blog di luciano

Contro tutti i totalitarismi

Ognuno vede il mondo in politica attraverso le proprie convinzioni personali e, quando può farlo, anche grazie all’eredità familiare, nel mio caso saldamente improntata a valori democratici. Questo significa avere il privilegio di possedere un bagaglio culturale chiaro e esempi da seguire. Un insieme utile e prezioso per formarsi le proprie idee in piena libertà.
È questo uno straordinario antidoto per rispondere sempre con serenità rispetto alle posizioni e ai tentativi di influenza di chi usa la politica con logiche settarie e solo ideologiche. Questo è pericoloso, specie nella scuola, se non si indirizza a logiche di crescita dei giovani e di costruzione di un bagaglio di conoscenze, ma si scelgono logiche di indottrinamento e imposizione di visioni di parte.
Constato che c’è chi, con la giustificazione di educare, cerca di manipolare le coscienze dei ragazzi e al posto di fornire loro strumenti di base di comprensione e di discernimento per crescere rischia di trasformarli in militanti delle loro stesse cause, senza appunto i necessari elementi critici.
Questo è negativo è davvero poco democratico. Si può essere impegnati politicamente nella propria vita, ma è necessario evitare che nelle aule scolastiche ci sia chi prosegue questa medesima attività, senza possibilità di avere opportune distinzioni. Ho avuto nella mia storia personale docenti che mi hanno aiutato a formarmi le mie opinioni, senza trasferirmi le loro, e insegnanti che hanno tentato di fare il contrario.
Guardavo i volti dei giovani nel recente corteo di Firenze e certi slogan inascoltabili, in un tripudio di bandiere rosse. La manifestazione è stata frutto e reazione ad un’aggressione di giovani di estrema destra a giovani studenti di sinistra, la cui gravità è evidente, perché la violenza, specie in chiave politica, non dev’essere mai consentita e questo vale - proprio per non essere ipocriti - per il mondo anarchico che ha manifestato nelle stesse ore a Torino, passando il segno.
L’antifascismo - cui si è ispirato il corteo fiorentino - è sacrosanto e lo è a maggior ragione in un Paese come l’Italia, dove la “pacificazione” post bellica non fece i conti con responsabilità e complicità di un regime dittatoriale. Ma questa è ormai Storia e quella, rispetto alle responsabilità di Mussolini e del Fascismo, è scritta nella roccia e ogni tentativo di revisionismo o di distinguo si urta contro la realtà della dittatura e del dittatore.
Chi oggi dimostra ancora nostalgia è un cretino, perlopiù ignorante, che casca nella trappola del famoso Fascismo “buono” che è frutto di balle spaziali e di tentativi di manipolazione in cui appunto certi neofascistelli cascano come dei gonzi.
Per cui bene evitare che si falsifichi il passato, anche se sappiamo bene che proprio nel secondo dopoguerra si è stati larghi di manica con partiti che si rifacevano al fascismo e ancora oggi in Fratelli d’Italia esistono residui di persone che hanno giocato con la simbolistica fascista come il saluto romano come provocazione o la visita alla tomba del Duce a Predappio per omaggio.
Oggi - anche per questo - coltivare valori e idee della Resistenza dev’essere un patrimonio comune e fa sorridere chi, nell’estrema sinistra anche in Valle d’Aosta, vuole intestarsi l’antifascismo come se fosse un loro patrimonio da spendere sul mercato elettorale e usandolo come proprio tornaconto che li metterebbe nella posizione di fare agli altri la morale. Mentre l’antifascismo da noi ha radici pluraliste e una storia legata in Valle anche al mondo autonomista, che non dovrebbe sopportare certi scippi.
Anche perché - e questo è il punto che oggi deve distinguere l’antifascismo “vero” - è che oggi bisogna essere lucidamente contrari a qualunque ritorno delle dittature figlie della Destra, così come nella formazione dei giovani bisogna egualmente combattere ogni forma di dittatura liberticida di segno diverso e senza logiche omissive.
Per cui sarebbe bene fare i conti sull’eredità del comunismo e dei regimi - come la Russia, la Cina, la Corea del Nord, Cuba e altri ancora - dove la democrazia non c’è e invece si fa finta di niente e virus come l’antiamericanismo esistono e stanno riemergendo. Lo si vede bene in certi atteggiamenti sulla guerra in Ucraina di cui seguo con interesse le evoluzioni, temendo il peggio.

Il silenzio è la solitudine

Un ammonimento che talvolta riecheggiava da bambino era: “Non parlare con gli sconosciuti”. Si trattava di un modo tra il burbero e l’affettuoso per avvertirci, come avveniva anche con alcune favole truculente, dei pericoli del mondo attorno a noi.
Invece, parlare con gli sconosciuti, nelle situazioni della vita, è sempre stato uno stimolo per relazionarci con persone diverse e lo si faceva.
Oggi - leggo un lungo articolo sul tema su Le Monde - tutto è cambiato per via di questi telefoni multitasking su cui, per altro sto scrivendo questa mia breve riflessione.
Si intitola “L’art du papotage”, parola traducibile in italiano con “chiacchiere”, scritto da Guillemette Faure.
Così inizia: “C’est un phénomène que racontent surtout les plus de 35 ans. Des coiffeuses se sont mises à coiffer des gens qui ne leur parlaient plus. Des contrôleurs de train traversent des voitures dans lesquelles chaque voyageur a les yeux rivés sur un écran. Des caissières voient passer des clients, le téléphone coincé dans le cou, en communication avec des interlocuteurs invisibles. Des médecins observent des salles d’attente dans lesquelles on continue à s’asseoir automatiquement aux deux bouts, mais personne ne brise plus la glace. C’est la fin du bavardage. Pas des grands débats, mais du small talk comme on dit en anglais, « de la pluie et du beau temps » en version française, pour parler de ces petits échanges qui n’ont pourtant généralement pas grand-chose à voir avec la météo”.
Chiusi nel nostro telefono o tablet, spesso con le cuffiette nelle orecchie, abbandoniamo il mondo reale.
Così più avanti una prima testimonianza: “Ancien journaliste à l’origine de l’association La République des hyper voisins, Patrick Bernard voit là l’effet de la sacralisation du privé : « L’individu est devenu supérieur au collectif. On dit ma propriété privée, ma vie privée… Avant, tu disais bonjour à tout le monde ; dans une salle d’attente, en entrant dans un café… A présent, le silence est devenu la marque du respect. La conversation s’est fait expulser par les nouvelles attentes du savoir-vivre. Dire bonjour à quelqu’un qu’on ne connaît pas, ce n’est pas une violation de domicile, mais presque. »”.
Avendo vissuto il piacere di un saluto o di due parole in libertà, che spesso hanno portato a conoscenze utili e persino ad amicizie, non si può che intristirci per certi cambiamenti e in fondo le domande della Faure sono le
mie: “Si la vie est vraiment plus agréable en papotant avec des inconnus, pourquoi ne le fait-on pas ? Pourquoi choisir la place isolée dans un train quand on a la possibilité de s’asseoir à côté de quelqu’un?”
Seguono spiegazioni di esperti vari, ma la piega di asocialità è descritta bene più avanti nell’articolo con un esempio: “A force de ne plus produire de small talk, on redéfinit les standards collectifs où la norme devient de rester côte à côte, sans se parler. Quand le Monoprix du quartier Montparnasse, à Paris, a rouvert en septembre 2020 après neuf mois de travaux, il se distinguait par l’installation d’une agora baptisée « place publique », en plein cœur du magasin, autrement dit des tables, des chaises, des gradins pour créer une sorte de forum. Les clients pourraient y refaire le monde, pensait-on. Deux ans plus tard, les gradins sont généralement remplis de visiteurs qui viennent recharger leur téléphone ou se réchauffer en « swipant », mais qui ne parlent jamais entre eux. On a là plutôt une version adulte de ces scènes de départ en colo dans les gares, où des dizaines d’ados sont alignés en brochette, tête baissée sur leur smartphone”.
Ma il fenomeno è vasto: “Sans doute que notre muscle de la conversation s’est aussi atrophié par manque d’occasions. Depuis que l’écran est venu faire l’interface pour passer une commande, prendre un rendez-vous, les occasions de bavardage se tarissent. Peut-être qu’à force de remplacer les gens par des écrans, on s’est mis à les traiter comme tels, avec un service de communication minimum”.
E ancora: “ « Plus on communique par téléphone et messagerie, moins on développe de liens sociaux “offline” et plus on appréhende de parler à quelqu’un qu’on ne connaît pas », résume encore Joe Keohane, dans The Power of Strangers. L’érosion de notre sens du small talk rend plus difficile de rencontrer des gens nouveaux et contribue à l’isolement. Cette perte de capacité nous conduit même à refuser des invitations parce que « je ne connaîtrai personne » “.
Scrivo per chi ha figli che si affacciano all’adolescenza o lo sono già. Abbiamo coscienza che hanno meno amicizie di quanto ne avessimo noi? Che mancano le compagnie e le occasioni di incontro così numerose come ai nostri tempi?
Non è una lode del passato, ma la paura di nuove solitudini e di introversioni nocive.
Ma anche noi adulti rischiamo, come spiega bene l’articolo: “Le small talk, lui, ouvre aussi la voie à des occasions de discussion avec des gens différents, huilant sans en avoir l’air les rouages du collectif. Alors que nos sociétés occidentales sont les premières à nous offrir la liberté de choisir avec qui on vit, travaille et devient ami, on s’est rapprochés de nos semblables au risque de ne plus échanger qu’avec des gens de la même génération, passés par les mêmes écoles et partageant les mêmes idées politiques, ce qui, pense l’auteur, est contraire au fonctionnement d’une démocratie.
Pourtant, explique la chercheuse Stav Atir, les « liens faibles » (les gens que l’on connaît peu) peuvent se révéler d’importantes sources d’information, d’ouverture d’esprit”.
Questo è uno dei grandi insegnamenti e delle grandi chances per chi ha fatto politica: poter conoscere persone così diverse fra loro, anche solo per le “chiacchiere”, e ne esci arricchito. Ma anche la politica, vittima del mondo schiavo di nuove abitudini digitali, si sta impoverendo con una partecipazione che sta scemando e ci si si trova fra noi soliti noti.

Gli ammonimenti di Cassese

Non appaia un paradosso che sia un giurista uotraottantenne come Sabino Cassese a firmare sul Corriere un editoriale intitolato “Il bisogno di futuro”. Se il cervello funziona sono proprio persone di esperienza che possono proporre riflessioni importanti in barba a quel giovanilismo che predicò la rottamazione, quando - come sperimentiamo nella vita - essere incapaci o cretini non è purtroppo solo una cosa che ho visto che è lo questione di età.
Cassese parte dalla recente lettera del Presidente della Repubblica che, oltre allo scandalo dei “balneari”, segnala, come ha già fatto altre volte senza successo, l’ «abuso della decretazione di urgenza e la circostanza che i decreti-legge siano da tempo divenuti lo strumento di gran lunga prevalente attraverso i quali i governi esercitano l’iniziativa legislativa», nonché «il carattere frammentario, confuso e precario della normativa prodotta attraverso gli emendamenti ai decreti-legge e come questa produca difficoltà interpretative e applicative».
Per fortuna al Quirinale abbiamo chi s’intende di diritto costituzionale e vigila davvero sulla Costituzione!
Più avanti elenca il suo plaidoyer: ”Tutto inizia con il fatto che «i partiti si sono allontanati dalla società», come ha scritto Luciano Violante, il 26 febbraio scorso, su Domani : pochi iscritti; forte diminuzione, con bruschi cali, della partecipazione politica attiva; perdita di elettori; rottura del rapporto elettori-eletti; forte volatilità elettorale; congressi rarissimi. Uno dei maggiori partiti degli ultimi trent’anni ha affidato la guida della propria organizzazione ad una candidata iscrittasi in vista delle primarie e scelta da un numero di partecipanti quasi sette volte superiore al numero degli iscritti: c’è differenza rispetto alla scelta di un «podestà straniero»? Si può dire che in questo modo quel partito riesce a perdere anche le proprie elezioni interne, dopo averle delegate ad altri?
La trasformazione dei partiti da associazioni in comitati elettorali, o tutt’al più in movimenti, e quindi il loro regresso allo stato iniziale della «forma partito», comporta anche un’altra conseguenza: le loro rappresentanze parlamentari non sono composte da eletti, ma da nominati, perché scelti dai vertici e assegnati a collegi più o meno sicuri”.
Più avanti Cassese: ”La funzione legislativa è ormai svolta dal governo (si va avanti con più di un decreto-legge a settimana). L’assegnazione alle oligarchie al vertice dei partiti del compito di scegliere i candidati e paracadutarli nei collegi ha invertito il rapporto maggioranza parlamentare-governo: se una volta era la maggioranza che dominava, oggi è il contrario. Quindi, i parlamentari più che «policy makers», sono meri «politicians». Ma, frustrati dal fatto di essere esclusi dalle maggiori decisioni, si prendono una rivincita: inseriscono nei decreti-legge del governo, che debbono convertire, ogni tipo di norme (il presidente Repubblica ha segnalato che ai 149 commi originari del decreto-legge «milleproroghe» se ne sono aggiunti altri 205 nel corso della conversione parlamentare) e propongono commissioni monocamerali o bicamerali di inchiesta, una volta usate con molta parsimonia per raccogliere dati e notizie su materie di pubblico interesse, ora proposte in gran numero come strumento di battaglia politica, o talora come tribunali del popolo”.
Il Parlamento svuotato valorizza in modo abnorme la figura del Presidente del Consiglio: ”Un altro cambiamento riguarda il governo e, in particolare, il suo presidente, il cui peso e la cui forza aumentano. Ciò è dovuto, da un lato, a ragioni strutturali: il capo del governo, in un regime parlamentare, quando ha un mandato popolare e una sicura maggioranza nelle Camere, può contare sul «continuum» maggioranza parlamentare-governo, mentre il presidente di una Repubblica presidenziale non necessariamente gode dell’appoggio di una maggioranza parlamentare. Dall’altro lato, la partecipazione all’Unione europea e ai vertici dei molti organismi internazionali, costituisce un elemento esterno di rafforzamento del ruolo del capo dell’esecutivo perché le decisioni collettive più importanti vengono prese a Bruxelles o in Summit internazionali a Bali, e lì l’Italia è rappresentata dal presidente del Consiglio dei ministri. Questo, quando non è il decisore di ultima istanza, è comunque il punto necessario d’incontro tra i decisori”.
Le conclusioni di Cassese sono lucide e preoccupanti: ”Se alcuni di questi sviluppi rappresentano una tendenza inesorabile e sono effetto e causa della debolezza della democrazia, tuttavia, due aspetti segnalano una vera e propria regressione: i meccanismi di selezione del personale politico e lo «short-termism». Se né la «carriera» all’interno di un partito, né la scelta degli elettori sono utilizzati per reclutare e selezionare parlamentari e ministri, quale è lo strumento per formare le classi dirigenti politiche? Se la politica è tutta declinata al quotidiano, chi disegnerà un futuro per l’Italia?”.
Con molti possibili addendi è legittimo interrogarsi su storture simili se non sovrapponibili nel sistema valdostano, che vanno curate - per quel che mi riguarda - con un rilancio dell’originale esperienza politica rappresentata dal mondo autonomista con il ritorno ad una presenza capillare e autorevole. Chi predica l’elezione diretta del Presidente della Giunta non capisce che non si migliora nulla dando potere ad un solo vertice.

Si apre una nuova porta

Chiudo una porta e ne apro un’altra e nella vita i cambiamenti sono salutari come un bagno freddo. La politica è fatta così, quando il proprio percorso sfocia in nuove cariche elettive che comportino assunzioni di nuove responsabilità. Non è la prima volta che mi capita nelle mie esperienze errabonde e va detto che gli stimoli non mancheranno e metterò entusiasmo ed esperienza.
Così è con le nuove deleghe dell’Assessorato, cui sono stato chiamato in queste ore. Sono deleghe non di cartone, come adombra chi dall’opposizione rosica.
Lascio Istruzione e Università e Partecipate, materie su cui mi sono impegnato nel limite delle mie capacità. Il mondo della scuola è molto complesso, fra autonomia scolastica e il rischio di suoi eccessi e la forte influenza sindacale più protesta che proposta. Credo di aver risolto alcune grane anche grazie ad una Sovrintendente agli Studi, Marina Fey, competente e efficace. Loro, gli studenti di tutte le età, sono energia allo stato puro e ogni incontro nelle scuole è stata una gioia. L’Università valdostana è una certezza da sviluppare, evitando dinamiche autoreferenziali e con la consapevolezza che non si lede l’autonomia universitaria se chi paga, cioè la Regione, esercita un ruolo. La nuova sede è importante e lo sarà la scelta di facoltà e materie che ci azzecchino con un territorio di montagna a vocazione europea.
Le Partecipate - con l’ausilio dell’ottimo coordinatore Valter Mombelli- mi hanno tenuto sempre sulla corda con un rapporto spesso dialettico con una Finaosta che andrà rinnovata per essere all’altezza dei tempi. CVA è uscita dalla Madia e ha una guida sicura verso il tema complesso della scadenza delle concessioni idroelettriche e della diversificazione energetica, restando nel campo delle rinnovabili. Il Casinò sta uscendo dalla tempesta perfetta con buoni risultati, ma bisogna guardare bene al futuro con nuove proposte e idee brillanti per evitare rischi futuri. Inva sarà ancora sotto la mia lente di osservazione e il mondo digitale è una galassia in espansione. Gli impianti a fune andranno accorpati con intelligenza e anche le altre Partecipate vanno seguite con interesse e penso ai trafori alpini e alle autostrade e molti di questi dossier sono già impostati e me ne dovrò occupare a latere in Europa e attraverso la cooperazione transfrontaliera.
Affari europei diventa di fatto il cuore del mio Assessorato e resta del tutto coerente con il mio curriculum e si sposa perfettamente con il coordinamento ottenuto sul PNRR nelle diverse progettualità che incideranno sulla Valle d’Aosta e che bisogna seguire e, se possibile, incrementare. Nello stesso modo le politiche nazionali della montagna sono un vestito che mi va a pennello, essendo state da sempre al centro del mio lavoro politico, così come il rapporto con le minoranze linguistiche a cui sono stato delegato. Il settore cruciale dell’Innovazione è una delle strategie regionali - e non è solo la digitalizzazione - che consente ampi spazi di miglioramento e piste nuove.
Rafforzare l’ufficio di Bruxelles sarà per tutti un valore aggiunto assieme alla mia presenza al Comitato delle Regioni.
Insomma: vaste programme. Ho imparato da mio papà (e lui da mio nonno) l’etica del lavoro, che è una cosa importante, perché implica il senso di responsabilità qualunque cosa si faccia e bisogna farlo senza perdere di vista i propri affetti e talvolta non sono riuscito a farlo del tutto.
Ha scritto Vittorio Messori: "Chiesero un giorno a Sigmund Freud di sintetizzare la sua “ricetta” per difendere l’uomo dai mali oscuri che affiorano dal profondo. “Lieben und arbeiten”, “amare e lavorare” fu la risposta del fondatore della psicoanalisi. È, guarda caso, la stessa formula proposta all’uomo dal Nuovo Testamento, che pone al centro del suo messaggio amore e lavoro”.
Mi pare un bel proposito da seguire e lo farò.

Il dibattito sulla montagna

Considerate questa la seconda voce sul futuro della politica della montagna, che arriva della Valli occitane, nostre consorelle.
Questa volta la parola è quella di Mariano Allocco, mio amico, che mi scuserà se sforbicio un pochino quanto da lui pubblicato su La Stampa di Cuneo: “Riprendendo quanto ha scritto Fredo Valla su “visione che manca e la politica che ci serve”, torno a ribadire quanto sia sempre più evidente una frattura tra Città e Contado e, specialmente per l’Italia del Nord, tra Monte e Piano.
Un confine interno che corre lungo curve di livello in tutto l’Occidente, che emerge in ogni campo, evidente anche sul piano elettorale.
Da un lato i grandi numeri delle masse urbane, dall’altro un territorio alpino scarsamente popolato, ma la cui storia può dare un contributo essenziale di fronte alle sfide che in questo momento storico ci attendono e di cui non conosciamo la portata”.
Poi prende velocità: “Due mondi che stanno perdendosi di vista, ma che possono e devono trovare il modo di pensare assieme un avvenire possibile. Non vedo alternative.
Perché allora non lavorare ad un “patto tra eguali”? Qualcuno pensa che si possa continuare guardando verso le Alte Terre come luogo di svago e da cui prelevare le ultime risorse?
La Costituzione all’Articolo 44 sancisce che “La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane”, ma l’attuale legge nazionale per la Montagna rimane inapplicata. La “Legge Carlotto”, nel suo primo articolo ha come obiettivo le “insopprimibili esigenze di vita civile delle popolazioni residenti”, obiettivo che confligge con una politica montana che dagli anni ’90 pone al suo centro l’ambiente e non l’uomo che quell’ambiente vive.
Da un lato, dal piano, si guarda verso le Alte Terre ponendo l’attenzione sull’ambiente, mentre le Alpi sono state storicamente una delle zone più antropizzate d’Europa e, se non si vuole farne un deserto, l’attenzione va riportata proprio sull’uomo che quell’ambiente vive.
Questo è il sostanziale cambiamento di paradigma che la politica deve riuscire a cogliere e l’unica strada percorribile per le popolazioni delle Alte Terre è quella di recuperare una capacità di elaborazione e di azione politica propria, l’alternativa è un colonialismo interno”.
Insiste poi: “L’Italia del Nord, con l’Arco alpino che avvolge pianura più urbanizzata d’Europa e il Piemonte in particolare, possono essere il cantiere per giungere al necessario Patto tra Piè e Monte, tra Monte e Città per pensare un avvenire possibile nell’interesse di tutti.
Proviamoci perbacco, sperando che questo argomento inneschi un “Luogo e Laboratorio di idee” per una Politica con orizzonti nuovi!
I temi su cui confrontarsi sono molti e impostare un dibattito utile per “vivere il Monte” sarebbe utile anche per “vivere il Piano” e mi chiedo se, in questo momento storico, l’anello debole a breve non saranno le periferie delle città. L’inurbamento iniziato dopo l’illuminismo e la prima industrializzazione sta dando segni evidenti di fatica e recuperare un corretto rapporto tra Monte e Piano andrebbe a vantaggio di tutti.
Della necessità di giungere ad un “patto di sindacato” tra Monte e Piano, così lo chiamava lui, me ne aveva parlato nel lontano ’95 Gustavo Malan, uno dei firmatari della Carta di Chivasso e questa sta imponendosi come una sfida da cogliere per pensare un avvenire possibile”.
Gustavo fu mio amico e il suo carattere ribelle e la giovane età all’epoca lo rese l’ultimo testimone di quel celebre incontro e documento di Chivasso del 1943 di cui nel prossimo dicembre ricorderemo gli 80 anni.
Ancora qualche passaggio del contributo di Allocco: “Da un lato i grandi numeri delle masse urbane, dall’altro un territorio scarsamente popolato, un confronto che è storia vecchia, la “questione montana”, emersa chiaramente fin dalla fine del XIX secolo, rimane ancora tale.
In Italia non c’è solo una “questione” che riguarda il Nord e il Sud, ma anche quella tra il Monte e il Piano, argomento da tempo assente dalla agenda politica.
Nel secolo scorso il problema è cambiato nei termini, ma una costante è rimasta sempre eguale: la popolazione che vive le Alte Terre è sempre stata tenuta fuori dalla ricerca di una soluzione.
La mancanza di una rappresentatività dei montanari nella struttura di potere è sempre stata evidente e intravvedo in queste dinamiche una attenzione per le ultime risorse rimaste, con l’affacciarsi di politiche colonialiste”.
Personalmente ho sempre cercato di fare in modo che la Valle d’Aosta mai si dimenticasse di un ruolo da protagonista nel dibattito sulla montagna e una muovo studio sul futuro della Montagna sta partendo con l’Università della Valle d’Aosta e non faremo mancare la nostra voce in un dibattito nazionale che riguarderà anche la nuova legge sulla montagna non buttando via le parti vive della “Carlotto“ che votai alla Camera, sapendo che in troppi se ne occupano in modo spesso astratto e senza avere reale contezza dei problemi dei montanari e dei loro territori, che noi conosciamo e abitiamo senza troppi birignao ideologici. Una vecchia battaglia combattuta con amici come Allocco con cui ci capiamo con un batter di ciglia e vorrei davvero che ci ritrovassimo tutti attorno a punti cardine da far avanzare.
 

I pensieri di Fredo Valla

Leggo sulla pagina di Cuneo de La Stampa un intervento di un noto intellettuale occitano, Fredo Valla, regista, sceneggiatore e giornalista. Un montanaro doc di Sampeyre, che stimo e conosco, che ha realizzato numerosi documentari per la televisione e ha partecipato alla produzione di vari film, in cui molto spesso ci sono state storie delle sue montagne, della sua gente e della sua cultura.
Con molto garbo e più diplomazia rispetto a certi miei interventi. Valla, come leggerete, mette alcuni punti fermi di critica a chi pensa di avere una specie di monopolio sulla montagna e contro la “convegnite”, ma propone anche con un giusto richiamo anche ai doveri dei montanari.
Ecco il testo:
“Il Cai fin dalla sua fondazione nella seconda metà del XIX secolo, ha avuto un ruolo fondamentale per la conoscenza e la divulgazione delle montagne italiane. Una pratica, quella alpinistica, che si sviluppò dapprima in una società aristocratica e alto borghese, intelligente, curiosa, danarosa, sensibile al vigore del proprio corpo e alle novità che la scienza andava rivelando... con molto tempo da perdere. Si diffuse via via tra i ceti popolari, favorita da una nuova organizzazione sociale che consentiva orari di lavoro meno disumani e la conquista del cosiddetto «tempo libero».
Ecco dunque il Cai promuovere e favorire tra i soci, anche attraverso le proprie publicazioni, itinerari, sentieri, e cime non propriamente alpinistiche, di un alpinismo minore, a misura di domenica, di fine settimana, di ferie estive. Un alpinismo pur sempre in altitudine; oltre le meire, oltre i pascoli, verso le rocce, i laghi, i crinali, i nevai... bei paesaggi abbastanza facilmente raggiungibili. Sono nati i rifugi e una piccola economia di alta quota legata all'escursionismo. Un po' di reddito, insomma. ma niente in confronto ai guadagni prodotti dall’industria dell'escursionismo
con attrezzature tecnicamente sempre più raffinate (o semplicemente alla moda), per non parlare delle calzature e dei vestiti firmati.
Con gli anni le pubblicazioni del Cai hanno talvolta allargato lo sguardo all'uomo che in montagna vive, o viveva.
Per intenderci, dai pascoli in giù, nelle borgate e nei paesi che, come sappiamo, dalla seconda dalle metà del XX secolo si sono andati rapidamente spopolando. Sulle pubblicazioni sono comparsi articoli, spesso molto interessanti, sulle tradi-zioni, sulle vicende storiche, su aspetti di economia montana. Pubblicazioni un tempo soltanto sulla carta e ora soprattutto digitali. Si sono anche moltiplicati i convegni sulla montagna. Le intenzioni sono certo lodevoli, ma io non vi partecipo più. Forse perché l'alpinismo delle rocce, dei bei paesaggi, dei laghi e delle creste non è fra i miei interessi primari. Forse perché provo un certo disagio a sentire parlare di rinascita della montagna, sviluppo, economia, minoranze linguistiche, ecologia,
clima, rapporto uomo-animali, da persone che amano la montagna, ma non ne hanno esperienza di vita.
Che salgono dalla città, dalle colline, dalle metropoli a dire che cosa si dovrebbe fare. Che fanno analisi, discutono animatamente e a fine convegno chiudono la cartellina e tornano nelle loro dimore. Scherzando a volte dico agli amici che il patentino da montanaro (e il diritto di parola) lo si dà soltanto a chi ha trascorso per lo meno tre inverni con neve in montagna, e con figli che vanno a scuola. Esagerato? Certo. Dopodiché, se a parlare di montagna sono altri, è colpa anche dei montanari che non sanno essere protagonisti, raccontare di se stessi, lottare per i propri diritti. Spesso, quella di montagna, è una società stanca, talvolta senza volontà, capace soltanto di rivendicare e non di proporre.
Che fare? Ci vorrebbe forse più politica. Più temi montani nella politica. L'Italia, a guardarla sulla carta, è una penisola in cui prevale il marrone, più chiaro, più scuro... il marrone delle montagne, di Alpi, Appennini, monti della Sardegna e della Sicilia.
Forse sarebbe ora di metterle al centro delle scelte. Al centro della politica. Mettere la montagna al centro della politica non significa avere uno sguardo unidirezionale, ma immaginare obiettivi di sviluppo per questi territori, in una visione d'insieme e in relazione con lo sviluppo delle coste, delle pianure, delle metropoli. Forse, come sostiene l'amico Mariano Allocco, ci vuole una nuova e inedita alleanza fra montagna e piano, fra montagna e città”.
Grazie, Fredo.

Non sono su Facebook

Vivo senza Facebook e sono sopravvissuto felicemente, pensando come ci siano altre modalità per comunicare e occasioni più efficaci per indagare i misteri dell’animo umano e la complessità delle relazioni sociali. Per anni a dire il vero avevo pensato di entrarci e avevo persino creato un profilo rimasto morto. Poi ho preso tempo e infine, come dicevo, ho coscientemente desistito.
Par di capire che si tratti di una scelta di serenità, che mi ha convinto a restare nel più tranquillo mare di Twitter, sinché resisterà l’uccellino blu è garanzia di una certo maggior civismo nel comportamento. Poi chissà quali evoluzioni la tecnica ci fornirà: forse una vera Agorà elettronica, come ci ha promesso e per ora deluso il famoso Metaverso.
Ogni tanto, tuttavia, qualcuno più prosaicamente mi segnala quando mi attaccano su Facebook con qualche commento. In genere sono cattiverie, frutto quasi sempre di vecchie ruggini e qualche invidia. “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”, diceva il Sommo Poeta. Siamo nel canto III dell’Inferno e Dante se la piglia con gli ignavi ovvero coloro che sono stati in vita persone incapaci di scelte e di impegno. Ora vengono costretti a inseguire un vessillo bianco, mentre vengono punti in continuazione da insetti ripugnanti, come anime che non meritano né infamia né lode. Molte losche figurine che campeggiano sui Social, spesso anonime, lo meriterebbero.
Per altro se non leggo Facebook, perché dovrei - relata refero - arrabbiarmi? Ho imparato nel frattempo che i più rosiconi sono, spesso appunto ignavi, quelli che in politica c’erano stati e ne sono usciti anzitempo e attaccano chi è in carica per la loro struggente nostalgia nel non esserci. Il veleno negli scritti, se davvero si dimostra un elemento terapeutico, va valutato positivamente, quando serve a canalizzare così rabbia e frustrazioni. In certi casi si crea persino un livore da vecchio collettivo sessantottino e gli attacchi diventano comunicato stampa di partito, che ricordano certi volantini ideologizzati della mia giovinezza, fatti con il ciclostile del tempo che fu.
Fa sorridere, per sdrammatizzare, un celebre aneddoto. Si tratta di una battuta di Ettore Petrolini: un giorno il celebre comico venne fischiato dal loggione. Lui si avvicinò allo spettatore e gli disse in romanesco: «Io nun ce l’ho cò te ma cò quelli che te stanno vicino e nun t’hanno buttato de sotto»”.
Sono d’accordo che in certe occasioni - lo vedo anche in Consiglio Valle quando qualcuno trascende - andrebbe creato un vero e proprio cordone sanitario. Ci sono casi - e proprio i Social sono un campo fruttuoso di esempi - in cui la ribellione alla maleducazione e peggio alle cattiverie dovrebbe essere patrimonio comune non tanto a difesa del simbolo quanto di principi di rispetto e di educazione. Questo non vuol dire frustrare la sana polemica, cui non mi sottraggo mai, quanto fissare dei confini di civiltà e di quieto vivere.
Ormai viviamo in un’epoca di parolacce e alcune sono utili scorciatoie per sveltire la discussione d’un botto. Sono cresciuto in una società in cui la parolaccia non era così liberalizzata. Per cui ricordo da bambino di aver assistito a discussioni fra adulti in cui l’epiteto letale era contenuti nell’affermazione: “Sei ignorante!” oppure “Sei stupido!”. Con la differenza che l’ignoranza la puoi curare, meno si può fare per la stupidità, che si dice - nel vissuto popolare - che sia a sua volta peggio della cattiveria.
Spero si capisca la ricerca di un minimo di ironia su di un tema comunque serio.

La Festa della Valle d’Aosta il giorno dopo

Scrivo oggi ex post della Festa dell’Autonomia, perché ieri - nel cuore della polemica politica contingente - ero ancora sotto choc e anche investito dalle critiche e dal disagio di tante persone amiche per un voto in Consiglio regionale, che naturalmente ha sconcertato anche me.
Guardo avanti come necessario e non mi attardo sulle polemiche, ma annoto solo che ”franchi tiratori” è un termine settecentesco e designava gli antesignani degli odierni cecchini. Dal contesto bellico è passato al linguaggio politico e giornalistico italiano. Ma mentre in guerra i franchi tiratori agiscono a supporto della loro fazione, i franchi tiratori in politica usano il segreto dell’urna per agire contro la loro stessa parte politica. C’è una bella differenza fra imbracciare il fucile per il proprio esercito e invece usare la pallottola/scheda elettorale come fuoco amico per impallinare alla schiena un alleato.
Chiusa parentesi, torno all’Autonomia e alle diverse necessità da evocare nel corso di una Festa che nasce per ricordare lo Statuto. Per un certo periodo, su mia iniziativa, venne celebrata una Festa più profonda il 7 settembre, data in cui si metteva assieme l’antico e cioè la presenza in Valle d’Aosta dei Savoia per le udienze in occasione di San Grato, Patrono della diocesi, con il Decreto luogotenenziale del 1945, che è il seme da cui fruttò lo Statuto. A differenza della celebrazione di ieri, tutta ufficiale e ristretta a poche centinaia di persone, l’idea era quella di una vera e propria festa popolare. Durò poco per ostilità politiche su cui non torno.
Ma, pensando a ieri, ne confermo la bontà, perché una Festa su una data storica più significativa e con una comunità davvero coinvolta sarebbe un punto di riferimento utile per celebrare il nostro senso identitario partecipato, senza il quale le ragioni politiche rischiano di non avere più quella base di conoscenza e di consapevolezza che sono le fondamenta stesse della nostra Autonomia e anche della necessità di espanderla nel tempo.
Ricordo, avendo vissuto le esperienze elettive che ho avuto, che a Roma e a Bruxelles bisogna sempre spiegare la nostra Autonomia, affermandone le ragioni condivise dal nostro popolo, altrimenti la Politica sarebbe solo un’espressione difensiva di diritti acquisiti ormai tanti anni fa e non un processo dinamico e vivente in continuo aggiornamento.
A diritti - lo dico sempre - corrispondono doveri. Il dovere di capire la nostra Storia, di sapere cos’è lo Statuto, di essere attenti alle particolarità linguistiche e culturali, di avere cura a vantaggio della nostra economia della nostra Montagna, di far passare alle nuove generazioni il messaggio della fierezza di essere valdostani con la libertà per tutti quelli che vivono qui di condividere i valori della nostra comunità.
Capisco quanto sia complesso e impegnativo, ma solo così la Festa attuale evita di essere un momento di soli discorsi ufficiali. Per altro ieri sono stati di qualità, in un momento in cui non era facile esprimersi in pubblico per la vergogna di una crisi ancora irrisolta e bene ha descritto la situazione con lucidità il Presidente della Regione Luigi Bertschy.
Ogni celebrazione va, comunque sia, inserita in uno sforzo personale e collettivo di alfabetizzazione autonomista, resa ancora più indispensabile in un mondo globalizzato, che non è in sé un male, perché siamo cittadini europei e del mondo, ma lo diventa se questo serve a sradicare e spersonalizzare noi e soprattutto i nostri ragazzi. Aggiungo solo che esiste di certo un ruolo della scuola, dalle scuole dell’infanzia all’Università valdostana, di lavorare bene sulla civilisation Valdôtaine e non per una questione di chissà quale indottrinamento, ma per fornire in modo oggettivo e pluralista le ragioni dell’esistenza stessa di una piccola Regione autonoma come la nostra.
L’Autonomia ha purtroppo nemici esterni e pure interni, sia per ragioni ideologiche che per semplice sciatteria e scarsa memoria. Per cui anche le famiglie - ciascuno di noi - si deve sforzare di fare il proprio e cioè quanto necessario per mantenere viva una comunità che già rischia grosso con fenomeni epocali come la denatalità che svuota le nostre culle.

L’uovo di Colombo

Confesso di essere un frequentatore dei supermercati, come li si chiamava una volta agli albori della loro nascita, quando erano rari. Oggi hanno diverse taglie e quelli che fanno più impressione sono gli ipermercati, che raccolgono una varietà merceologica - penso si dica così - che intimorisce. E restano anche, fatti salvi i prodotti standard di respiro ormai mondiale che si trovano ovunque, una delle chiavi di lettura dei Paesi che si visitano perché si trovano merci che connotano e diventano cartina di tornasole più di altro degli uso e dei costumi.
Quel che mi fa colpisce ormai è la tempistica stagionale che anticipa sempre di più, dovuta ad ovvie ragioni di marketing. Così già da qualche giorno sono spuntate da noi le uova di Pasqua e sembra ieri che si esaurivano le scorte dei panettoni natalizi.
Visto che mi tocca scrivere per mantenere il ritmo, guardando queste uova stipate nelle scansie, mi è venuta in mente una espressione che non dovrebbe mai dimenticare e può risultare utile alla bisogna: l’uovo di Colombo.
Il personaggio interessato è proprio lui, Cristoforo Colombo, il grande navigatore che, tra l’altro, ma lo dico per pura vanagloria, da alcune ricerche è risultato essere amico di un mio antico avo suo coevo, il celebre cartografo genovese Nicolò Caveri.
Ma torniamo all’uovo. Cristoforo Colombo era da poco tornato in Europa dalla sua più celebre esplorazione che, alla ricerca del passaggio a Ovest verso le Indie, lo aveva portato alla scoperta dell’America.
Per un suo impegno ufficiale quando forse non si capiva l’importanza delle sue scoperte, Colombo venne chiamato nella dimora del Cardinale Mendoza per una cena in suo onore. Colombo si ritrovò così al tavolo con alcuni gentiluomini spagnoli che, però si dimostrano scettici sulla sua impresa. Così Colombo — con un gesto che diverrà leggendario - prese un uovo e chiese loro per sfidarli di metterlo in posizione verticale sul tavolo. Ognuno prova e riprova più volte, ma invano. Infine, Colombo diede un colpo al fondo dell’uovo sullo spigolo del tavolo appiattendone la superficie quindi pose l’uovo sul tavolo, che restò in piedi infine fermo ed è questa la soluzione che ha creato il modo di dire.
Trovo che la semplicità del gesto, ovviamente beffardo, andrebbe adoperato in molte occasioni della vita. Capita quotidianamente non solo di trovare chi critichi a vanvera in questi mondo popolato in più sui di “bastian contrari”, oggi star sui Social. E ci sono - quanti ne ho incontrati in gangli vitali della burocrazia - i complicatori affari semplici, messi alla berlina dal celebre Fantozzi, il travet inventato dal compianto Paolo Villaggio.
Ogni giorno e in mille occasioni incontriamo coloro che amano mettere la sabbia negli ingranaggi, si compiacciono delle procedure le più bizantine, obbligano a vere e proprie acrobazie per risolvere questioni elementari. Mi capita di questi tempi per sbloccare una pratica assai ordinaria e sono costretto a firme ripetute, a dichiarazioni della mia identità, a formulari antiriciclaggio e - essendo politico e in quanto tale sospetto - ad ulteriori documentazioni che immagino servano a dimostrare che non…rubo.
Ogni volta vorrei raccontare quanto risolvibile in fretta, anche senza avere sulla scrivania l’uovo di Colombo.

Un terribile dolore

Ci sono pudori necessari anche verso i dolori altrui ed è bene affrontarli in punta di piedi e solo sussurrando a bassa voce per non disturbare.
Non sempre è facile interagire con chi abbia avuto un lutto. Ogni volta che mi capita di partecipare alla morte di qualcuno non sempre riesco a trovare le parole giuste e invidio chi lo sappia fare, perché è un dono essere consolatori, senza violare gli spazi così umani di chi patisce.
Ci pensavo guardando con sincera partecipazione umana e con un turbinio di pensieri, l’epigrafe di un giovane studente che in questi giorni ha purtroppo lasciato la vita per sua scelta.
In Valle d’Aosta ognuno di noi ha conosciuto persone che se ne sono andate così e abbiamo visto e vissuto lo strazio per eventi che colpiscono chi resta. Quando cioè non ci sono elementi consolatori e lenitivi che tengano di fronte alla brutalità dell’evento. Spesso ho apprezzato le omelie di quei preti che di fronte a certe tragedie familiari hanno saputo al momento delle esequie, con garbo ma senza eccessi retorici, trovare quegli elementi di vicinanza e di affetto che sono fra le poche cose che non stridono con morti subitanee alle quali non si può dare una spiegazione razionale.
L’ho vissuto, parlandone con un amico d’infanzia, che ha perso il figlio, un figlio straordinario, intelligente e studioso, ritrovato inopinatamente un mattino senza vita, in assenza di qualunque segnale d’allarme che potesse far presumere la scelta estrema. Decisione che lascia sgomenti e angosciati sul perché nulla si fosse percepito per poter evitare la tragedia e ci si carica di pesi pieni di interrogativi che in larga parte resteranno tali.
Ha scritto Claudio Magris, abile indagatore dell’animo umano, citando in premessa uno scrittore argentino, che morì a 99 anni: “Ernesto Sábato ha scritto di aver pensato alcune volte al suicidio e di essersene astenuto per non recare dolore agli altri, convinto che non sia lecito far soffrire nessuno, nemmeno un cane. Ma se uno non ce la fa, se il mondo che come Atlante egli regge sulle sue spalle è per lui troppo pesante e lo schianta, lo maciulla? Chi può imporre a un altro di sopportare sofferenze per lui insostenibili? Sofferenze che possono essere anche solo psichiche, ma non perciò meno crudeli e intollerabili. Forse si ha più comprensione per i dolori fisici che per quelli psichici e spirituali. Ma perché un cancro dovrebbe commuovere più di un’ossessione che occupa la mente sino alla disperazione?”.
Tema difficile, profondo e bisogna essere rispettosi e mai liquidare la scelta estrema con faciloneria. Cesare Pavese fu uno dei più importanti scrittori italiani del secolo scorso. Morì suicida il 27 Agosto 1950 a Torino ingerendo 10 bustine di sonnifero e lasciò una frase ben nota e lapidaria di suo pugno: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”.
Anni dopo si seppe di un altro biglietto, ritrovato la sera della morte, sul quale Cesare Pavese appuntò 3 frasi. Nella prima, tratta proprio dai ‘Dialoghi con Leucò’ il libro che fu trovato accanto al corpo, si legge: “L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia”. La seconda frase è una citazione dal Diario Pavesiano, “Il mestiere di vivere”, e venne scritta qualche giorno prima della sua tragica fine: “Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti”. La terza frase, che potrebbe essere stata pensata e messa per iscritto nelle ultime ore di vita, è lapidaria: “Ho cercato me stesso”.
Sembra un paradosso un epitaffio così fatto. Eppure il grande mistero della morte si spalanca anche e forse soprattutto di fronte a chi, non sopportando più la vita, la lascia anzitempo con un addio drammatico.

Condividi contenuti

Registrazione Tribunale di Aosta n.2/2018 | Direttore responsabile Mara Ghidinelli | © 2008-2021 Luciano Caveri