Ho aspettato che si sopisse il clamore per ricordare anche io Stefano Rodotà, giurista insigne e deputato di esperienza, con cui ho lavorato per tre delle quattro Legislature che ho fatto alla Camera dei deputati. Per cui, non potendo certo vantare una familiarità, ho avuto modo di conoscerlo e di apprezzarlo nella quotidianità delle funzioni parlamentari, che è fatta di attività a dimensione pubblica, ma anche di riunioni e discussioni come poteva avvenire in particolare nella Commissione Affari Costituzionali, che è il luogo "filtro" di ogni legge in discussione in cui ho imparato di più con personalità come quella che evoco quest'oggi. E Rodotà, con il suo sorriso e la sua cadenza tranquilla ma tagliente quando necessario perché ai propri principi non derogava, apparteneva a quella stirpe di politici ragionatori che inanellano con perizia le loro idee con discorsi chiari e cartesiani e che sono davvero terreno di formazione per chi li ascolti. Non perdeva un colpo in particolare sul tema cardine dei diritti civili e in tema di difesa della Costituzione.
Trovo, per farmi capire, un suo articolo sulla Costituzione e i valori espressi nella Resistenza come humus culturale di questa carta fondamentale e riguarda anzitutto il perché del regionalismo. Scriveva Rodotà nel 1995: «Vi sono almeno due ragioni che hanno determinato questa situazione. La prima riguarda il fatto che la Costituzione del 1948 è stata sempre segnata da una contraddizione. Da una parte, è stata lo strumento che ha accompagnato la lenta nascita della Repubblica e, se pure non è riuscita a far nascere un vero "patriottismo costituzionale", certo ha costituito un forte ammortizzatore delle frizioni tra le politiche, nessuna delle quali, neppure nei periodi più aspri, fu mai tentata dalla denuncia del patto stipulato nell'Assemblea costituente. Al tempo stesso però, quel testo non è mai stato pienamente accettato da tutti. La lunga inattuazione costituzionale è lì a dimostrarlo, tanto che istituti fondamentali, dal CSM alla Corte costituzionale, dalle Regioni a Statuto ordinario al referendum, vennero realizzati con ritardi grandissimi. La seconda ragione deve essere ricercata in una vicenda più recente, che ha consegnato la Costituzione e la sua riforma ad una impostazione tutta politologica. Così, da anni, si celebrano i fasti di una ingegneria costituzionale senz'anima, che ha sempre più guardato alla Costituzione come ad una macchina, ignorando del tutto le idee fondative che la percorrono e la sua natura di "programma costituzionale". Non solo, dunque, per ripercorrere correttamente una vicenda storica, ma per cogliere anche il senso delle possibili operazioni di riforma, è indispensabile oggi che si torni proprio su quelle idee fondative e su quel programma». Questo è un dato centrale: ogni modifica futura, dopo l'esperienza della riforma Renzi-Boschi bocciata al referendum, deve partire dallo "spirito costituente" e questo varrà anche, quando verrà il momento per il nostro Statuto d'Autonomia. Ricordando che la difesa del regionalismo, compresa la specialità, è la difesa di uno dei valori fondativi. Osservava Rodotà: «L'idea dell'autogoverno e della diffusione dei poteri è tutt'altro che estranea alla Costituzione, e non si esprime soltanto nell'ordinamento regionale, ma in una diffusa preferenza per l'articolazione dei poteri, tanto che si è potuto parlare, giustamente, di una "Repubblica delle autonomie". Lo scarto, talora al limite del conflitto, non può essere spiegato, allora, solo mettendo a confronto le idee costituzionali della Resistenza e il testo Costituzione, ma piuttosto confrontando quest'ultimo con le inattuazioni e le distorsioni delle fasi successive. E questa è una notazione che non serve soltanto a respingere forzature ricostruttive, ma anche per sottolineare come proprio nella Costituzione esista ancora un potenziale che può essere utilizzato per dare concreta espressione a quelle richieste di decentramento e di autonomia divenute più forti negli ultimi tempi, e che spesso sono state presentate come del tutto confliggenti con la logica costituzionale, si da indurre comunque a chiedere, anche per questo, una sua profonda revisione». Ricordo l'interesse di Rodotà, quando se ne discusse, per i problemi delle minoranze linguistiche e non è un caso perché ne faceva parte. Era, infatti, originario di San Benedetto Ullano, millecinquecento persone circa in provincia di Cosenza, ma soprattutto, storica comunità di origine albanese, detta "arbëreshë", una minoranza linguistica, presente anche in altri Comuni. Le origini di questi paesi affondano le loro radici nella diaspora degli albanesi, che si videro costretti a lasciare il loro Paese nel Cinquecento a seguito dell'invasione dei turchi, e che fondarono comunità nel Sud che sono ancora ben orgogliose delle loro tradizioni, oggi protette dalla legge di tutela delle minoranze linguistiche storiche di cui sono uno dei padri. Un caso di scuola: per avere la norma applicativa dell'articolo 6 della Costituzione, fatta eccezione per le norme degli Statuti speciali, si è dovuto aspettare il 1999, a conferma di quelle inattuazioni evocate da Rodotà.