Non sono appassionato vero e proprio di ciclismo, né come praticante né come tifoso, anche se ieri - per i casi della vita - ero esattamente dove i ciclisti affrontavano a Torino la salita del circuito finale del coloratissimo "Giro d'Italia". Ma partiamo dall'inizio: uno dei momenti più emozionanti della mia vita fu da bambino quando mi venne regalata la bici cross, comprata dal negozio "Janin" di Verrès. Erano negozi con annesse piccole officine, perché la bici era importante per spostarsi negli anni Sessanta. Ricordo, davanti a casa mia, centinaia di biciclette nelle apposite rastrelliere, delle operaie del vecchio cotonificio che arrivavano pedalando in fabbrica dai paesi vicini. Poi ho avuto una bicicletta da corsa, ma - malgrado alcune discese divertenti verso il Canavese - appurai come non fosse il mio sport.
Ora, di tanto in tanto, mi aggiro con una mountain bike (disciplina in grande progressione), che ha il vantaggio di avere delle marce a passo superidotto (un amico carogna mi ha mandato un SMS mentre arrancavo in salita con scritto un chiarissimo «lascia perdere»). Come tifoso, ho vissuto anni in cui il "Giro d'Italia" era un fenomeno sociale e ricordo i passaggi in Valle d'Aosta con i ciclisti che passavano in un battibaleno, ma a noi interessavano i piccoli gadget della carovana. D'estate poi si giocava con le biglie nelle piste di sabbia in spiaggia con sopra le facce dei campioni più noti: a me piaceva Gianni Motta. Da adulto mi son goduto il passaggio del "Tour" sulle nostre montagne ed ho avuto modo di apprezzare l'agguerrita macchina organizzativa di uno degli spettacoli sportivi più visti in televisione al mondo. Purtroppo a raffreddarmi sono le storie periodiche di doping che partono dagli esordi di questo sport, vista la rudezza della disciplina, e oggi si ripropongono periodicamente, sgretolando il mito di troppi campioni che seguivo con simpatia. Per cui a un certo punto ti stufi, anche se poi - di nascosto da te a te stesso ed in barba alla coerenza - segui lo stesso. D'altra parte ha fatto bene a scrivere Domenico Quirico: «E' vero: il ciclismo non è uno sport, è un genere: come la tragedia classica e il romanzo. Prende come loro la misura del mondo e i suoi eccessi». E ci stanno, dunque, il bilanciamento fra il Bene e il Male. E così, l'altro giorno - prima di vederne un pezzettino fugace delle fasi finali dalla finestra di dove mi trovo - mi sono goduto le tappe alpine alla televisione a cavallo fra Piemonte e Francia nella mia amata terra occitana, così come avevo dato un occhiata alle classiche dolomitiche. Vien da chiedersi perché non siamo mai riusciti a radicare una tappa valdostana che diventasse anch'essa una "classica". Capisco che i nostri Colli del Piccolo e del Gran San Bernardo - entrambi straordinari per la loro spettacolarità - hanno problemi confinari e soprattutto di innevamento assai tardivo. Ma avere regolarità nel passaggio di una tappa darebbe - a prezzi ragionevoli - un grande lustro e notevole pubblicità, come avviene anche per i tapponi alpini del "Tour de France", che hanno alimentato pagine leggendarie del ciclismo mondiale. Sulla bicicletta ha scritto argutamente Jean Bobet: «La bicyclette n'est sortie ni du cerveau d'un savant ingénieur, ni de la planche à dessins d'un génial concepteur. Elle est la somme de trouvailles et de bricolages apportés par des artisans ingénieux. Le miracle est qu'une telle somme ait produit un engin d'une telle simplicité. Le cyclisme, pour être plaisant, doit s'apprendre». Così ti viene in mente che un grande passaggio da bambino è quando - una volta togliendo le rotelline, oggi passando da biciclettine a spinta a quelle a pedali - impari a pedalare con l'aiuto dei tuoi genitori. E' uno dei primi passaggi concreti per capire che cosa sia la libertà.