Quando sento alla televisione, riferito alle vicende difficili del gigantesco stabilimento siderurgico di Taranto, il termine "Ilva", ereditato dal "Gruppo Riva" dall'azienda delle Partecipazioni statali, è come se un flusso di ricordi mi attraversasse. Come cronista seguii quella fase alla fine degli anni Ottanta che portò, con l'aiuto dell’allora presidente dell'Iri, Romano Prodi, alla privatizzazione dello stabilimento, nel 1994, come unica ancora di salvataggio rispetto all’ormai chiara deriva della siderurgia pubblica. Ricordo come allora uno dei problemi fosse proprio quello ambientale, che oggi drammaticamente emerge per la fabbrica pugliese in un "batti e ribatti" di responsabilità che è esemplificativo dell'Italia. Se lo stabilimento di Taranto è datato anni Sessanta, quello di Aosta risale - passando da lavorazioni artigianali ad attività industriali vere e proprie sotto il marchio "Ansaldo" - agli anni Venti del secolo scorso, nato sulla scia di una lunga tradizione di lavorazione dei metalli, nata in Valle per la favorevole circostanza di fonti energetiche (in successione: bosco, carbone, idroelettrico) e di materie prime, come le grandi miniere di Cogne che diedero il nome storico alla fabbrica e all'acciaio noto davvero in tutto il mondo.
Ma quella città nella città, che era la vasta "area Cogne", era - nel periodo di massima espansione parliamo di ben cento ettari - significava anche molti veleni e sarebbe interessante, ammesso che i dati esistano, fare degli studi epidemiologici non solo sulle malattie professionali, su cui forse la documentazione storica esiste, ma anche sulla ricaduta sulla città e l'incidenza di malattie conseguenza della vicinanza della fabbrica. Io ricordo da ginnasiale certe giornate negli anni Settanta in cui l'aria davanti al Liceo classico non era molto respirabile e le lenzuola stese sui balconi diventavano nere come la pece o penso alle malattie con cui sono morti due dei miei zii che lavoravano alla "Cogne" (uno chimico, l'altro ingegnere) per pensare che ci potesse ragionevolmente essere un rapporto di causa-effetto fra condizioni di lavoro e manifestarsi delle patologie. Non sto troppo a tediarvi con io dati, ma quando si iniziò a discutere sulla bonifica dell'area Cogne, specie per il suo recupero urbanistico, anche con l'aiuto di cospicui finanziamenti comunitari, la situazione non era granché bella, pensando che dall’inizio del secolo scorso sino agli anni Novanta si erano accumulati nell'area milioni di metri cubi di scorie, di fanghi, di polveri e di materiali vari ovviamente nocivi, come evidenziato da apposite investigazioni ambientali in vista del necessario risanamento. La soluzione individuata era la rimozione di materiali pericolosi - tipo amianto o serbatoi di idrocarburi - ma soprattutto la messa in sicurezza del sito attraverso un "capping", cioè un sistema di isolamento del materiale nocivo, che evitasse "fughe" verso le falde acquifere e consentisse di avere materiale "buono" in superficie dove creare i nuovi spazi industriali. A questi processi di bonifica del materiale storico sono seguite procedure di monitoraggio delle lavorazioni correnti e del loro impatto ambientale sempre sulle acque, sull'atmosfera, sul suolo, sul rumore e per quel che riguarda i rifiuti tossici. Sono testimone, nella mia attività amministrativa, di momenti delicati di scelta e di intervento in un’interlocuzione continua tra diversi poteri dello Stato (visto che c'è la Regione di mezzo sarebbe meglio dire "diversi poteri della Repubblica"), compresa la Magistratura che riveste un ruolo significativo, come dimostrato nel caso di Taranto. Non so se il "caso Aosta" possa essere utile per Taranto, dove le dimensioni sono enormemente superiori e la gravità della situazione davvero allarmante, ma ho l'impressione che agire sulla spinta dell'emergenza ambientale renda tutto più difficile e l'equilibrio fra i problemi occupazionali e la tutela della salute e dell'ambiente obblighino a soluzioni intelligenti, sempre difficili da raggiungere sull'onda dell'emotività.