozzi, quando lo scopo unico della visione è - quanto mi è capitato di fare - ridere con gli amici di cantanti e canzoni.
Questa volta era l’occasione per parlare di Ucraina, come già stato fatto in tutto il mondo per serate di vario genere nel mondo dello spettacolo.
Doveva spuntare in video Volodymyr Zelens'kyj, Presidente dell'Ucraina, per raccontare gli orrori della guerra e la tragedia del suo Paese aggredito dai russi. Appena resa nota questa presenza i filorussi di diversa specie si sono scatenati.
La RAI aveva annunciato la granita scelta di tener duro, poi - da veri conigli mannari- prima l’annuncio di una sorta di censura preventiva sul possibile messaggio e infine sarà Amadeus a leggere un messaggio.
Una vera schifezza di cui vergognarsi. Chi ha conosciuto la RAI contemporanea, come il sottoscritto che ci ha lavorato, non si stupisce.
Troppi Don Abbondio in posti di responsabilità.
Resta un’occasione persa per scuotere la vasta platea sanremese, che ha sicuramente una larga parte di disinformati o di distratti dalla lunga durata della guerra. Un passaggio del leader ucraino sarebbe stato salutare, ma esce fuori il peggio dell’Italietta, che invece ieri si è sorbita - intrisa di retorica patriottarda - un inizio serata con un Roberto Benigni che per l’ennesima volta ha esaltato la Costituzione repubblicana, perlopiù sconosciuta agli italiani.
In questa circostanza con il no a Zelens'kyj vale la feroce definizione di Piero Calamandrei: “Il rinvio, simbolo della vita italiana: non fare mai oggi quello che potresti fare domani. Tutti i difetti e forse tutte le virtù del costume italiano si riassumono nella istituzione del rinvio: ripensarci, non compromettersi, rimandare la scelta; tenere il piede in due staffe, il doppio giuoco, il tempo rimedia a tutto, tira a campa’ “.

La falce della Morte

Ci sono argomenti difficili da affrontare. Fra questi – uso non a caso la maiuscola – quello della Morte.
Non so esattamente che età avessi, quando ho visto il primo morto. Ero bambino e dovessi dire la verità non ricordo neanche bene chi fosse. Ero con i miei genitori e la cosa mi impressionò non poco a vedere un corpo esposto.
Già la giornata dei morti, in quegli stessi anni, mi metteva un certo disagio. La visita alle tombe, compresa quella di famiglia, al cimitero di Aosta mi faceva fare nei giorni successivi brutti sogni. Lì giacevano i nonni paterni (la nonna, Clémentine Roux mancata nel 1945 e nonno René nel 1948) e mio zio Antoine, morto per uno stupido incidente il giorno della Liberazione di Aosta nel 1945.
Quando mio papà era quarantenne, ed io ero piccolo mi era venuta la paranoia che potesse morire d’improvviso e certo – essendo poi morto 86enne – non avevo fatto altro che allungargli la vita.
Gli anni Settanta poi furono un disastro: mancarono la gran parte dei miei zii di parte paterna e poi poco più avanti i nonni materni (Emilio Timo e Ines Luzietti). Con il passare degli anni, come pezzi mancanti di una scacchiera, mi sono abituato a perdere persone care e tanti amici, ed è un fatto ineluttabile, compreso papà e mamma. Orribile quando ci si deve occupare dei funerali e doverlo fare pressati dai tempi che conseguono alla morte.
Incomprensibili sono la morte dei bambini e delle persone giovani e ogni volta ascolto con attenzione le omelie dei preti, che diventato una specie di test di sensibilità ed empatia verso chi piange i propri congiunti. C’è chi ce la fa ad affrontare il dolore, specie chi è soccorso dalla Fede, e chi – altrettanto legittimamente – esprime tutta la sua rabbia per perdite precoci e vuoti incolmabili per sempre. Posso testimoniare di vite davvero spezzate di genitori per una fine anzitempo con molte cose che cambiano in una profondità che diventa come un pozzo senza fondo.
Ci pensavo, per l’ennesima volta, di fronte alla morte spietata che ha portato via un giovane insegnante, caduto in biciletta in circostanze banali. Mi riferisco a Victor Vicquéry, giovane walser, che viveva a Saint-Vincent. Lo avevo conosciuto come allievo della Scuola alberghiera, dove aveva scalato i diversi ruoli, sino a vincere il concorso da insegnante. Era un educatore con spirito imprenditoriale nel far capire che alla teoria bisognava far seguire la pratica.
Solare con il suo sorriso e sempre attento a fare in modo che la cultura del turismo e dell’accoglienza si esprimesse al meglio. Posso dire che eravamo amici e capitava spesso di parlare dei destini della nostra Valle, che era in grado di seguire con uno spirito critico sempre costruttivo. E se siamo in tanti a ricordarlo e a piangerlo lo si deve proprio alla sua naturale simpatia e a quell’impegno che emergeva nel suo percorso di vita. E’ una morte ingiusta, comunque la si veda e colpiscono non solo la giovane età, ma per le circostanze tragiche avvenute davvero in un batter di ciglia.
Chi ha scritto delle pagine straordinarie sulla morte, specie nel declinare della sua vita quando aveva consapevolezza dell’avvicinarsi dell’ultimo giorno, è stato il giornalista e scrittore Tiziano Terzani, che osservava tra l’altro un paradosso, per fortuna meno presente in piccole comunità come le nostre: “Quand’ero ragazzo era un fatto corale. Moriva un vicino di casa e tutti assistevano, aiutavano. La morte veniva mostrata. Si apriva la casa, il morto veniva esposto e ciascuno faceva così la sua conoscenza con la morte. Oggi è il contrario: la morte è un imbarazzo, viene nascosta. Nessuno sa più gestirla. Nessuno sa più cosa fare con un morto. L’esperienza della morte si fa sempre più rara e uno può arrivare alla propria senza mai aver visto quella di un altro”. Invece la Morte va tenuta da conto ed è frutto degli eventi spesso nella loro banale semplicità.
Victor resta nei nostri cuori. Come ha scritto argutamente Marcel Proust: “Le persone non muoiono immediatamente, ma rimangono immerse in una sorta di aura di vita che non ha alcuna relazione con la vera immortalità, ma attraverso le quali continuano ad occupare i nostri pensieri nello stesso modo di quando erano vivi”.
 

Il tempo delle mimose

Che cosa annuncia il lento declinare dell’inverno e l’arrivo in un orizzonte, pur ancora lontano, della primavera?
Intanto, verrebbe da dire - nel solco del solito luogo comune ”non ci sono più le mezze stagioni” - che ormai le stagioni sembrano sempre più una macedonia. Soffiava giorni fa il Foehn e ora spunta il freddo siberiano, intanto in America del Nord si registrano temperature rigide epocali e invidiabili nevicate.
Rispondo alla domanda iniziale. Per me, ma non vi è nulla di casuale nella collocazione temporale perché la Natura inizia il suo risveglio. La Foire de la Saint-Ours appena trascorsa è già un campanello che suona con il palese allungamento delle giornate, ristrettesi sino a pochi giorni dal Natale.
Ma poi arriva a svegliare tutto il Carnevale che già a Gennaio accende le sue prime luci nella Coumba Freida e poi arriva il ”mio” Carnevale, quello di Verrès, dedicato a Catherine de Challant. Siamo nel cuore del Quattrocento e la Contessa difese il suo feudo, che poi perse, con le unghie e con i denti.
Ebbene, quei festeggiamenti ormai imminenti sono per me un passaggio stagionale, che finisce per essere rappresentato dal fiore che domina i festeggiamenti, la mimosa.
Leggo per caso un articolo di Léon Prost su Le Monde: ”Quel est le point commun entre Meghan Markle, le fils de Popeye et la lauréate du prix Marcel-Duchamp 2022 ? Le mimosa. Cet arbuste flamboyant aux petites boules jaune vif duveteuses originaire d’Australie, qui, depuis le XIXe siècle, s’est acclimaté à merveille au climat de la Côte d’Azur (le massif du Tanneron est la plus grande forêt de mimosa d’Europe), est devenu un nom propre au large champ qualificatif. Dans la série documentaire Harry & Meghan, diffusée sur Netflix, la duchesse du Sussex révèle sans langue de bois avoir sifflé un mimosa (cocktail à base de champagne et d’agrumes) juste avant la cérémonie de son mariage princier”.
Insomma: mimosa fiore e mimosa cocktail. E Braccio di Ferro?
Spiega il giornalista: ”Mis à part les bédéphiles avertis, peu de gens savent que le fils adoptif de Popeye et Olive Oyl déteste les épinards et porte le même prénom que Mimosa Echard, jeune pousse française de l’art contemporain”.
Da un nome ad un piatto di cucina: ”Mimosa est aussi le nom de baptême d’un œuf dur farci de mayonnaise, travaillé de mille façons par le chef étoilé Jean-François Piège dans son restaurant parisien de l’Hôtel de la Marine qui s’appelle justement… Mimosa. Dans la confiserie traditionnelle, le mimosa désigne de petites billes jaunes grumeleuses et sucrées, d’un goût discutable, utilisées pour décorer les gâteaux”.
Il finale è allegro e fa un link con tante cose nel nome del fiore: ”Cette fleur « soleil d’hiver » – qui, depuis 1946, envahit les rues des villes italiennes le 8 mars, pour la Journée internationale des droits des femmes – s’est aussi illustrée en illuminant les œuvres des peintres Bonnard, Matisse et Chagall. Au fond, le seul défaut du mimosa (hormis que son pollen peut être allergène) est de ne pas savoir jouer les prolongations. Si son parfum de miel vanillé a inspiré à de grandes maisons de luxe quelques-unes de leurs fragrances intemporelles (Paris, d’Yves Saint Laurent, Coco, de Chanel, Kelly Calèche, d’Hermès, Infusion de mimosa, de Prada…), ses pompons, une fois le bouquet plongé dans un vase, se dessèchent, et l’ensemble perd de sa superbe en diffusant un parfum moins agréable. On peut le déplorer ou se réjouir : après tout, la fin du mimosa annonce le début du printemps”.
Si torna, insomma, a quanto detto all’inizio.

Attorno al “ma”

Mi accorgo di scrivere molto adoperando il ”ma”. Sarà forse un mio modo di ragionare, perché cerco sempre in ogni cosa di vederne i diversi aspetti. Mi è capitato di dire che bisogna sempre, rispetto a qualunque problema, avere la capacità di guardarlo in modo plastico. Per capirci: bisognerebbe fare come avviene con una montagna iconica come il Cervino, di cui ognuno di noi ha una visione. Però se ci giri attorno tutto cambia a seconda del versante. Lo so perché ho avuto la fortuna di sorvolarlo in elicottero e di girarci attorno e l’ho fatto anche una volta con un aereo. Lo stesso vale - altra esperienza - non per una montagna singola, ma per un massiccio, che è una sinfonia di montagne, com’è ad esempio il Monte Rosa.
Ecco: bisogna fare così con tutto, mai fermarsi ad una prima considerazione, ad un solo giudizio, ad un pensiero unico.
Per questo, come un flash illuminante, ho letto sul Foglio l’inizio di un articolo di Giuliano Ferrara sul Sudan. Non parlerò di questo, ma della sua riflessione iniziale, che offre una prospettiva diversa e stimolante.
Eccola: ”Il “ma” è una particella di coordinazione del discorso, però avversativa, e ha un grande potere logico, politico, civile, un potere esagerato, assoluto in certi casi, e un infido carisma. Una persona che conosco non poi così bene, cioè Io stesso, me stesso, è spesso oggetto di giudizi segnati fatalmente dal “ma”: è cattivo, ma intelligente. Questa persona si irrita e si turba e vede in quella particella una insidia, vorrebbe, se proprio bisogna mantenerla in vita, rovesciarne il senso: è scemo, ma è buono, meglio ancora: è scemo e buono. Così infatti Io stesso si sente e pretende di essere, senza se e senza ma. Questa però è psicoanalisi, per fatto personale. Grave è che la dittatura della Particella affligga l’informazione intorno non si dica alla verità, basta dire alla verisimiglianza, una certa conformità, tra i dubbi, all’indubbio dei fatti accertati, adaequatio rei et intellectus come diceva sor Tommaso d’aquino. Se leggete bene articoli e titoli di giornale, di servizi televisivi, di siti che influenzano la percezione immediata, nelle 24 ore, della realtà, vi accorgerete che un certo tipo di notizie, specie quelle riguardanti l’economia (anche la climatologia fa la sua brava parte), è sempre soggetto all’egemonia tremenda, apparentemente dialogica e invece irrecusabile, univoca, del “ma” ”.
Il ”ma” siffatto non è indagatore o pluralista, perché è uno zampino negativo, se viene usato per tenere la barca piana e non fissare in modo certo un’opinione.
Cambio scenario e plano su una questione tutta valdostana, senza che appaia un approccio balzano. Si tratta - ne parlo da anni a costo di diventare noioso e pure ripetitivo - del momento di ritorno ad una casa comune degli autonomisti. Reso necessario dalle circostanze e pure da certa pulizia nell’area autonomista per chi ha scelto di uscirne, facendo chiarezza sulle proprie posizioni e intenzioni.
Anche in questo caso esiste il rischio del ”ma” in frasi tipo: ”Ottimo, torniamo insieme! Ma…”. Questa sembra una sorta di maledizione e pure di autocastrazione.
Allora può essere usato meglio se si completa la frase con: ”Ma dobbiamo farlo in fretta e senza tentennamenti”.
Ci credo e vorrei che dopo tanti anni di divisioni e incomprensioni - ciascuno con le propri ragioni su cui non bisogna tornare - ci si trovasse non solo per noi, ma (in questo caso rafforzativo!) per il ”dopo di noi”.
Uno scrittore americano William Hodding Carter ha scritto: ”Ci sono solo due cose durature che possiamo sperare di lasciare in eredità ai nostri figli: le radici e le ali”.

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