blog di luciano

Guardare avanti

Molti commentano la politica valdostana. Lo fanno perché siamo in un passaggio delicato: in gioco c’è la Legislatura e dunque chiunque abbia timore dell’ennesimo fallimento cerca di capire cosa capiterà.
Il conto alla rovescia già partito potrebbe, senza accordi alcuni, sfociare in elezioni anticipate con un harakiri del tutto insensato, se non per chi - fuori dal Consiglio regionale - aspira legittimamente a rientrarci prima del dovuto.
Qualcuno mi rimprovera di essere silente. Cosa dire, se non compartecipare al tentativo di rimettere a posto i cocci, di cui sono solo un pezzo? Ci sono momenti in cui bisogna astrarsi e guardare più avanti che al solo presente.
Il rilancio della réunification mi conforta, ma è ora di vedere le carte e chiudere il cerchio senza indugi e ciò prescinde dalla contingenza e serve per non perdersi in logiche paludose. Le ambizioni personali sono uno dei motori della politica, ma sullo sfondo campeggia il bene collettivo senza il quale ogni sforzo personale sarebbe poca cosa.

Certe solitudini

Mi assilla da sempre un problema che alla fine non so bene come definire. Si tratta - e ne ho scritto spesso - della difficoltà di capire la contemporaneità. Facile analizzare quanto avviene se lo si fa a bocce ferme, molto più difficile capire, vivendolo, dove stiamo esattamente andando.
Mi riferisco in particolare ai cambiamenti sociali, che si affermano come un fiume in piena da cui veniamo travolti, senza essere in grado di pilotare in qualche modo il fenomeno. Colpisce oggi, come se fosse un pugno in faccia, questa storia delle nuove solitudini e del restringersi progressivo della socialità. Il che è ovviamente paradossale, pensando a certe occasioni per stare assieme - come in Valle d’Aosta la recentissima Foire de Saint-Ours - che è occasione ricchissima per incontrarsi e vivere momenti collettivi. Parrebbe essere, tuttavia, come un lampo di luce nel buio di un mondo in cui tendiamo a chiuderci.
Ne ha scritto Aldo Cazzullo, giornalista del Corriere, che si sta affermando sempre più come attento osservatore nella sua vasta attività di scrittura, che invidio e mi domando dove trovi il tempo.
Ossserva Cazzullo, rivolgendosi al suo interlocutore: ”Oggi la vera rivoluzione è il telefonino, che cambierà l’essere umano e le sue relazioni più del fuoco e della ruota. Non si lasci ingannare dai capannelli fuori dai bar con il bicchiere in mano. Oggi i ragazzi sono drammaticamente soli. Faticano a trasformare i rapporti virtuali in rapporti reali. Hanno paura della fisicità. Per una minoranza che affronta il sesso in modo compulsivo, con mentalità da collezionista e senza coinvolgimenti sentimentali o almeno emotivi, ci sono moltissimi giovani che non riescono a trovare un partner o anche solo un amico”.
Questo chiudersi non è nuovo e concordo sulla successiva ossservazione: ”Il degrado dei rapporti umani era cominciato prima della rivoluzione digitale. Quante persone nuove conosciamo ogni anno? Quante persone lasciamo entrare nella nostra vita? Poche, temo. Ormai, oltre una certa età, la vita ce la siamo giocata. Ma chi invece la vita, la famiglia, il futuro se lo deve ancora costruire? Sul Corriere Walter Veltroni ha scritto della solitudine come dimensione esistenziale di quella che si autodefinisce «l’ultima generazione». Leonard Berberi ha scritto tre mesi fa un’inchiesta sugli amori nati su Tinder, che non serve solo a organizzare incontri casuali ma a costruire storie che durano nel tempo. La Rete rappresenta senz’altro una grande opportunità, certo più rapida delle antiche agenzie matrimoniali. Però l’impoverimento della vita reale è una delle cause del disagio psicologico che segna le giovani generazioni”.
Non voglio apparire pessimista, ma concordo su questo fatto di una progressiva chiusura, che genera disagio e malessere da una parte e dall’altra riduce la socialità a cerchi più ristretti. Il mondo virtuale, fatto cioè di contatti senza vicinanza e fisicità, appare come grottesco rispetto alla natura umana come si è costruita nel tempo.
Vedo mio figlio, quello più piccolo che fa le scuole medie (pardon, scuola secondaria di primo grado!). che vive l’esperienza scolastica come una realtà fatta di amicizie rarefatte, pur essendo lui per natura un compagnone.
Eppure è quella una cartina di tornasole, pensando alla socialità della mia generazione, di quanto sta cambiando in peggio il nostro modo di vivere. Resto certo che il nostro essere “animale sociale” (come scrisse il filosofo greco Aristotele ne IV sec. a. C.) prevarrà in qualche modo.

Dire quel che si pensa

L’anzianità di servizio in politica mi consente una certa serenità in più nell’esprimere il mio pensiero, quando lo ritengo utile. Chi mi segue da tempo lo sa: se devo esplicitare una posizione non mi tiro mai indietro. Trovo sia giusto dire quel che si pensa senza troppi giri di parole e senza peli sulla lingua, ma la franchezza diventa ancora più forte quando hai scoperto nel tempo - attraverso le esperienze vissute - quanto dire pane al pane e vino al vino sia una dote e non un difetto. Perciò se il passare degli anni ha un senso, questo vissuto serve a non dover scegliere la strada che aborro di giocare con le parole per non esporsi.
Può essere che questa spontaneità - chiamiamola così - non sempre mi abbia portato bene. Osservo con curiosità, perciò, ma non condivido l’attitudine, di chi mantenga atteggiamenti prudenti o peggio silenti e si esprima poco sulle cose per non dispiacere a nessuno. Ma questo essere né carne né pesce per piacere a tutti e non avere guai per quel che si pensa non mi appartiene affatto. Somiglia a certo mimetismo degli animali che serve per evitare problemi con chi ti vuole fare del male e rischia - non appaia un paradosso - di sfociare nel camaleontismo e cioè cambiare le opinioni a seconda delle circostanze, come se nulla fosse. Sono equilibrismi rischiosi, perché prima o poi chi ondeggia viene beccato in fallo.
Esiste questa espressione francese suggestiva, che è “langue de bois”, che qualcuno in italiano traduce - ma lo trovo artificioso - con “politichese”.
In realtà questa potrebbe essere una definizione accettabile: “langage coupé de la réalité ; message intentionnellement truqué ; parole qui ne répond pas à la question posée ; manipulation par un message truqué ; discours vague et imprécis qui vise à travestir la réalité”.
Su di una rubrica de Le Figaro che scava nelle espressioni, così se ne chiariscono le origini:: “Il apparaît cependant certain qu'elle ait bourgeonné dans les pays de l'Est, «notamment en Russie tsariste où on l'appelait ‘‘langue de chêne'' pour désigner le langage bureaucratique particulièrement pesant et rigide de l'administration, puis en Union soviétique», explique Gilles Guilleron dans son livre Langue de bois (First).
Ma la questione è ancora più ramificata anche in altre lingue: “L'expression a étendu ses racines jusqu'en Pologne: nowo mowa, langue de bois, et son synonyme, jezyk propagandy, langage de propagande. On retrouve cette idée en Chine sous le terme «langue de plomb» et en Allemagne, «langue de béton». Des matériaux dans lesquels on retrouve «les mêmes pesanteurs et rigidités, caractéristiques de cette langue dont la finalité semble être d'extraire des mots tout signe de vitalité, d'invention» “. Un piattume insulso.
È giusto rimarcare come, su impulso di un’attitudine americana, oggi - spesso per non dire come la di pensi realmente su di un certo tema - ci si nasconda nella logica del “politicamente corretto”, che tende a ingessare ogni discussione nel nome di principi intangibili. Modo di comportarsi - lo scrivo scherzosamente - che si sposa con il “democristianismo” (scusate il neologismo orrendo) e cioè quello stare “entre les deux” per non dispiacere a nessuno. Ponziopilatismo, si potrebbe aggiungere.
Il che beninteso non ha nulla a che fare con l’intestardirsi quando su di un punto quando gli elementi che si acquisiscono dimostrano il contrario. Sarebbe la famosa “onestà intellettuale”, che è più o o
l’atteggiamento di correttezza e lealtà che caratterizza chi riconosce, senza farsi condizionare da pregiudizi soggettivi o di parte, la consistenza reale di un fatto o di un’idea, un’opinione, un’affermazione altrui.
Insomma: dico sempre quel che penso, ma questo non deve mai precludere, per partito preso, la discussione con chi non la pensa come me e farne, se il caso, tesoro. Ma alcuni - questo è davvero il peggio - non si esprimono anche in politica per poter tenere i piedi in più scarpe e l’esercizio resta ardito per chi lo fa e pure per le loro estremità.

Alla ricerca degli alieni

Nulla come l’epopea dell’uomo nello spazio e poi sulla Luna, di cui ho vissuto gran parte come spettatore stupito e a tratti ammirato, mostra in modo evidente lo spirito di avventura della razza umana. Finite le grandi scoperte e la pulsione verso l’ignoto sulla Terra, lo sguardo si è rivolto al cielo.
Prima i libri di fantascienza (spesso incredibilmente visionari) e poi i film con il medesimo soggetto hanno inseguito una figura mitica: l’extraterrestre, all’inizio denominato marziano, oggi diventato l’alieno.
Esiste pieno il mondo di persone che dicono di averli visti o persino di essere stati rapiti sui famosi dischi volanti, ci sono sette che sostengono di essere in contatto con loro e alcuni specificano che alieni (rettiliani) sono già fra di noi, ci sono seri scienziati che spiegano che non si capirebbe perché nello spazio più profondo non ci dovrebbero essere forme di vita intelligenti.
La penso esattamente come questi ultimi e ogni tanto mi perdo in certi misteri, indagati sin dall’antichità, su questo nostro mondo e su di noi che ci viaggiamo sopra e sul significato dei confini sempre più larghi di quanto scorgevamo prima con i telescopi e oggi con satelliti, che indagano le profondità delle galassie più lontane e chissà che cosa ci sarà sempre più in là da scoprire. Ai posteri l’ardua sentenza.
A supportare questa curiosità che coltivo, ho letto un articolo su Internazionale di Chiara Dattola sui messaggi da tempo inviati ben oltre le frontiere terrestri alla ricerca di interlocutori che rispondano a nostre sollecitazioni.
Così esordisce: “Quando Jonathan Jiang era bambino, suo padre gli raccontò che alcuni astronomi avevano mandato un messaggio nello spazio sperando che arrivasse agli alieni di una lontana galassia. “Io non sono d’accordo”, gli disse anche. “Il testo avrebbe dovuto essere approvato dagli abitanti della Terra”. Il messaggio, inviato nel 1974 dal radiotelescopio di Arecibo, a Puerto Rico, raggiungerà l’ammasso globulare di Ercole (M13) tra venticinquemila anni.
Ovviamente non sappiamo se laggiù ci sono forme di vita aliene. Sappiamo però che la maggior parte delle stelle della nostra galassia ha dei pianeti, molti dei quali potenzialmente abitabili. Quindi è possibile che ce ne sia almeno uno con forme di vita intelligenti”.
Più avanti spiega: “Abbiamo cominciato a pubblicizzare la nostra presenza nello spazio un secolo fa, con la diffusione della radio. A partire dagli anni cinquanta è stata la volta della tv. “I primi programmi tv hanno raggiunto finora più di diecimila stelle”, dice Dan Werthimer, un radioastronomo dell’università della California a Berkeley. “Le più vicine hanno già visto I Simpson”.
Nel 1962 gli scienziati sovietici inviarono tre parole in codice Morse verso Venere: mir (pace), Lenin e Urss. Il tentativo successivo, quello ricordato da Jiang, era più ambizioso. Nel 1974, infatti, gli astronomi del radiotelescopio di Green Bank, nel West Virginia, inviarono il primo messaggio esplicitamente rivolto agli alieni. Noto come messaggio di Arecibo, era diretto all’ammasso M13, che ospita trecentomila stelle e almeno altrettanti pianeti.
Gli alieni, se ci sono, riceveranno un messaggio costituito da un codice binario di 73 righe da 23 caratteri. Una volta decifrato, riproduce la doppia elica del dna sopra un disegno stilizzato di un essere umano e alcuni numeri, tra cui quattro miliardi, la popolazione terrestre dell’epoca. C’è anche una mappa del sistema solare, con l’indicazione della Terra e del radiotelescopio di Arecibo”.
Segue un lungo elenco di analoghi tentativi: “Nel 1983 gli astronomi Hisashi Hirabayashi e Masaki Morimoto dell’università di Tokyo, dopo un paio di bicchieri, ne mandarono uno verso la stella Altair con il simbolo chimico dell’etanolo e la parola “cin cin”. Poi è stato il momento degli annunci culturali e commerciali. Nel 2008 la Nasa ha inviato Across the universe dei Beatles verso Polaris, mentre l’università di Leicester, nel Regno Unito, ha mandato uno spot del marchio di snack Doritos verso la costellazione dell’Orsa maggiore. Lo stesso anno un potente segnale radio con 501 messaggi, selezionati sull’ormai defunto social network Bebo, è partito per Gliese 581, una stella nota per la “super-Terra” che le orbita intorno. Nel 2010 un’opera in lingua klingon è stata inviata verso la stella Arturo”.
Segnalo che lo snack Doritos è in realtà un insieme impressionate di prodotti salati e di dolci, mentre la lingua klingon è la parlata di una razza aliena immaginaria nell'universo di Star Trek.
Ma torniamo a chi abbiamo già citato all’inizio: “Secondo Jiang, però, possiamo fare di meglio. Con alcuni colleghi di tutto il mondo ha creato una versione aggiornata del messaggio di Arecibo, più facile da decifrare. Il gruppo ha messo a punto una mappa della Via Lattea le cui coordinate sono gli ammassi globulari, gruppi di stelle luminose vicine tra loro. Anche la nuova versione contiene la struttura del dna, ma in più ha una mappa del nostro pianeta con le molecole presenti tra terra, mare e aria. Il messaggio si conclude con l’indirizzo del mittente, cioè la posizione della Terra, e la data d’invio. “Vogliamo una risposta”, dice Jiang”.
Speriamo che abbiano torto coloro i quali pensano ai pericoli possibili se spuntasse chissà quale civiltà dal buio dello spazio, dando per scontata che si mostrerebbe ostile. Copione della gran parte dei film di fantascienza girati in questi anni. In genere con un lieto fine per l’umanità che ricaccia con successo gli invasori spaziali.
Banale e ottimista.

Scuola, formazione e la sfida culturale

Sono stato alla celebrazione di Don Giovanni Bosco nella scuola di Châtillon dei salesiani. Una struttura cresciuta nel secondo dopoguerra sino ai numeri imponenti di oggi, che in realtà era nata ab origine come orfanotrofio.
Negli anni la Regione ha assecondato questo sviluppo, prima nel nome dell’istruzione tecnico-professionale e poi della formazione professionale. La logica, sin da subito manifestatasi nei confronti delle scuole cattoliche e di altri strutture private non confessionali (ad esempio il Liceo linguistico di Courmayeur), è sempre stata nel nostro ordinamento quella di una considerazione piena dell’istruzione paritaria senza barriere ideologiche, com’è invece avvenuto altrove.
Il Don Bosco, con l’aiuto finanziario della Valle, ha seguito un filone fruttuoso nel solco scuola-lavoro, assicurando a tante generazioni di giovani una facilità nell’accesso professionale dopo la scuola e non è poco. Questa è stata una delle chiavi di successo: la nomea di una scuola “utile” è assolutamente fondamentale, che sia per un lavoro una volta finiti gli studi o come anticamera verso l’Università.
Questo esempio virtuoso del Don Bosco, ma si potrebbe citare anche l’Institut Agricole di Aosta, va usato come punto di riferimento, ma dimostra una necessità su cui lavorare per minimizzare l’abbandono scolastico e anche – e talvolta è persino peggio – per contrastare la triste constatazione di come spesso i ragazzi si infilino, con qualche responsabilità delle famiglie, in un percorso scolastico senza un’esatta pesatura delle proprie ambizioni e persino delle proprie capacità. Ancora oggi, a poche settimane dall’inizio della scuola al primo anno delle Superiori, si assiste ad un valzer di spostamenti in altri istituti. Oppure peggio ancora si scopre – a me è capitato di constatarlo con alcuni studenti della Scuola Alberghiera – che c’è chi, già avanti con gli studi, non entrerà malgrado il percorso prescelto nel mondo turistico e questo è oggettivamente uno spreco di risorse in un settore dove c’è fame di dipendenti o di imprenditori.
Una nuova legge regionale dovrà fissare dei paletti ormai indispensabili nel rapporto fra istruzione tecnico-professionale (competenza primaria da Statuto d’autonomia) e formazione professionale (ben finanziata dall’Unione europea), tenendo conto dell’obbligo scolastico sino ai 16 anni ancora sfilacciato dalla possibilità di poter lavorare davvero in parallelo agli studi per normative nazionali astruse.
Resta, tuttavia, una mia speranza che riguarda tutti gli ordini dei percorsi più professionalizzanti a maggior o minor gradiente di cultura generale. Qualunque disciplina si scelga, comprese quelle più mirate verso un lavoro specifico, bisogna che ci sia sempre attenzione e spazio per certe materie umanistiche. Mi riferisco alle Lingue, alla Storia, alla Letteratura, alla Filosofia e a quella che un tempo si chiamava Educazione Civica, che a mio avviso comprende rudimenti del Diritto e dell’Economia. Non so bene dove mettere la Geografia, terribilmente vilipesa, ma fondamentale.
Quel che conta dunque non è solo – nell’importanza anche delle varie discipline scientifiche – pensare giustamente al lavoro che verrà, ma anche alla formazione di un cittadino che abbia coscienza di sé stesso grazie a basi culturali solide, che lo nobilitano e lo rendono cosciente e partecipe.
Dico sempre che se già questo è sempre stato importante va detto quanto lo diventa ancor di più con la crisi demografica che desertifica la nostra gioventù e dunque nessuno deve essere lasciato indietro e bisogna fare in modo che siano opportunamente assecondate vocazioni e ambizioni nella linea della propria natura e delle proprie caratteristiche.

Fuggire da Whatsapp

Sembra ormai di parlare del tempo delle caverne. Eppure io lo ricordo quel primo sms - eravamo negli anni Novanta - che comparve sul mio telefonino e l’emozione che si passasse dall’orale della telefonata allo scritto. Non potevo sapere quanto sarebbe capitato oggi rispetto a quel misero messaggino.
Oggi siamo schiavi della messaggistica sotto diverse forme e il più inquietante - perché è pure parlante e consente videochiamate - è Whatsapp. L’origine la traggo dal sito di Fastweb: ”L'applicazione di messaggistica istantanea è stata creata nel 2009 da due ex dipendenti di Yahoo, Jan Koum e Brian Acton. I due vogliono creare un'app che dia la possibilità agli unteti di scambiarsi i messaggi gratuitamente utilizzando il proprio numero di telefono e la rete Internet. Dopo alcuni mesi di lavoro, i due programmatori danno vita a WhatsApp: il nome è la fusione tra le parole inglesi "what's up?" (come va?) e app (da application)”.
Oggi non so quanti gruppi abbiate collezionato e con quante persone singole intratteniate conversazioni. Non li conto per carità di patria e ogni tanto tento di fare pulizia o di far finta di essere morto con chi dimostra un eccesso di invadenza a qualunque ora del giorno o della notte. Di grande soddisfazione è anche il profilo temporaneo, quasi sempre scherzoso.
Il fatto certo è che questa "cosa” ci invade la vita e il peggio sono ormai i vocali, che creano in me un senso di ripulsa senza eguali e noto in chi indugia per minuti una sorta di sadismo verbale.Il vero incubo sono certi gruppi per l’infantile ripetitività dei contenuti.
Un vero eroe di questi giorni è risultato Thomas D’Orazio, 51 ans, che vive in Pennsylvania. Ho letto su di lui il racconto di Magali Cartigny su Le Monde. D’Orazio ha annunciato alle sue figlie ventenni di voler uscire dal gruppo creato con loro perché non ne poteva più: “Ironie de l’histoire, en tentant de reprendre son destin numérique en main, ce père de famille a engendré un buzz mondial, sa fille aînée ayant publié une capture d’écran de son message sur les réseaux. Les enfants sont merveilleux. Résultat : 16 millions de vues et des milliers d’humains, conscients de leur propre aliénation, exprimant sur Internet leur soutien à ce geste de bravoure et défendant le droit à la déconnexion”.
Scrive la giornalista, dopo aver dato le cifre che dimostrano la nostra schiavitù: “Thomas D’Orazio nous pose donc cette question : pour se préserver, faute de pouvoir quitter une messagerie professionnelle, peut-on démissionner d’un groupe rassemblant sa famille? Ne serait-ce pas considéré comme une preuve de désintérêt, pire, de désamour, ou comme un acte de misanthropie socialement inacceptable?”.
E aggiunge: ”Les groupes de discussion WhatsApp seront peut-être étudiés par les anthropologues du troisième millénaire pour tenter de percer le mystère de l’Homo iphonus. Tels les historiens d’antan décryptant les hiéroglyphes, ils se gratteront le haut du crâne face à ces tombereaux de messages vocaux, mèmes de Hugh Grant ou de John Wick (tueur à gages interprété par Keanu Reeves) et échanges absurdes liés au décalage entre intervenants (« A quelle heure on se retrouve? – Oui, je prends le train gare de Lyon »)”.
Già, il trionfo della banalità digitale e mi autoaccuso pure io di un abuso!
Condivido la conclusione ironica dell’articolo: “Dans son dernier spectacle, Gad Elmaleh confie son désarroi face à ces discussions multipartites. «On fait des groupes pour la moindre occasion, pour n’importe quoi. On organise un simple dîner, on crée un groupe. J’en peux plus, j’en ai marre, je sors des groupes». Le plus redouté étant celui des parents d’élèves, quand «maman Bérénice» lance son «alerte poésie» à la classe de CE2, à 22 heures, pour récupérer le texte de La Grenouille et le Crocodile, dont la récitation est prévue le lendemain”
Capita esattamente così, se non di peggio, e posso confermare la medesima invasività che si subisce sotto diverse forme, che si insinuano nelle mie multiformi chat che quotidianamente trillano giulive sul mio portatile. Ci sono pure apparizioni improvvise di chi - senza invito alcuno - ha scovato il mio numero e mi chiede pure se…disturba.

Arriva la Foire!

Ci vorrebbe una squadra affiatata per uno studio approfondito su quel vero e proprio fenomeno che è la Foire de la Saint-Ours. Servirebbe a spiegare come in un secolo questa manifestazione aostana sia passata da piccola fiera prevalentemente con oggetti utili per l’agricoltura all’enorme fiera odierna, che non ha eguali in tutte le Alpi per il suo gigantismo e la varietà di proposte.
Uno storico potrebbe tracciarne la parabola ascendente dal dopoguerra ad oggi, originata fin dalla notte dei tempi o almeno da quando certi documenti medioevali la citano. Un sociologo potrebbe raccontare come venisse vissuta la sua presenza nel solo Bourg in epoca di una società contadina che scendeva da alcune vallate nel cuore della città “borghese” e segnalare come sappia oggi conquistare tutti nei due giorni. Un antropologo potrebbe spiegare come questo rito collettivo abbia dato vita ad oggetti artistici e no con uno stuolo di espositori che mostrano la varietà umana del mondo valdostano e anche la capacità di integrazione avuta.
Tutto ciò nel nome di un mitico Santo e guaritore di cui non si sa molto e che ha superato in popolarità - ed è anche questa una sorta di paradosso - i Santi valdostani più importanti e autorevoli come Sant’Anselmo e San Bernardo. Misteri della fede.
Comunque sia, questa Foire ha due pelli: la prima è quella diurna, che significa uno snodarsi in superficie di quello che ormai è un pigia pigia nelle strade del centro con centinaia di espositori di cui si vedono i banchetti spinti dalla folla. I più accorti arrivano non a caso presto al mattino e possono incontrare e guardare con una certa calma, godendosi la varietà di proposte e parlando con artigiani (termine che assume mille sfaccettature) ancora “freschi”.
Vi è poi - seconda pelle - la dimensione notturna, che per gli habitué è prevalentemente sotterranea nelle famose cantine, un tempo più aperte alle visite e oggi appannaggio di combriccole di amici o a pagamento per frequentatori che sanno godersi la notte fonda. Bere bisogna saper bere e cantare anche, sapendo che l’indomani ci saranno conseguenze, ma è un prezzo da pagare per questa trasgressione.
Ho seguito ormai un sacco di edizioni e alcune sono state memorabili. Penso di aver lasciato un piccolo graffio personale nella pellaccia dura della Foire. Ero Presidente della Regione quando chiesi per curiosità come mai la Foire si inaugurasse il 31 e cioè il secondo giorno e non il 30. Nessuno - anche i più conoscitori della storia della manifestazione - seppe darmi una riposta e allora proposi di fare la cosa più logica: inaugurare il 30 e non il 31! Da allora è così e sono fiero di questo cambiamento. Come inaugurare una fiera dopo un’intera giornata e nottata?
L’altra curiosità è che la Chiesa festeggia Sant’Orso il 1 febbraio, dunque a Foire finita e quel giorno la tradizione mischia il santo con le…previsioni del tempo. Dice il proverbio, parlando dell’indomani dei giorni canonici della Foire: "Se féit solèi lo dzor de Sen t-Ors, l'iver dure incò quarenta dzor" ("Se fa bello il giorno di Sant'Orso, l'inverno dura ancora per quaranta giorni") ed in altra versione questo maltempo si esplicita perché l'orso mette fuori a seccare al sole il pagliericcio e poi torna di nuovo a dormire.
Da notare appunto come nella tradizione popolare per questi detti si mischi il Santo con l'orso come animale simbolo della forza della Natura. Certo é che la Foire si lega con sicurezza a festività analoghe di questo periodo, a metà dell’inverno astronomico, fra il solstizio d'inverno e l'equinozio di primavera. Già lo facevano i Celti con la festa nota come "Imbolc" (che vuol dire "in grembo" con riferimento alla maternità pecore, anche se si celebrava la luce), i romani con le celebrazioni della dea Februa (Giunone) con le calende di febbraio e la "Candelora" (festa cattolica così definita anche perché si benedicono le candele), che in parte torna nel Nord America con il "Giorno della marmotta" (altro animale simbolico del risveglio).
Insomma: tutto si mischia, nulla si butta via e ognuno ricicla in chiave moderna quanto lo ha preceduto, inseguendo il ritmo delle stagioni.
Intanto quel che conta è andarci alla Fiera!

Il Festival di Sanremo e l’Ucraina

Ci abituiamo sempre di più a discussioni politiche polarizzate sull’Ucraina. Lo vediamo sull’invio delle armi affinché Kiev riesca a bloccare l’invasione russa. Mentre prima c’era chi giocava la carta dell’ambiguità, quando si vota in Parlamento carta canta e si vede chi - con mille distinguo tattici - milita nelle fila filorusse, per quanto assurdo sia.
Ora si avvicina un classico di inizio anno: il Festival di Sanremo. La competizione canora non è solo musica ma anche un fenomeno di costume, incredibilmente rimasto in piedi, come se domani trovassimo un mammut in piazza Chanoux.
Ora si discute - nella stessa logica, guarda caso, del dibattito sugli aiuti militari - della presenza durante la kermesse sanremese del Presidente ucraino Volodymyr Zelensky e chissà alla fine chi vincerà.
Ne scrive con arguzia Alberto Mattioli sul Foglio: “Da sinistra urlano Vauro, Beppe Grillo, Moni Ovadia, Dibba e perfino Luigi de Magistris. Da destra strillano Nicola Porro e Mario Giordano. Gli opposti isterismi, insomma. Manca solo una dichiarazione contro di Giuseppe Conte per avere la matematica certezza che è giusto essere pro: pro l’ospitata di Volodymyr Zelensky a Sanremo”.
Anche Matteo Salvini si è espresso contro e il giornalista - evocate le simpatie putiniane del Ministro in passato - ricorda la frase del suo commento:” “Speriamo che Sanremo rimanga il Festival della canzone italiana”, ha detto il Matteo, ignorando che la canzonetta, autarchica o meno, non è più il core business del Festival, da anni un contenitore dove c’è di tutto e di più, secondo il vecchio slogan di mamma Rai. Per dire: nelle ultime tre edizioni, gestione Amadeus, all’ariston si è parlato di femminicidi, razzismo, intolleranza, parità di genere e di ogni possibile argomento d’attualità, con prevalenza di quelli più politicamente corretti”.
Per cui una presenza la Sanremo del leader ucraino non sarebbe così irrituale con buona pace della nuova coppia del fronte del no, Calenda e Renzi, che stupiscono con questa loro uscita.
Mattioli aggiunge: ”Avere Zelensky a Sanremo fa bene innanzitutto a Sanremo, visto che le sue precedenti ospitate spettacolari, in tutti i sensi, si erano verificate ai Golden Globe, a Cannes e a Venezia, eventi decisamente più global e glam, e insomma certifica che il festivalone è meno irrilevante di quanto siamo abituati a pensare. Semmai c’è da rimpiangere che Sanremo in Russia non lo guardino più, a differenza dei bei tempi di Al Bano e di Toto Cutugno e dei Ricchi e Poveri, ultimi eroi di una passione russa per la musica italiana che risale addirittura a Cimarosa (musica magari un po’ migliore, volendo); però in ogni caso provvederebbe la censura del grande uomo di Stato e di governo a impedire ai sudditi di ascoltare il Nemico. Ma poi Zelensky che si materializza su Rai 1 fa bene anche a chi la guarda”.
Concordo: in un mondo smemorato ogni occasione è buona per evitare che si cerchi di far passare l’Ucraina dalla parte del torto, dimenticando chi li ha invaso e sperava nel blitz in realtà fallito.
Conclude il giornalista: “Nell’ottundimento collettivo di cinque interminabili serate di fiori e ritornelli e begli applausi, in questa bolla d’incoscienza che fluttua nel cielo sempre più blu dell’ottimismo coatto, nel migliore dei mondi possibili come sono tutti quelli che sospendono la realtà, ricorda a tutti che, mentre ci balocchiamo con sorrisi e canzoni, nel nostro continente c’è un dittatore criminale che sta cercando di asservire un popolo libero, che per restarlo combatte con un eroismo che suscita l’ammirazione di tutte le persone perbene. Il precedente di un attore che ha vinto la terza guerra mondiale senza nemmeno doverla combattere dimostra che non bisogna prendere sottogamba la gente di spettacolo che fa politica. Si chiamava Ronald Reagan. Peccato solo che Zelensky, stando a quel che annuncia la Rai, non parlerà dal vivo ma registrato e soltanto per due minuti, nella serata terminale dell’11 febbraio, tra la fine della gara e l’annuncio di chi l’ha vinta. “Zelensky? Non so come canta, ho altre preferenze”, ironizza Salvini. Beh, non canta male, anche se è meglio come ballerino, basta fare un salto su Youtube. Ma l’importante, per la sua performance sanremese, è che le canti chiarissime”.

Travolto dai ricordi

Capitano sensazioni improvvise, frutto di situazioni particolari che sono create dal caso. Talvolta sono soste nel cammino della nostra vita. Dire che sono bilanci è esagerato. Si potrebbe dire che è occasione per rivedere noi stessi per quello che siamo stati e per quello che siamo oggi e che - speriamo! - saremo. Semplicemente perché siamo il prodotto di tutto ciò che abbiamo vissuto e del mondo di persone con cui siamo cresciuti.
Così è stato per me in queste ore, come se fossi stato investito da una macchina del tempo, che mi ha portato ad immergermi in certi ricordi come se fosse - la sparo grossa! - un esercizio di transfert cosi come richiesto nella psicoanalisi. Più semplicemente direi che è stato come riaprire un album di ricordi pieno di fotografie colorate.
Ho raccontato tante volte del mio legame passato con la città d’Imperia, Riviera di Ponente. Mi mamma era di lì e dunque ogni estate, sin da quando avevo solo sei mesi più o meno sino ai vent’anni, il rito familiare era di lasciare la Valle d’Aosta con armi e bagagli e scendere in Liguria della Valle d’Aosta.
Una specie di seconda vita per almeno tre mesi con papà che andava e veniva, perché non aveva come veterinario il tempo della mamma casalinga per restare in questa vacanza-villeggiatura. A Castelvecchio - diventato frazione di Imperia, dopo la soppressione del Comune nel 1923 - per tanti anni la nostra era una vita da clan attorno alle famiglie delle tre sorelle, mia mamma Brunilde, Floriana e Agostina con mariti e figli. La casa era quelle dei nonni: Emilio, uomo serio che portava il dolore di un enfant trouvé che conosceva persino chi fossero i suoi genitori naturali e Ines, marchigiana di Pergola assai saggia e sempre in movimento.
La vita trascorreva nella pigrizia estiva fra spiaggia e la collina dell’entroterra, mentre crescevamo da bambini ad adolescenti fra cugini solo maschi sino a diventare adulti, perdendo quelle estati indimenticabili. In parte tutto iniziò a cambiare nel momento in cui le sorelle vendettero la casa di famiglia e ci ritrovammo in appartamenti senza più quella situazione che avevamo vissuto come famiglia allargata.
Poi comincia a lavorare e pian piano ad avere la mia vita, di fatto non tornai più ad Imperia - se non in rari casi - per una scelta di distacco anche dalle compagnie con cui ero cresciuto, perdendone le tracce.
Ora che ci penso meglio fu una scelta saggia, che oggi mi consente ricordi vividi non ingialliti di mille avventure e zingarate, vissute di corsa e che tornano alla mente con una freschezza intatta senza quel reducismo delle retrouvailles, come si chiamano quei momenti di incontro pieni di nostalgia dopo tanti anni di separazione.
Mi sono trovato ad Imperia in queste ore per un impegno politico, arrivando in una serata dal cielo ancora dall’azzurro luminoso, in cui ho avuto poi qualche ora di tempo in parte di quei luoghi vissuti.
Questo è avvenuto ad un mese dalla morte di mia mamma. Una morte che non lascia mai indifferenti e che in qualche modo, essendo morto papà alcuni anni fa, ti colpisce perché da lì in poi, con mio fratello Alberto, siamo diventati più soli ed è una consapevolezza che acquisisci al momento del distacco, cui di fatto non si è mai pronti.
Il clima a due passi dalla spiaggia dell’infanzia era quello descritto da Enrico Ruggeri in una celebre canzone: “Il mare d’inverno è solo un film in bianco e nero visto alla TV”. Camminando in una serata ventosa sul molo della Marina di Porto Maurizio, ho vissuto in alcuni minuti un intenso flashback che mi ha riportato nel passato. Luoghi evocatori di quella parte della mia vita sono ritornati in superficie con un’emozione inattesa. Ho pensato in questa immersione pensosa a quanto sia stato fortunato ad avere questi ricordi che mi scaldano il cuore. Ciò conferma la necessità, per mai trasformarmi in un vuoto laudator temporis acti, di continuare ad accumulare nuovi ricordi.

La cultura politica

L’attuale crisi politica in Valle d’Aosta, con le dimissioni del Presidente della Regione, è l’ennesima tappa di almeno un decennio di alleanze varie fatte e disfatte e appunto di Presidenti a rapida rotazione.
In questo marasma - che addolora chiunque abbia a cuore l’Autonomia che prevede, come ricordo spesso, diritti e doveri - confesso anche la mia situazione più personale di vivo dispiacere. Non ci sono per questa situazione ricorrente di instabilità vincitori e vinti, perché chiunque faccia ed abbia fatto politica si trova catalogato in negativo, qualunque sia stato il proprio percorso personale e le cose fatte nel tempo.
Non abbozzo una difesa che mi riguardi, pur ritenendo di sentirmi la coscienza a posto e non ho voglia neppure di mettermi a snocciolare colpe o torti altrui. Quando esiste una situazione caotica e a tratti imprevedibile, bisognerebbe trovare una strada di pacificazione alla ricerca di soluzioni.
So che non è affatto facile. Io stesso ho vissuto, dentro la politica valdostana di cui mi occupo da tanti anni, momenti difficili e dolorosi, scoprendo - forse per una mia qualche ingenuità di fondo - quanto possa capitare alle tue spalle nel momento in cui occupi posti di responsabilità.
Ci sono regole del gioco che non sono sempre fatte di sincerità e di lealtà. Chi entra in politica lo sa e non bisogna mai lamentarsi a posteriori della presenza di ostacoli e trappole, che finiscono per essere normalità e non patologia.
Eppure, chiarito questo meccanismo, che è in fondo così umano e che fa dei comportamenti politici lo specchio della società con buona pace dei cittadini elettori che votano qualcuno per poi lamentarsene, esiste un livello più elevato a cui rifarsi quando necessario.
Il piano politico, che nei ruoli elettivi si impasta con l’azione amministrativa, non è una costruzione democratica astrusa, ma ha delle fondamenta su cui tutto si regge. Certo da una parte ci sono quegli intangibili valori costituzionali di cui il nostro Statuto speciale fa parte come punto di riferimento, dall’altra però ci sono idee, valori, progetti che sono il patrimonio che dà profondità alla politica.
Questo insieme è la parte più difficile, perché è definibile nella sua totalità come “la cultura politica”. È come uno zaino da portare sempre sulle spalle per non dimenticare, pieno di mille cose immateriali, in continuità - nel caso del mondo autonomista - con un fil rouge più antico di quanto si pensi.
Io appartengo a questa cultura, ci credo profondamente e penso che per fortuna non sia solo un patrimonio del passato, ma resta un lievito madre che passi di generazione in generazione e la forza sta nell’aggiungere elementi che pongano il proprio pensiero in linea con il mondo in cui si vive e che cambia con inusitata rapidità.
Volo troppo alto? Come conciliare tutto ciò con la violenza insita nelle dispute politiche, con le ambizioni personali che fremono, con le coltellate alle spalle e pure al petto?
Se questi usi e costumi della politica agiscono nel vuoto culturale tutto ciò non porta da nessuna parte. Si resta spaesati e si perdono i punti di riferimento, scivolando in una sorta di campo minato che paralizza ogni buona intenzione.
Ricordo il detto Homo omini lupus (l’uomo è lupo per l’altro lupo) e l’altro Bellum omnium contra omnes (guerra di tutti contro tutti): entrambi in latino usati da Hobbes, riprendendoli da tanti precedenti. Espressioni che fotografano la realtà, nel rischio di vivere nella rozzezza di una sorta di stato di natura e ciò avviene quando la politica perde la bussola della cultura politica.
Per questo predico la reunification: non per motivi sentimentali ma politici.

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