blog di luciano

Arriva la Foire!

Ci vorrebbe una squadra affiatata per uno studio approfondito su quel vero e proprio fenomeno che è la Foire de la Saint-Ours. Servirebbe a spiegare come in un secolo questa manifestazione aostana sia passata da piccola fiera prevalentemente con oggetti utili per l’agricoltura all’enorme fiera odierna, che non ha eguali in tutte le Alpi per il suo gigantismo e la varietà di proposte.
Uno storico potrebbe tracciarne la parabola ascendente dal dopoguerra ad oggi, originata fin dalla notte dei tempi o almeno da quando certi documenti medioevali la citano. Un sociologo potrebbe raccontare come venisse vissuta la sua presenza nel solo Bourg in epoca di una società contadina che scendeva da alcune vallate nel cuore della città “borghese” e segnalare come sappia oggi conquistare tutti nei due giorni. Un antropologo potrebbe spiegare come questo rito collettivo abbia dato vita ad oggetti artistici e no con uno stuolo di espositori che mostrano la varietà umana del mondo valdostano e anche la capacità di integrazione avuta.
Tutto ciò nel nome di un mitico Santo e guaritore di cui non si sa molto e che ha superato in popolarità - ed è anche questa una sorta di paradosso - i Santi valdostani più importanti e autorevoli come Sant’Anselmo e San Bernardo. Misteri della fede.
Comunque sia, questa Foire ha due pelli: la prima è quella diurna, che significa uno snodarsi in superficie di quello che ormai è un pigia pigia nelle strade del centro con centinaia di espositori di cui si vedono i banchetti spinti dalla folla. I più accorti arrivano non a caso presto al mattino e possono incontrare e guardare con una certa calma, godendosi la varietà di proposte e parlando con artigiani (termine che assume mille sfaccettature) ancora “freschi”.
Vi è poi - seconda pelle - la dimensione notturna, che per gli habitué è prevalentemente sotterranea nelle famose cantine, un tempo più aperte alle visite e oggi appannaggio di combriccole di amici o a pagamento per frequentatori che sanno godersi la notte fonda. Bere bisogna saper bere e cantare anche, sapendo che l’indomani ci saranno conseguenze, ma è un prezzo da pagare per questa trasgressione.
Ho seguito ormai un sacco di edizioni e alcune sono state memorabili. Penso di aver lasciato un piccolo graffio personale nella pellaccia dura della Foire. Ero Presidente della Regione quando chiesi per curiosità come mai la Foire si inaugurasse il 31 e cioè il secondo giorno e non il 30. Nessuno - anche i più conoscitori della storia della manifestazione - seppe darmi una riposta e allora proposi di fare la cosa più logica: inaugurare il 30 e non il 31! Da allora è così e sono fiero di questo cambiamento. Come inaugurare una fiera dopo un’intera giornata e nottata?
L’altra curiosità è che la Chiesa festeggia Sant’Orso il 1 febbraio, dunque a Foire finita e quel giorno la tradizione mischia il santo con le…previsioni del tempo. Dice il proverbio, parlando dell’indomani dei giorni canonici della Foire: "Se féit solèi lo dzor de Sen t-Ors, l'iver dure incò quarenta dzor" ("Se fa bello il giorno di Sant'Orso, l'inverno dura ancora per quaranta giorni") ed in altra versione questo maltempo si esplicita perché l'orso mette fuori a seccare al sole il pagliericcio e poi torna di nuovo a dormire.
Da notare appunto come nella tradizione popolare per questi detti si mischi il Santo con l'orso come animale simbolo della forza della Natura. Certo é che la Foire si lega con sicurezza a festività analoghe di questo periodo, a metà dell’inverno astronomico, fra il solstizio d'inverno e l'equinozio di primavera. Già lo facevano i Celti con la festa nota come "Imbolc" (che vuol dire "in grembo" con riferimento alla maternità pecore, anche se si celebrava la luce), i romani con le celebrazioni della dea Februa (Giunone) con le calende di febbraio e la "Candelora" (festa cattolica così definita anche perché si benedicono le candele), che in parte torna nel Nord America con il "Giorno della marmotta" (altro animale simbolico del risveglio).
Insomma: tutto si mischia, nulla si butta via e ognuno ricicla in chiave moderna quanto lo ha preceduto, inseguendo il ritmo delle stagioni.
Intanto quel che conta è andarci alla Fiera!

Il Festival di Sanremo e l’Ucraina

Ci abituiamo sempre di più a discussioni politiche polarizzate sull’Ucraina. Lo vediamo sull’invio delle armi affinché Kiev riesca a bloccare l’invasione russa. Mentre prima c’era chi giocava la carta dell’ambiguità, quando si vota in Parlamento carta canta e si vede chi - con mille distinguo tattici - milita nelle fila filorusse, per quanto assurdo sia.
Ora si avvicina un classico di inizio anno: il Festival di Sanremo. La competizione canora non è solo musica ma anche un fenomeno di costume, incredibilmente rimasto in piedi, come se domani trovassimo un mammut in piazza Chanoux.
Ora si discute - nella stessa logica, guarda caso, del dibattito sugli aiuti militari - della presenza durante la kermesse sanremese del Presidente ucraino Volodymyr Zelensky e chissà alla fine chi vincerà.
Ne scrive con arguzia Alberto Mattioli sul Foglio: “Da sinistra urlano Vauro, Beppe Grillo, Moni Ovadia, Dibba e perfino Luigi de Magistris. Da destra strillano Nicola Porro e Mario Giordano. Gli opposti isterismi, insomma. Manca solo una dichiarazione contro di Giuseppe Conte per avere la matematica certezza che è giusto essere pro: pro l’ospitata di Volodymyr Zelensky a Sanremo”.
Anche Matteo Salvini si è espresso contro e il giornalista - evocate le simpatie putiniane del Ministro in passato - ricorda la frase del suo commento:” “Speriamo che Sanremo rimanga il Festival della canzone italiana”, ha detto il Matteo, ignorando che la canzonetta, autarchica o meno, non è più il core business del Festival, da anni un contenitore dove c’è di tutto e di più, secondo il vecchio slogan di mamma Rai. Per dire: nelle ultime tre edizioni, gestione Amadeus, all’ariston si è parlato di femminicidi, razzismo, intolleranza, parità di genere e di ogni possibile argomento d’attualità, con prevalenza di quelli più politicamente corretti”.
Per cui una presenza la Sanremo del leader ucraino non sarebbe così irrituale con buona pace della nuova coppia del fronte del no, Calenda e Renzi, che stupiscono con questa loro uscita.
Mattioli aggiunge: ”Avere Zelensky a Sanremo fa bene innanzitutto a Sanremo, visto che le sue precedenti ospitate spettacolari, in tutti i sensi, si erano verificate ai Golden Globe, a Cannes e a Venezia, eventi decisamente più global e glam, e insomma certifica che il festivalone è meno irrilevante di quanto siamo abituati a pensare. Semmai c’è da rimpiangere che Sanremo in Russia non lo guardino più, a differenza dei bei tempi di Al Bano e di Toto Cutugno e dei Ricchi e Poveri, ultimi eroi di una passione russa per la musica italiana che risale addirittura a Cimarosa (musica magari un po’ migliore, volendo); però in ogni caso provvederebbe la censura del grande uomo di Stato e di governo a impedire ai sudditi di ascoltare il Nemico. Ma poi Zelensky che si materializza su Rai 1 fa bene anche a chi la guarda”.
Concordo: in un mondo smemorato ogni occasione è buona per evitare che si cerchi di far passare l’Ucraina dalla parte del torto, dimenticando chi li ha invaso e sperava nel blitz in realtà fallito.
Conclude il giornalista: “Nell’ottundimento collettivo di cinque interminabili serate di fiori e ritornelli e begli applausi, in questa bolla d’incoscienza che fluttua nel cielo sempre più blu dell’ottimismo coatto, nel migliore dei mondi possibili come sono tutti quelli che sospendono la realtà, ricorda a tutti che, mentre ci balocchiamo con sorrisi e canzoni, nel nostro continente c’è un dittatore criminale che sta cercando di asservire un popolo libero, che per restarlo combatte con un eroismo che suscita l’ammirazione di tutte le persone perbene. Il precedente di un attore che ha vinto la terza guerra mondiale senza nemmeno doverla combattere dimostra che non bisogna prendere sottogamba la gente di spettacolo che fa politica. Si chiamava Ronald Reagan. Peccato solo che Zelensky, stando a quel che annuncia la Rai, non parlerà dal vivo ma registrato e soltanto per due minuti, nella serata terminale dell’11 febbraio, tra la fine della gara e l’annuncio di chi l’ha vinta. “Zelensky? Non so come canta, ho altre preferenze”, ironizza Salvini. Beh, non canta male, anche se è meglio come ballerino, basta fare un salto su Youtube. Ma l’importante, per la sua performance sanremese, è che le canti chiarissime”.

Travolto dai ricordi

Capitano sensazioni improvvise, frutto di situazioni particolari che sono create dal caso. Talvolta sono soste nel cammino della nostra vita. Dire che sono bilanci è esagerato. Si potrebbe dire che è occasione per rivedere noi stessi per quello che siamo stati e per quello che siamo oggi e che - speriamo! - saremo. Semplicemente perché siamo il prodotto di tutto ciò che abbiamo vissuto e del mondo di persone con cui siamo cresciuti.
Così è stato per me in queste ore, come se fossi stato investito da una macchina del tempo, che mi ha portato ad immergermi in certi ricordi come se fosse - la sparo grossa! - un esercizio di transfert cosi come richiesto nella psicoanalisi. Più semplicemente direi che è stato come riaprire un album di ricordi pieno di fotografie colorate.
Ho raccontato tante volte del mio legame passato con la città d’Imperia, Riviera di Ponente. Mi mamma era di lì e dunque ogni estate, sin da quando avevo solo sei mesi più o meno sino ai vent’anni, il rito familiare era di lasciare la Valle d’Aosta con armi e bagagli e scendere in Liguria della Valle d’Aosta.
Una specie di seconda vita per almeno tre mesi con papà che andava e veniva, perché non aveva come veterinario il tempo della mamma casalinga per restare in questa vacanza-villeggiatura. A Castelvecchio - diventato frazione di Imperia, dopo la soppressione del Comune nel 1923 - per tanti anni la nostra era una vita da clan attorno alle famiglie delle tre sorelle, mia mamma Brunilde, Floriana e Agostina con mariti e figli. La casa era quelle dei nonni: Emilio, uomo serio che portava il dolore di un enfant trouvé che conosceva persino chi fossero i suoi genitori naturali e Ines, marchigiana di Pergola assai saggia e sempre in movimento.
La vita trascorreva nella pigrizia estiva fra spiaggia e la collina dell’entroterra, mentre crescevamo da bambini ad adolescenti fra cugini solo maschi sino a diventare adulti, perdendo quelle estati indimenticabili. In parte tutto iniziò a cambiare nel momento in cui le sorelle vendettero la casa di famiglia e ci ritrovammo in appartamenti senza più quella situazione che avevamo vissuto come famiglia allargata.
Poi comincia a lavorare e pian piano ad avere la mia vita, di fatto non tornai più ad Imperia - se non in rari casi - per una scelta di distacco anche dalle compagnie con cui ero cresciuto, perdendone le tracce.
Ora che ci penso meglio fu una scelta saggia, che oggi mi consente ricordi vividi non ingialliti di mille avventure e zingarate, vissute di corsa e che tornano alla mente con una freschezza intatta senza quel reducismo delle retrouvailles, come si chiamano quei momenti di incontro pieni di nostalgia dopo tanti anni di separazione.
Mi sono trovato ad Imperia in queste ore per un impegno politico, arrivando in una serata dal cielo ancora dall’azzurro luminoso, in cui ho avuto poi qualche ora di tempo in parte di quei luoghi vissuti.
Questo è avvenuto ad un mese dalla morte di mia mamma. Una morte che non lascia mai indifferenti e che in qualche modo, essendo morto papà alcuni anni fa, ti colpisce perché da lì in poi, con mio fratello Alberto, siamo diventati più soli ed è una consapevolezza che acquisisci al momento del distacco, cui di fatto non si è mai pronti.
Il clima a due passi dalla spiaggia dell’infanzia era quello descritto da Enrico Ruggeri in una celebre canzone: “Il mare d’inverno è solo un film in bianco e nero visto alla TV”. Camminando in una serata ventosa sul molo della Marina di Porto Maurizio, ho vissuto in alcuni minuti un intenso flashback che mi ha riportato nel passato. Luoghi evocatori di quella parte della mia vita sono ritornati in superficie con un’emozione inattesa. Ho pensato in questa immersione pensosa a quanto sia stato fortunato ad avere questi ricordi che mi scaldano il cuore. Ciò conferma la necessità, per mai trasformarmi in un vuoto laudator temporis acti, di continuare ad accumulare nuovi ricordi.

La cultura politica

L’attuale crisi politica in Valle d’Aosta, con le dimissioni del Presidente della Regione, è l’ennesima tappa di almeno un decennio di alleanze varie fatte e disfatte e appunto di Presidenti a rapida rotazione.
In questo marasma - che addolora chiunque abbia a cuore l’Autonomia che prevede, come ricordo spesso, diritti e doveri - confesso anche la mia situazione più personale di vivo dispiacere. Non ci sono per questa situazione ricorrente di instabilità vincitori e vinti, perché chiunque faccia ed abbia fatto politica si trova catalogato in negativo, qualunque sia stato il proprio percorso personale e le cose fatte nel tempo.
Non abbozzo una difesa che mi riguardi, pur ritenendo di sentirmi la coscienza a posto e non ho voglia neppure di mettermi a snocciolare colpe o torti altrui. Quando esiste una situazione caotica e a tratti imprevedibile, bisognerebbe trovare una strada di pacificazione alla ricerca di soluzioni.
So che non è affatto facile. Io stesso ho vissuto, dentro la politica valdostana di cui mi occupo da tanti anni, momenti difficili e dolorosi, scoprendo - forse per una mia qualche ingenuità di fondo - quanto possa capitare alle tue spalle nel momento in cui occupi posti di responsabilità.
Ci sono regole del gioco che non sono sempre fatte di sincerità e di lealtà. Chi entra in politica lo sa e non bisogna mai lamentarsi a posteriori della presenza di ostacoli e trappole, che finiscono per essere normalità e non patologia.
Eppure, chiarito questo meccanismo, che è in fondo così umano e che fa dei comportamenti politici lo specchio della società con buona pace dei cittadini elettori che votano qualcuno per poi lamentarsene, esiste un livello più elevato a cui rifarsi quando necessario.
Il piano politico, che nei ruoli elettivi si impasta con l’azione amministrativa, non è una costruzione democratica astrusa, ma ha delle fondamenta su cui tutto si regge. Certo da una parte ci sono quegli intangibili valori costituzionali di cui il nostro Statuto speciale fa parte come punto di riferimento, dall’altra però ci sono idee, valori, progetti che sono il patrimonio che dà profondità alla politica.
Questo insieme è la parte più difficile, perché è definibile nella sua totalità come “la cultura politica”. È come uno zaino da portare sempre sulle spalle per non dimenticare, pieno di mille cose immateriali, in continuità - nel caso del mondo autonomista - con un fil rouge più antico di quanto si pensi.
Io appartengo a questa cultura, ci credo profondamente e penso che per fortuna non sia solo un patrimonio del passato, ma resta un lievito madre che passi di generazione in generazione e la forza sta nell’aggiungere elementi che pongano il proprio pensiero in linea con il mondo in cui si vive e che cambia con inusitata rapidità.
Volo troppo alto? Come conciliare tutto ciò con la violenza insita nelle dispute politiche, con le ambizioni personali che fremono, con le coltellate alle spalle e pure al petto?
Se questi usi e costumi della politica agiscono nel vuoto culturale tutto ciò non porta da nessuna parte. Si resta spaesati e si perdono i punti di riferimento, scivolando in una sorta di campo minato che paralizza ogni buona intenzione.
Ricordo il detto Homo omini lupus (l’uomo è lupo per l’altro lupo) e l’altro Bellum omnium contra omnes (guerra di tutti contro tutti): entrambi in latino usati da Hobbes, riprendendoli da tanti precedenti. Espressioni che fotografano la realtà, nel rischio di vivere nella rozzezza di una sorta di stato di natura e ciò avviene quando la politica perde la bussola della cultura politica.
Per questo predico la reunification: non per motivi sentimentali ma politici.

L’energia dei giovani

Ogni volta che vado nelle scuole nelle mie attuali mansioni politiche l’incontro con bambini e ragazzi è una sferzata di energia. Questo avviene - non appaia un paradosso - più piccoli siano i bimbi con quel loro stupore rispetto anche a quanto a noi appare come ormai scontato.
Ha scritto Alphonse Daudet: ”I poeti sono coloro che vedono ancora il mondo con gli occhi di un bambino”.
Mi capita spesso di pensare - scusate la digressione - alla ragione per la quale oggi leggo meno poesie di quanto facessi nella mia giovinezza e ogni volta mi riprometto di farlo per rivedere il mondo anche da occhi diversi da quanto mi sia abituato nella routine quotidiana.
Ma ritorno agli incontri vivificanti con i giovani: come non pensare - al di là della nostra vita - che saranno loro le generazioni future e quanto molte delle scelte di oggi peseranno su di loro?
Mi viene in mente un accorato appello di quello scienziato e filosofo che fu Albert Einstein: “O Giovinezza: sai che la tua non è la prima generazione ad aspirare a una vita piena di bellezza e di libertà? Sai che tutti i tuoi antenati sentivano quello che senti oggi – e poi furono vittime dell'infelicità e dell'odio?
Sai che i tuoi ardenti desideri si realizzeranno soltanto se saprai amare e capire uomini, animali, piante e stelle, così che ogni gioia sarà la tua gioia e ogni dolore sarà il tuo dolore?”
Mi capita spesso di pensare a come sarà la Valle d’Aosta di domani e scorrendo la nostra Storia si osserva con facilità come ci siano stati, come dappertutto, degli alti e bassi che hanno impattato sulla comunità delle diverse epoche.
Non esiste purtroppo una logica di crescita continua e a momenti d’oro sono seguiti momenti difficili. Pensiamo alla tomba economica, culturale e morale causata dal fascismo e la risalita grazie all’Autonomia con quella necessità di mantenerla e aumentarla, nel limite del possibile.
Null’altro come questo cammino di 70 anni dimostra che cosa esattamente significhi il passaggio di testimone da una generazione all’altra. Penso a mio nonno e a mio papà e alla vita e all’alberto ancora più antico della mia famiglia e allo sviluppo di nuovi rami rappresentato dai miei figli.
Questa continuità che ha radici e virgulti che mostrano come il presente sia quel passaggio fugace che ci proietta verso l’avvenire ed è per questo che dobbiamo creare le condizioni che consentano ai giovani di oggi di guardare al futuro con tranquillità.
Sfugge ogni tanto, negli egoismi odierni, questa logica e lo vediamo con le scelte coscienti di chi, certo legittimamente, sceglie di compartecipare a quel gelo demografico che colpisce duramente con culle sempre più vuote.
Invece, come non mai, avremmo bisogno di avere nascite che diano solidità alla comunità valdostana. Certo non in una logica di chiusura, ma consci di come esista un patrimonio di civiltà da mantenere e sviluppare anche naturalmente con qualunque apporto esterno.
Ma se una pianta si secca e diventa improduttiva, buona per essere legna da ardere, è una perdita se la metafora è applicata alla vita umana da cui non ci si ripiglia più. Invece, quel che conta è il calore vivente della giovinezza, che si propaga verso la vita adulta.
Scriveva George Bernanos: “È la febbre della gioventù che mantiene il resto del mondo alla temperatura normale. Quando la gioventù si raffredda, il resto del mondo batte i denti”.
Bisogna evitare questo raffreddamento.

Le intercettazioni e il loro uso

Fare il Ministro di Grazia e Giustizia in Italia è un mestieraccio, peggiorato se chi se ne occupa pro tempore decide di proporre delle riforme in profondità per migliore un sistema giudiziario che ha accumulato nel tempo molti problemi di funzionalità.
Può Se n’è accorta l’ultimo Ministro in ordine di tempo, Marta Cartabria, lo sta vivendo ora sulla sua pelle l’attuale Ministro in carica, Carlo Nordio. Diversi per curriculum e per stile, i due sono accomunati dall’insolito destino di venir criticati non appena toccano qualche nervo scoperto in continuità con i loro predecessori, se riformatori.
L’ultima questione in ordine di tempo è la questione delle intercettazioni telefoniche e certe restrizioni nel loro uso, espresse da Nordio, lo hanno portato alla crocifissione. In parte se lo è meritato, in altra parte c’è stata una forte strumentalizzazione del caso.
Personalmente mi aggrego a quanto scritto da Giuliana Ferrara sul suo giornale, Il Foglio: “Vero che le intercettazioni telefoniche e ambientali sono lo strumento perfetto per le indagini di qualunque tipo; vero anche il collegamento tra gli ascolti legali su materie e in ambiti diversi dalla diretta area mafiosa, che però portano a risultati nello smantellamento della criminalità organizzata. Sminuire con le chiacchiere il fenomeno non è garantismo giuridico, è impresa ciarliera e dissennata”.
Sin qui neanche una grinza. Giusto usare (non abusare) delle intercettazioni, ma esiste una precisazione necessaria che viene aggiunta: “Ma accettare la gestione mediatico-giudiziaria delle trascrizioni di conversazioni e scambi, così come si presenta da parecchi anni e così come tende a evolvere con tecniche sempre più sofisticate di ascolto, è corruzione della natura del processo penale, indagini comprese come suo fondamento originario, è la fine di ogni tipo di garanzia per il cittadino e l’inizio di un mondo fosco in cui il sospetto, come diceva un celebre gesuita di Palermo, è l’anticamera della verità e non, come dovrebbe essere, di un accertamento fondato su prove testimoniali e documentali da portare e verificare nel dibattimento”.
Insomma: le intercettazioni sono utili e necessarie, ma ogni disegno accusatorio ha bisogno di ulteriori elementi.
Nordio dovrebbe essere più parco di parole, secondo Ferrara: “Direi che Carlo Nordio, dal momento in cui è passato dalla funzione di commentatore, nella veste di magistrato in pensione, alla funzione di ministro della Giustizia, avrebbe dovuto concentrare su questo il suo raggio d’azione, limitando chiacchiere ripetitive d’opinione e esternazioni a raffica. Non è successo, e ne scaturiscono problemi per tutti, dopo che l’inchiesta di Bruxelles ha colpito fenomeni illegali di lobbismo cash con gli ascolti autorizzati, e sempre gli ascolti hanno condotto alla cattura di un boss latitante da trent’anni. Certe volte si ha la sensazione che i garantisti, quorum ego, considerino la materia della loro riflessione e iniziativa come una battaglia persa in partenza, lavorando attivamente per i loro cocciuti avversari giustizialisti; e se lo scontro è tra i poteri di intercettazione della polizia giudiziaria e dei pm, con il corollario enfatico della libertà di stampa e informazione, e le garanzie come generica tutela della privacy, bè, non c’è partita, anche un bambino lo capisce di primo acchito”.
Infine il punto, che è il rischio di uno strumentale uso giornalistico delle intercettazioni e lo abbiamo visto e vissuto, ma detto da Ferrara, che è anche giornalista e direttore di lungo corso colpisce: “Nei sistemi con una cultura giurisdizionale solida, e in cui vige il processo accusatorio, e non accusatorio all’italiana, si intercetta ma non si pubblica, se non in casi rarissimi e con una tutela strenua della privacy, perché la libertà di informazione è parte di una trama di diritti riconosciuti all’individuo e non una mistificazione pomposa, e il risultato degli ascolti è sottoposto, per diventare prova processuale seria, a una teoria di condizioni che subordinano la tecnologia alla procedura di accertamento, alla prova come fatto e non come ascolto a raggiera, alla capacità di stabilire una verità giuridicamente fondata e non di squadernarla, la Verità, con la tecnica gesuitica inquisitoriale della sua anticamera di sospetti. Non è poi così complicato.
Il fatto dirimente è la cultura della giurisdizione, l’idea che l’accusa è una cosa seria e non un fuoco meschino di sospetto, un grossolano godimento della speranza di sputtanare gli altri, un modo di risolvere controversie politiche e di immagine, uno strumento di lotta politica. Decisivo è il percepire i magistrati e la polizia giudiziaria come organi che lavorano su ipotesi da verificare al di là di ogni ragionevole dubbio, secondo il modulo e il costume del giusto processo, e giudici separati in carriera, addirittura elettivi nel sistema americano, che procedono e mandano solo e soltanto nei casi in cui possono superare la prova del dubbio. Il ministro della Giustizia di un governo che abbia vero interesse a riformare la materia dovrebbe concentrarsi su questo, per combinare efficacia delle indagini e massimo garantismo giuridico. E chi si vuole, si dice, affetta o è convintamente dalla parte delle garanzie per il cittadino, compresa la garanzia di una accettabile incisività delle indagini, del dibattimento e del giudizio finale, non dovrebbe girare in tondo, come avviene da noi da anni, alle intercettazioni, dovrebbe riformare la materia su cui le tecnologie di ascolto nei casi di ipotesi criminale hanno la loro influenza. Ci vorrebbe dunque un’altra classe dirigente, ci vorrebbe un altro paese, ci vorrebbe un’altra cultura delle libertà. Sì, è quello che ci vorrebbe”.
Ho citato tutto l’articolo sino in fondo, perché meritevole di essere letto e anche perché personalmente mi trovai su di un giornale una mia intercettazione (illegittima perché ero deputato), senza nessun reato possibile nelle parole dette nella conversazione, ma con l’unica logica - che fallì - di mettermi in chissà quale cattiva luce. Cose che non devono capitare.

La tecnologia rivoluzionaria

Capisco che sarò ripetitivo ma questa storia dell’Intelligenza Artificiale mi solletica e chissà che un giorno certi ragionamenti che si fanno oggi sui pericoli non saranno considerati ridicoli come i pregiudizi dei luddisti che all’inizio del XIX combattevano la meccanizzazione nelle industrie.
Personalmente, per altro, ho vissuto l’inizio dell’ informatizzazione e la digitalizzazione invadente con amici che predicavano disastri come preconcetti.
Ho letto il direttore della Repubblica Maurizio Molinari in un suo editoriale sul tema, che traccia il solco in modo interessante su di una novità che ho già testato: “ChatGPT è nata lo scorso 30 novembre, parte di un più ampio insieme di tecnologie sviluppate dalla start up OpenAI di San Francisco. Disponibile come una application, è accessibile anche gratis online da chiunque abbia una connessione ed è disegnata per rendere possibile a tutti l'accesso all'intelligenza artificiale. Solo nei primi cinque giorni di vita è stata adoperata da oltre un milione di utenti unici. La sua straordinaria capacità di seduzione si deve al fatto che funziona come una conversazione digitale scritta e dunque chiunque può fare qualsiasi domanda ricevendo la risposta nell'arco di pochi secondi”.
E poi ne spiega le caratteristiche: “Si può usare ChatGPT non solo per avere repliche assai più dettagliate e immediate rispetto a Google - il più diffuso motore di ricerca digitale sul Pianeta - su ogni singolo tassello della conoscenza umana ma anche per creare dal nulla veri e propri testi inediti: dalla descrizione, in rime, della Roma di oggi da parte di Dante alla conversazione sui diritti umani fra Josef Stalin e Barack Obama, fino a nuove formule di fisica”.
Una novità che negli Stati Uniti divide chi pro e chi contro: “L'asprezza di toni ed argomenti su entrambi i fronti si deve al fatto che, per chiunque, la decisione su ChatGPT sarà identitaria perché l'accesso libero all'intelligenza artificiale è un punto di non ritorno nella trasformazione del nostro sapere.
Da qui la decisione del Dipartimento all'Educazione della Città di New York che ha aperto lo scontro decretando, a inizio mese, il divieto assoluto di accesso di ChatGPT alle scuole della più grande metropoli degli Stati Uniti per "il timore di un impatto negativo sull'apprendimento degli alunni" e della "diffusione di contenuti né sicuri né accurati nelle nuove generazioni". Ovvero, questa app può incentivare al massimo la capacità di copiare dal web da parte degli alunni così come può spingerli a creare falsi storici, letterari e scientifici in quantità tali da far apparire le attuali fake news una sorta di divertimento adolescenziale”.
Ma attenzione a chi parteggia a favore: “Ma la levata di scudi da parte di alcuni dei più importanti distretti scolastici del Paese ha trovato sul fronte opposto la determinazione di Microsoft, fra i primi investitori nel progetto della Open AI di Sam Altman ed Elon Musk, che ha risposto stanziando un pacchetto di 10 miliardi di dollari al fine di portare sul terreno dell'intelligenza artificiale la competizione con Google e Amazon, che già usano questa tecnologia, rispettivamente, per le direzioni sulle mappe e per consigliare acquisti alla clientela.
In particolare, Microsoft vuole rendere accessibile ChatGPT dal proprio motore di ricerca Bing che fino a questo momento ha solo una minuscola frazione di un mercato globale dominato da Google. Basta immaginare che una ricerca su Bing potrà dare all'istante risposte confezionate dall'intelligenza artificiale - dalla soluzione di formule matematiche alla scrittura di testi - per arrivare alla conclusione che il quasi monopolio di Google potrebbe essere sulla via del tramonto. E non è tutto perché Microsoft vuole incorporare la tecnologia di ChatGPT anche dentro Word, Excel e PowerPoint promettendo di rivoluzionare il modo di scrivere, operare e creare online per miliardi di utenti. Inclusi gli appassionati di arti creative perché fra le opzioni possibili c'è la realizzazione di quadri e disegni di ogni tipo”.
Bing, che pure avevo testato, oggi conta poco, ma chissà ora cosa potrebbe succedere. Osserva Molinari che bisogna imparare, anche nelle scuole, come già avviene con i motori di ricerca, insegnare l’uso dell’avvenire dell’Intelligenza Artificiale. Lo stesso Direttore riporta correttamente qualche inquietudine: “Dunque, prima iniziano ad affrontarla, conoscerla, esplorarla, meglio è. Da qui l'editoriale con cui Bloomberg si spinge fino a chiedere se ChatGPT "assomigliando così tanto alla magia" non indichi forse "l'inizio della rivoluzione dell'intelligenza artificiale" con cui tutti dovremo fare i conti.
Ma è forse proprio questo il pericolo maggiore perché, come scrivono sul New York Times lo scienziato dei dati Nathan Sanders e il tecnologo per la sicurezza Bruce Schneider, "l'intelligenza artificiale è destinata a sostituire le menti umane" con il risultato che minaccia di stravolgere radicalmente non solo come apprendiamo ma anche come scegliamo e dunque anche votiamo. Fino al punto di "porre seri rischi alla democrazia" per il semplice fatto che a contare di più saranno non le parole, le opinioni dei singoli ma le campagne di propaganda sui temi più imprevedibili generate da anonimi bot, inondando le nostre menti in maniera assai più pericolosa e sofisticata delle odierne fake news”.
Conclusione che condiviso in pieno perché non sono i divieti che risolvono le questioni: “Ecco perché la discussione aperta in America sulla app ChatGPT porta anche dentro le nostre case l'interrogativo urgente su come affrontare, gestire la più rivoluzionaria delle tecnologie in arrivo”.

Il dialogo contro la collera

Sono arrabbiato che in questa fase storica, così indeterminata e piena di interrogativi per la Valle d’Aosta, proprio nella politica - che da noi è in fondo un piccolo hortus conclusus - ci si divida con facilità. E ci si affronti di conseguenza e troppo spesso con toni forti e lividi in casa propria e gli uni contro gli altri.
in certe circostanze - lo dico anzitutto a me stesso - bisognerebbe fare quanto di più semplice: disputarsi in modo anche feroce per trovare poi un punto di mediazione, perché a questo serve la politica. Da sempre in democrazia questa dovrebbe essere una specie di battaglia simulata a colpi di una dialettica che dovrebbe servire - dentro e fuori dalle istituzioni - per non farsi troppo male ed avanzare nella soluzione dei problemi, senza avvelenare i pozzi.
Ed è giusto affrontarsi anche in modo deciso e vivace, ma con qualche limite ragionevole per evitare punti di non ritorno, quando il dialogo diventa impossibile e si alzano i toni con troppi decibel.
Capiamoci subito: non faccio la morale a nessuno, non avendone l’autorità. Io sono in certi momenti un passionale che si arrabbia e mi scappa pure qualche parola di troppo, quando mi saltano i nervi.
Mentre ragionavo su cosa scrivere sul tema che cerco di affrontare, ho letto, per caso, su Le Monde una delle mie rubriche preferite della psicoanalista Claude Halmos, che si occupava proprio del fatto che la collera è un fatto normale e chi pensa di estirparla non ne capisce l’utilità in certi casi.
Non mi dilungo e cito solo due frasi: “La colère est l’expression d’une révolte face à des paroles ou des actes qui, outre qu’ils sont douloureux, ont pour ceux qui les subissent, parce qu’ils les jugent anormaux ou injustes, valeur d’agression”.
E ancora: “Quoi qu’il en soit, la colère face à une agression est – on ne le dira jamais assez – une réaction non seulement normale et légitime mais utile, et parfois même vitale”.
Ma certo non può essere uno stato permanente o un alibi per giustificarne un uso continuo che non si trasformi in qualcosa di diverso e più costruttivo. Bisogna trovare una strada per riprendere il filo interrotto e in politica questo bisogna farlo.
Mi riferisco al mio mondo autonomista, dove vivono personalità diverse che dovrebbero dimostrare, anche dopo liti e incomprensioni muscolari e borderline, le ragioni dello stare insieme. So che non è per nulla facile farlo e non predico un buonismo fasullo, ma ragiono semmai su doveri importanti di cui bisogna essere portavoce. A maggior ragione quando si è eletti o si ha un ruolo riconosciuto di autorevolezza nella propria comunità.
Talvolta poi bisogna riflettere sull’eco delle proprie polemiche e in certe circostanze vale la saggezza popolare, tipo “i panni sporchi si lavano in famiglia”, prima di affrontare polemiche pubbliche con certi effetti devastanti.
Così è per la famosa e ormai quasi mitologica reunification dell’area autonomista valdostana. Quando sembra vicina la riva per l’approdo in un porto sicuro, burrasche improvvise di varia natura gonfiano il mare e le onde rimandano al largo. Resto, tuttavia, ottimista e ritengo che il momento sia indifferibile.
Vedremo gli scenari in corso e i ruoli esatti di tutti coloro che a vario titolo calcano la scena. Bisogna accordarsi su di un copione e non recitare a soggetto, cioè sul filo dell’improvvisazione.

L’emigrazione valdostana che cambia

Sarò in queste ore travagliate e persino dolorose della politica valdostana all’Arbre de Noël de Paris, momento di festa delle associazioni dell’emigrazione valdostana. Ci sono stato per la prima volta nel 1987 e ho visto negli anni successivi – ci sono stato spesso – il lento declinare delle presenze per ovvie cause. Più passano le generazioni e meno il richiamo delle radici incide sui più giovani. Spiace che questo avvenga, pensando a questo fenomeno così importante, che nelle diverse epoche, ha creato comunità valdostane in diverse parti del mondo con epicentro proprio Parigi. Si emigrava per cercare fortuna o, ad esempio in epoca fascista, perché si era dissidenti politici,
Racconta il sito dell'Union Valdôtaine de Paris: "On estime à 500.000 le nombre de Français d'origine valdôtaine, soit quatre fois la population actuelle de la Vallée d'Aoste. Une émigration valdôtaine ancienne s'est d'abord tournée vers l'Allemagne, depuis la vallée de Gressoney où la pratique des dialectes alémaniques de cette zone walser facilitait une telle destination. Elle a atteint son apogée au milieu du XVIIIe siècle et s'est prolongée durant une bonne partie du XIXe siècle. Mais la principale émigration valdôtaine s'est produite vers la France, la Suisse, les Etats-Unis et l'Amérique du Sud dès le milieu du XIXe siècle et jusque dans les années 1950. À la fin du XIXe siècle, la Vallée d'Aoste va vivre des transformations radicales sur le plan économique et social. La politique libérale voulue par Cavour va engendrer la crise de l'industrie valdôtaine, représentée principalement par les secteurs miniers et métallurgiques. Elle va aggraver, par effet, la situation déjà difficile des zones agricoles. Entre 1862 et 1911, plus de vingt mille Valdôtains, soit un cinquième de la population totale, sont obligés d'abandonner définitivement leur patrie pour chercher fortune ailleurs. Malgré le chemin de fer qui relie depuis 1886 la Vallée d'Aoste à la plaine du Pô, peu de ces migrants songent à l'Italie. Ils préfèrent emprunter, à pied, les anciens cols alpins pour se rendre en France ou en Suisse Romande, les deux pays frères. Beaucoup d'entre eux ont rendu définitive l'émigration saisonnière qui avait toujours caractérisé l'hiver valdôtain dans des métiers comme ramoneur, sabotier ou pour effectuer les saisons de fromage. La destination principale est la France et en particulier la périphérie parisienne où l'on dénombre au début du XXe siècle dix à douze mille Valdôtains. Ainsi, des villes comme Levallois-Perret concentrent une forte population d'immigrés venus de Vallée d'Aoste. Des sociétés de solidarité sont créées: Union Valdôtaine de Paris en 1897, Union Valdôtaine de Lausanne en 1904. Certains fondent des associations d'assistance mutuelle dont le réseau est tellement développé qu'à New York, par exemple, un Valdôtain pouvait toujours trouver une chambre en location auprès de l'un de ses compatriotes".
E’ un fenomeno che in questi ultimi anni si sta sondando più in profondità e c’è pure chi, in diversi Paesi del mondo, ha scoperto grazie al Web le proprie origini e “riscopre” la Valle da cui partirono i propri avi.
Quando mi occupavo dei Programmi Rai per la Valle d’Aosta, il regista valdostano di Parigi Didier Bourg ha ricostruito e il lavoro è ancora in corso una parte di mappatura con protagonisti che andavano intervistati e di cui bisognava recuperare materiale iconografico, visto il rischio che una parte del patrimonio orale, ma anche appunto materiale (pensiamo alle fotografie), rischiasse di scomparire, rendendo impossibili certe ricostruzioni.
Segnalo che dedicammo anche una trasmissione radiofonica curata da Nathalie Dorigato per "Rai Vd'A", intervistando per telefono esponenti vari della nuova emigrazione in giro per il mondo. Si è trattato prevalentemente di giovani che scelgono, per studi o per professione, di lasciare la Valle, installandosi nei diversi Continenti e rappresentano una nuova forma di emigrazione di cui in molti si stanno occupando, come la ricercatrice Michela Ceccarelli, che ha scritto sul tema dei libri e ci sono state conferenze e incontri organizzati dalla Fondation Chanoux.
Personalmente credo che sia un filone interessante, ma diverso dall’emigrazione storica, che ha avuto caratteristiche ben diverse sotto il profilo sociale ed economico. Questo non esclude di immaginare la creazione strutturata di una vera e propria rete di questi valdostani finiti all’estero, il cui apporto di idee e di proposte a beneficio della terra natale potrebbe essere utile ed interessante e per fortuna i problemi di comunicazione grazie al Web non ci sono più rispetto al passato.

Il fil rouge dell’Autonomia

È ormai evidente, leggendo tutti i giornali di qualunque colore politico, che per loro il messaggio contro l’autonomia differenziata, prevista per le Regioni a Statuto ordinario dall’articolo 116 della Costituzione, si sia affermato come verità indiscutibile. Tutto viene presentato come qualcosa di stravolgente, che attenterebbe all’unitarietà dello Stato e sarebbe la peggiore delle rivoluzioni. Le grida più forti vengono dal Sud, dove urla e strepiti hanno accolto ogni tentativo di una norma che dev’essere applicata molto semplicemente perché scritta in Costituzione. Anche se ben sappiamo quante parti di questa nostra Costituzione siano rimaste inespresse in barba alla retorica adoperata per la sua esaltazione periodica.
Intendiamoci: le materie dell’autonomia differenziata sono limitate e potranno essere disciplinate senza immaginare chissà quale sconvolgimento. Ma, come spesso capita, basta che uno lanci l’allarme, anche se infondato, e molti pecoroni si metto in fila per seguirlo e si gonfia la valanga durante la caduta.
Chi ha studiato quelle modifiche apportate nel 2001, su cui io stesso ho lavorato alla Camera, sa bene che si tratta per lo Stato di rinunce non sostanziali e facilmente stoppabili nel caso di improbabili, anzi impossibili derive. Invece la logica del “sbatti il mostro in prima pagina” ha raggiunto vette ridicole per chi conosca la materia. Ma ormai conoscere non conta…
Il circo dell’antiregionalismo è fatto di propaganda e dimostra con facilità che l’Italia resta un Paese che non capisce il regionalismo e finge di avere uno Stato solido ed efficiente che garantirebbe meglio il cittadino delle forme di democrazia locale. Lo si è visto con la logica statalista all’epoca della pandemia e con la gestione centralista disastrosa del famoso PNRR.
Così di fatto si butta nella pattumiera la riforma del regionalismo del 2001, che rafforzava le Regioni, immaginando anche questa nuova autonomia differenziata. Riforma pian piano indebolita nei fatti, svilendo quei miglioramenti anticentralisti che erano avvenuti e che in molti casi sono rimasti inespressi.
Intanto il regionalismo si è indebolito e questo è avvenuto anche con l’elezione diretta dei Presidenti di Regione, che con la logica cesaristica della loro investitura popolare hanno svuotato il ruolo dei Consigli regionali e in molti casi si sono occupati più di consolidare la loro immagine, spesso per un balzo verso la politica nazionale, che a coltivare il giardino del regionalismo.
Il tema del possibile federalismo è persino scomparso dal dibattito e oggi si mercanteggia sull’autonomia differenziata, che nulla ha a che fare con il federalismo.
Anche nella nostra piccola Valle d’Aosta del federalismo si parla meno, affondati come siamo nelle solite querelles mai così sanguinose, cui ormai abbiamo fatto il callo. Così non si ragiona più abbastanza sulle norme di attuazione da approvare per modernizzare il nostro Statuto e a una sua riforma complessiva, spingendo sulla logica dell’intesa con lo Stato.
Sarebbe ora, se si riesce a non navigare a vista e a cadere nel vecchio rischio del “divide et impera”, di rilanciare la discussione sul regionalismo in Italia e da noi su di un nuovo Statuto in questo contesto. Ma per farlo ci vuole solidità e, quanto ancora più difficile, capire il perché della necessità di farlo.
Pian piano - se non ci si fa attenzione - si potrebbe perdere il fil rouge delle ragioni dell’Autonomia e del suo progressivo consolidamento e miglioramento. Sino al rischio - facciamo gli scongiuri - di smarrirlo del tutto.

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