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02 set 2014

Paternità

di Luciano Caveri

George Brassens ci scherzava sopra: «Trouver son père sympathique, C'est pas automatique. Avoir un fils qui nous agrée, Ce n'est pas assuré». Il tema è certo di quelli da trattare con le pinze, ma con il necessario disincanto, perché l'evoluzione è in corso con rapidità sconcertante. Che sia il più ufficiale "padre" (usato dal mio primogenito come sfottò) o il famigliare "papà" ("babbo" non fa parte del mio vocabolario), lo status genitoriale non cambia. Nessuno ti spiega mai bene e con anticipo qualcosa attorno alla paternità, che con la mamma, diventa assieme "genitorialità". Ho letto qualcosa sul tema prima di diventarlo, ma poi - ognuno con i propri limiti e, purtroppo nel mio caso, per troppe assenze a causa dell'attività politica - si agisce per istinto, per imitazione e anche battendo il naso. Si tratta, comunque sia, di un lavoro delicatissimo e fa sorridere che in questo mondo ogni formazione dei genitori sia in realtà facoltativa e spesso solo confessionale. Non dico che ci vorrebbe un patentino, come avviene persino per la guida per dei motorini, ma guardandomi in giro talvolta mi viene sin sulla punta della lingua di dire, finendo male se mi scappasse: «ma chi vi ha dato la patente?». Ma appunto la patente non c'è e talvolta purtroppo non viene da sorridere, quando vediamo certi orrori combinati su figli innocenti da genitori criminali o pazzi, che hanno concepito e cresciuto figli senza che ci fosse alcuna accortezza. Personalmente sono un papà, la cui gamma di figliolanza oscilla fra il 1995 e il 2010, cosciente di quanto questo comporti gioie e di preoccupazioni, che mutano nel tempo con la loro e la tua età. Giunto a tre pargoli e fermatomi per ovvie ragioni, osservo con speranza la loro crescita, augurandomi di aver fatto quanto andava fatto, cosciente che ogni nostra azione è lastricata di errori e il legame con i figli è un percorso tortuoso. Noto, nel perimetro delle conoscenze personali e nelle esperienze della famiglia, come molto stia cambiando. Esiste un vero abisso fra il pater familias tradizionale del passato (ma non così distante da noi) e le versioni più moderne dei "mammi", cioè il modello più recente del papà che scivola lentamente in forme non di piena consapevolezza del proprio ruolo nel rapporto coi figli, ma in precario equilibrio sul saponoso terreno di surroga della mamma. Per carità, nessun "j'accuse" e neppure "divertissement" verso i maschi che possono fruire dei diritti di maternità e dell'allattamento, ma penso sempre che qualche ruolo reciproco - non sempre così intercambiabile - offra un quadro di chiarezza. Certo ognuno poi, nel farsi dei giri di testa, pensa al proprio di papà e a quella profezia di Gabriel García Marquez: «Un uomo sa quando sta diventando vecchio perché comincia ad assomigliare a suo padre». Qualche avvisaglia esiste - ad esempio nel battutismo del mio vecchio, che da giovane mi faceva preoccupare per il rischio gaffes e che mi ritrovo ora - ma mi tengo sotto controllo. Così come - ma loro lo sapranno solo fra tanti decenni - noto nei miei figli caratteristiche, pregi e difetti di quella che con poesia si chiama "air de famille", ma noi più prosaicamente sappiamo essere la genetica e la formazione culturale che li forgia con il contributo centrale, se giocano un ruolo, di mamma e papà.