Gianfranco Pasquino è un politologo che ho conosciuto quando eravamo in Parlamento. Carattere non facile, spesso agro, ma originato da una conoscenza approfondita del diritto costituzionale e della scienza politica, che lo rende irritabile in caso si proferiscano scemenze. Leggendolo mi pareva, ma magari sbaglierò, senza partito preso nei confronti dell'arrivo sulla scena di Matteo Renzi. Posizione in cui io stesso mi riconosco. Ma poi mi pare che siamo accomunato dal destino che ad un crescente scetticismo - con la celebre riforma costituzionale - si sia passati ad una reale preoccupazione. Per questo pubblico un suo recente appello in dieci punti contro la riforma renziana e le sue conseguenze.
Ecco i punti con commento finale dello stesso Pasquino: Il "no" non significa immobilismo costituzionale. Non significa opposizione a qualsiasi riforma della Costituzione che sicuramente è una ottima costituzione. Ha obbligato con successo tutti gli attori politici a rispettarla. Ha fatto cambiare sia i comunisti sia i fascisti. Ha resistito alle spallate berlusconiane. Ha accompagnato la crescita dell'Italia da paese sconfitto, povero e semi-analfabeta a una delle otto potenze industriali del mondo. Non pochi esponenti del "no" hanno combattuto molte battaglie riformiste e alcune le hanno vinte (legge elettorale, legge sui sindaci, abolizione di ministeri, eliminazione del finanziamento statale dei partiti). Non pochi esponenti del "no" desiderano riforme migliori e le hanno formulate. Le riforme del governo sono sbagliate nel metodo e nel merito. Non è indispensabile fare riforme condivise se si ha un progetto democratico e lo si argomenta in Parlamento e agli elettori. Non si debbono, però, fare riforme con accordi sottobanco, presentate come ultima spiaggia, imposte con ricatti, confuse e pasticciate. Noi non abbiamo cambiato idea. Riforme migliori sono possibili. No, non è vero che la riforma del Senato nasce dalla necessità di velocizzare il procedimento di approvazione delle leggi. La riforma del Senato nasce con una motivazione che accarezza l'antipolitica «risparmiare soldi» (ma non sarà così che in minima parte) e perché la legge elettorale "Porcellum" ha prodotto due volte un Senato ingovernabile. Era sufficiente cambiare in meglio, non in un "porcellinum", la legge elettorale. Il bicameralismo italiano ha sempre prodotto molte leggi, più dei bicameralismi differenziati di Germania e Gran Bretagna, più della Francia semipresidenziale e della Svezia monocamerale. Praticamente tutti i governi italiani sono sempre riusciti ad avere le leggi che volevano e, quando le loro maggioranze erano inquiete, divise e litigiose e i loro disegni di legge erano importanti e facevano parte dell'attuazione del programma di governo, ne ottenevano regolarmente l'approvazione in tempi brevi. No, non è vero che il Senato era responsabile dei ritardi e delle lungaggini. Nessuno ha saputo portare esempi concreti a conferma di questa accusa perché non esistono. Napolitano, deputato di lungo corso, Presidente della Camera e poi Senatore a vita, dovrebbe saperlo meglio di altri. Piuttosto, il luogo dell'intoppo era proprio la Camera dei Deputati. Ritardi e lungaggini continueranno sia per le doppie letture eventuali sia per le prevedibili tensioni e conflitti fra senatori che vorranno affermare il loro ruolo e la loro rilevanza e deputati che vorranno imporre il loro volere di rappresentanti del popolo, ancorché nominati dai capipartito. No, non è vero che gli esponenti del "no" sono favorevoli al mantenimento del bicameralismo. Anzi, alcuni vorrebbero l'abolizione del Senato; altri ne vorrebbero una trasformazione profonda. La strada giusta era quella del modello Bundesrat, non quella del modello misto francese, peggiorato dalla assurda aggiunta di cinque senatori nominate dal Presidente della Repubblica (immaginiamo per presunti, difficilmente accertabili, meriti autonomisti, regionalisti, federalisti). Inopinatamente, a cento senatori variamente designati, nessuno eletto, si attribuisce addirittura il compito di eleggere due giudici costituzionali, mentre seicentotrenta deputati ne eleggeranno tre. E' uno squilibrio intollerabile. No, non è vero che è tutto da buttare. Alcuni di noi hanno proposto da tempo l'abolizione del "Cnel". Questa abolizione dovrebbe essere spacchettata per consentire agli italiani di non fare, né a favore del "sì" né a favore del "no", di tutta l'erba un fascio. Però, no, non si può chiedere agli italiani di votare in blocco tutta la brutta riforma soltanto per eliminare il "Cnel". Alcuni di noi sono stati attivissimi referendari. Non se ne pentono anche perché possono rivendicare successi di qualche importanza. Abbiamo da tempo proposto una migliore regolamentazione dei referendum abrogativi e l'introduzione di nuovi tipi di referendum e di nuove modalità di partecipazione dei cittadini. La riforma del governo non recepisce nulla di tutta questa vasta elaborazione. Si limita a piccoli palliativi probabilmente peggiorativi della situazione attuale. No, la riforma non è affatto interessata a predisporre canali e meccanismi per una più ampia e intensa partecipazione degli italiani tutti (anzi, abbiamo dovuto registrare con sconforto l'appello di Renzi all'astensione nel referendum sulle trivellazioni), ma in particolare di quelli più interessati alla politica. No, non è credibile che con la cattiva trasformazione del Senato, il governo sarà più forte e funzionerà meglio non dovendo ricevere la fiducia dei Senatori e confrontarsi con loro. Il governo continuerà le sue propensioni alla decretazione per procurata urgenza. Impedirà con ripetute richieste di voti di fiducia persino ai suoi parlamentari di dissentire. Limitazioni dei decreti e delle richieste di fiducia dovevano, debbono costituire l'oggetto di riforme per un buongoverno. L'Italicum non selezionerà una classe politica migliore, ma consentirà ai capi dei partiti di premiare la fedeltà, che non fa quasi mai rima con capacità, e di punire i disobbedienti. No, la riforma non interviene affatto sul governo e sulle cause della sua presunta debolezza. Non tenta neppure minimamente di affrontare il problema di un eventuale cambiamento della forma di governo. Tardivi e impreparati commentatori hanno scoperto che il voto di sfiducia costruttivo esistente in Germania e importato dai Costituenti spagnoli è un potente strumento di stabilizzazione dei governi, anzi, dei loro capi. Hanno dimenticato di dire che è un deterrente contro i facitori di crisi governative per interessi partigiani o personali (non sarebbe stato facile sostituire Letta con Renzi se fosse esistito il voto di sfiducia costruttivo), si (deve) accompagna(re) a sistemi elettorali proporzionali non a sistemi elettorali, come l'Italicum, che insediano al governo il capo del partito che ha ottenuto più voti ed è stato ingrassato di seggi grazie al premio di maggioranza. I sostenitori del "no" vogliono sottolineare che la riforma costituzionale va letta, analizzata e bocciata insieme alla riforma del sistema elettorale. Infatti, l'Italicum squilibra tutto il sistema politico a favore del capo del governo. Toglie al Presidente della Repubblica il potere reale (non quello formale) di nominare il Presidente del Consiglio. Gli toglie anche, con buona pace di Scalfaro e di Napolitano che ne fecero uso efficace, il potere di non sciogliere il Parlamento, ovvero la Camera dei deputati, nella quale sarà la maggioranza di governo, ovvero il suo capo, a stabilire se, quando e come sciogliersi e comunicarlo al Presidente della Repubblica (magari dopo le 20.38 per non apparire nei telegiornali più visti). No, quello che è stato malamente chiesto non è un referendum confermativo (aggettivo che non esiste da nessuna parte nella Costituzione italiana), ma un plebiscito sulla persona del capo del governo. Fin dall'inizio il capo del governo ha usato la clava delle riforme come strumento di una legittimazione elettorale di cui non dispone e di cui, dovrebbe sapere, neppure ha bisogno. Nelle democrazie parlamentari la legittimazione di ciascuno e di tutti i governi arriva dal voto di fiducia (o dal rapporto di fiducia) del Parlamento e se ne va formalmente o informalmente con la perdita di quella fiducia. Il capo del governo ha rilanciato. Vuole più della fiducia. Vuole l'acclamazione del popolo. Ci «ha messo la faccia». Noi ci mettiamo la testa: le nostre accertabili competenze, la nostra biografia personale e professionale, se del caso, anche l'esperienza che viene con l'età ben vissuta, sul referendum costituzionale (che doveva lasciare chiedere agli oppositori, referendum, semmai da definirsi oppositivo: si oppone alle riforme fatte, le vuole vanificare). Lo ha trasformato in un mal posto giudizio sulla sua persona. Ne ha fatto un plebiscito accompagnato dal ricatto: «se perdo me ne vado». Le riforme costituzionali sono più importanti di qualsiasi governo. Durano di più. Se abborracciate senza visione, sono difficili da cambiare. Sono regole del gioco che influenzano tutti gli attori, generazioni di attori. Caduto un governo se ne fa un altro. La grande flessibilità e duttilità delle democrazie parlamentari non trasforma mai una crisi politica in una crisi istituzionale. Riforme costituzionali confuse e squilibratrici sono sempre l'anticamera di possibili distorsioni e stravolgimenti istituzionali. Il ricatto plebiscitario del Presidente del Consiglio va, molto serenamente e molto pacatamente, respinto.
Quello che sta passando non è affatto l'ultimo trenino delle riformette. Molti, purtroppo, non tutti, hanno imparato qualcosa in corso d'opera. Non è difficile fare nuovamente approvare l'abolizione del "Cnel", e lo si può fare rapidamente. Non è difficile ritornare sulla riforma del Senato e abolirlo del tutto (ma allora attenzione alla legge elettorale) oppure trasformarlo in Bundesrat. Altre riforme verranno e hanno alte probabilità di essere preferibili e di gran lunga migliori del pasticciaccio brutto renzian-boschiano. No, non ci sono riformatori da una parte e immobilisti dall'altra. Ci sono cattivi riformatori da mercato delle pulci, da una parte, e progettatori consapevoli e sistemici, dall’altra. Il "no" chiude la porta ai primi; la apre ai secondi e alle loro proposte e da tempo scritte e disponibili.