A suo tempo, ad essere preciso davanti all'ospedale di Aosta, dove i pensionati "Cgil" raccoglievano le firme, ho sottoscritto i tre quesiti referendari in tema di lavoro proposti da questo sindacato, che chiedono, rispettivamente, l'abolizione del "Jobs act" (anglicismo) con riguardo - in certi casi - al ritorno all'articolo 18 dello "Statuto dei lavoratori" con la reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamento disciplinare giudicato illegittimo, la cancellazione dei "voucher" (anglicismo) e infine il ritorno alle garanzie per i contributi dei lavoratori delle ditte che subappaltano lavori. La mia firma, a suo tempo, non entrava neppure nel merito tecnico della proposta, che è nell'insieme complessa, perché si opera in una logica di ritaglio con il referendum abrogativo.
Devo dire che quella mia firma aveva alcune valenze diverse: la prima è reagire all'impressione di una crescente precarizzazione del lavoro per meccanismi che hanno di fatto dimostrato di non funzionare, la seconda è la mia tendenza libertaria ad aiutare chi raccolga le firme, la terza meno nobile è che ritenevo i referendum un calcio nel sedere allo strapotere renziano, ma questo nel frattempo è avvenuto con quell'altro referendum. Certo solo a gennaio sapremo se la Consulta accetterà i quesiti e se dunque si dovrebbe andare alle urne in primavera e, in quel caso, Matteo Renzi è già stato esplicito nel ritenere percorribile lo sgonfiamento dei referendum con il voto per le politiche, che rinvierebbe all'anno successivo le urne per i referendum. Una scelta dovuta all'alto tasso di politicizzazione che queste domande poste ai cittadini potrebbe incarnare, come si è già visto per la riforma costituzionale bocciata a larga maggioranza. A meno che, altro scenario, il Parlamento - nel caso di "sì" della Corte Costituzionale - non operi delle modifiche alla legislazione interessata che facciano decadere i referendum. Trovo, anche per un’esperienza in famiglia ma anche per i dati impressionanti nel suo uso anche in Valle d'Aosta, che uno dei temi più delicati riguardi proprio l'uso del "voucher". Il "Post", nel suo sito, ha fatto un riassunto molto interessante su questo strumento e ne cito due passaggi: "Il voucher è uno strumento introdotto per la prima volta nel 2003 con lo scopo di permettere la remunerazione legale di "mini-lavori" che altrimenti potevano essere pagati soltanto in nero: dalle ripetizioni scolastiche alle pulizie, passando per i lavori agricoli stagionali e quelli nel settore turistico. I voucher vengono acquistati dal datore di lavoro (si possono comprare anche in tabaccheria) che poi li consegna al lavoratore. Oggi il taglio più piccolo vale dieci euro e corrisponde ad un compenso netto per il lavoratore di 7,5 euro (per ogni tipo di lavoro esiste un salario minimo orario, che vale sia che il pagamento venga effettuato con voucher o in altro modo). Il resto viene incassato dall'Inail e dall'Inps, che in cambio forniscono una copertura contributiva e assicurativa. Nel corso degli anni la possibilità di utilizzare i voucher è stata costantemente ampliata. Inizialmente erano uno strumento circoscritto a pochi settori e poche categorie di lavoratori, come disoccupati da oltre un anno, pensionati e studenti; oggi possono essere utilizzati da molte più persone e in quasi tutti i settori lavorativi. I momenti più importanti nella "liberalizzazione" sono stati le riforme del 2009 e del 2010, volute dal governo Berlusconi, e soprattutto quella Fornero del 2012, in cui vennero inseriti alcuni nuovi limiti ma la possibilità di pagare con voucher venne estesa notevolmente. Il "Jobs Act" del governo Renzi è intervenuto sui voucher solo alzando da cinque a settemila euro netti la cifra massima che è possibile guadagnare tramite voucher in un anno". Così risulta, invece, l'analisi della parte critica: "Secondo i critici, i voucher si prestano a diverse forme di abuso. Una delle più evidenti consiste nell'utilizzare il voucher per "mascherare" un lavoratore in nero. Per esempio, il gestore di un locale potrebbe impiegare un dipendente per otto ore di lavoro e acquistare un voucher in modo da retribuirlo regolarmente soltanto per una frazione del periodo effettivamente lavorato. In caso di visita di un ispettore del lavoro, gli basterebbe esibire il voucher e giustificare così la presenza del lavoratore proprio nel momento della visita. Per evitare questo problema, il governo ha deciso di aumentare la tracciabilità dei voucher. Dallo scorso settembre il datore di lavoro è tenuto a comunicare non soltanto il nome del lavoratore e il giorno in cui sarà svolto il lavoro, ma anche l'orario di inizio e quello di fine dell'attività". Ma la tracciabilità non risolve il problema di sostanza di un controllo difficile e quello di abusi che si possono comunque produrre per la logica stessa dei voucher come foglia di fico più che metodo che consenta la pur necessaria flessibilità. Per cui sarebbe bene, assodato che questo metodo ha ingenerato molti problemi, trovare nella sostanza e non solo nella notifica delle modalità diverse, se non attraverso la strada maestra della loro abolizione, formule più vantaggiose per i lavoratori, già precarizzati da un mondo del lavoro per nulla positivo in un'epoca di crisi economica che persiste e con troppi giovani disoccupati. Un bacino ideale da sfruttare.
P.S.: A lavorare sul tema dovrebbe essere quel gaffeur del ministro del Lavoro Giuliano Poletti (l'ultima uscita è stata sui giovani italiani all'estero «fuori dai piedi»): sarebbe bene che ad occuparsene fosse qualcuno meno disastroso...