Ogni epoca ha i suoi "tic" linguistici in politica, che si diffondono come una malattia infettiva. Dall'uso all'abuso il passo è semplice anche per parole in partenza nobilissime. Pensavo in queste ore all'impiego ormai martellante del termine "riforma", che ricorda di fatto nei suo esiti annunciati quello che l'ambrosia era nella mitologia, vale a dire un cibo che assicurava l'immortalità agli dei e agli uomini che la mangiassero. Oppure - per restare ad un esempio classico - alla straordinaria e multiforme pietra filosofale dell'alchimia, compresa la speranza di ottenere oro da un pezzo di ferro.
Invece in fondo la "Treccani" ci fa tornare coi piedi ben saldi per terra nella definizione standard di "riforma": "Modificazione sostanziale, ma attuata con metodo non violento, di uno stato di cose, un'istituzione, un ordinamento, eccetera, rispondente a varie necessità ma soprattutto a esigenze di rinnovamento e di adeguamento ai tempi, l'effetto, il risultato stesso di tale attività, cioè i cambiamenti che si sono operati, le modificazioni che si sono compiute: operare, "introdurre una riforma", "delle riforme"; riforme sociali, economiche, politiche; riforme di struttura o strutturali, che incidono in profondità sulla situazione socio-economica, come la riforma agraria o fondiaria, la riforma urbanistica, la riforma scolastica, la riforma sanitaria, la riforma fiscale, eccetera; riforma delle leggi, dei codici; riforma della burocrazia; riforma del calendario, come la riforma giuliana e la riforma gregoriana; riforma dell’ortografia; riforma dei costumi; "una riforma radicale", profonda o superficiale, parziale; riforme graduali, progressive...". Insomma il breve elenco illustra la varietà possibile e consente di capir come la chiave di volta dell'attuale politica italiana rischi di diventare come il prezzemolo nelle pietanze. Specie se la musica di fondo della discontinuità è - anche se c'è molta apparenza - buttare via tutto il vecchio a vantaggio del nuovo bello e immaginifico. Come il colore che si sostituisca al bianco e nero. Chi critica la situazione italiana - e io ne ho scritto all'infinito - non potrebbe che plaudire di fronte ad attività frenetica e persino sfrontata che mira a una mutazione epocale. Il "ritmo" che il renzismo ha indicato per il 2015 come colonna sonora è una specie di "hip hop", cioè quel genere ormai diffuso che gioca tutto proprio su di un ritmo fortemente sincopato e uniforme sul quale la voce scandisce una testo cantilenante e spesso rimato. Ma esiste evidentemente un elemento piuttosto paradossale. Si criticano i diktat europei, basati sul contraddittorio binomio fra austerità e riforme, ed è giusto farlo perché l'austerità implica un ridimensionamento draconiano della spesa pubblica e di parte dello Stato sociale (e farlo è necessario, ma implica grandi attenzioni evitando di fare di ogni erba un fascio), mentre realizzare riforme - specie nelle prime fasi di avvio - necessità sempre un esborso di risorse che rischia dunque di creare un corto circuito con tagli e risparmi. Ma c'è un però. Infatti se leggiamo il "Patto di stabilità" in vigore ci accorgiamo che gran parte del riformismo è verbale e quanto realizzato sinora ha spesso il sapore della controriforma. Esemplare la nuovo legge elettorale per le politiche in itinere, che privilegia - in barba ad un cambiamento per contrastare l'antipolitica - i nominati dei partiti rispetto agli eletti scelti dai cittadini. Quando si criticava il "Porcellum" questo sembrava uno degli elementi della... riforma ed invece meglio scegliere nelle "segrete stanze" che attraverso le urne. Ancor peggio per una riforma costituzionale statalista e che è di certo controriforma rispetto al venticello federalista di una quindicina di anni fa. Per cui suggerirei un uso parco della parola "riforma". Mi auguro che il nuovo Presidente Sergio Mattarella comperi una matita rossa e blu per segnare gli eccessi.