Di Giulio Andreotti ho molti ricordi: la prima volta che lo conobbi fu poco dopo essere diventato deputato nel 1987 ed era uno dei rari momenti in cui non era al Governo. Mi presentai nell'emiciclo di Montecitorio: mi colpì la sua altezza, perché chissà perché me l'ero figurato piccolo, a causa di quelle versioni satiriche - la nota gobba - con cui veniva rappresentato. Poco dopo ritornò a fare il Presidente del Consiglio. Per anni ho conservato un bigliettino di felicitazioni che mi inviò, vergato di suo pugno, dopo un mio intervento nella discussione sulla fiducia. Poi ricordo venne a Cervinia, se mi sovvengo bene per Pasqua e salii a salutarlo e bevemmo qualcosa all'aperto di fronte alla Gran Becca all'hotel "Cristallo" del Breuil. Sempre in quel periodo, all'epoca della Giunta Bondaz, quando l'Union Valdôtaine andò all'opposizione, andai da lui - nel mitico studio in Piazza in Lucina, dove l'anticamera era zeppa di oggetti vari regalatigli durante centinaia di viaggi ufficiali - per dirgli della situazione in Valle. Lui, che era Presidente del Consiglio, mi tenne nello studio un sacco di tempo, senza mai ricevere telefonate. Mi sono sempre chiesto perché: forse il piacere di conversare con un giovane. Ricordo che mi parlò di mio zio Severino Caveri e delle battaglie con Alcide De Gasperi a difesa dell'autonomia valdostana e della preoccupazione con cui lo vedeva brandire, di fronte allo statista trentino, un tagliacarte preso da portapenne, come se fosse stata una spada. O quando gli raccontavo della comunità walser e della necessità di tutelarla e lui, scherzando con la sua voce un po' chioccia, incassato nelle spalle, ridacchiava sul rischio che, essendo germanici, prima o poi invadessero il resto della Valle d'Aosta. L'avevo poi incontrato molte altre volte e non mancava mai la parola giusta, un gesto di gentilezza, anche nei periodi più bui in cui si trovava inquisito nelle celebri vicende di mafia. Alcuni andreottiani che conoscevo mi portavano i suoi saluti anche quando le occasioni pubbliche si erano rarefatte per l'età ormai avanzata. Chissà - mi chiedevo stamattina con un pizzico di vanità - se avrà appuntato qualcosa su di me nei suoi celebri e temuti diari. Con lui se ne va, ad un'età veneranda, uno dei grandi protagonisti della storia italiana: in queste ore leggeremo tutto e il contrario di tutto. La "livella" di Trilussa (e anche di Totò), che lui romano conosceva di certo, ha colpito anche il "Divino Giulio", uomo amato e odiato, che ha attraversato dal dopoguerra ad oggi il mare sempre tempestoso dell'Italia repubblicana. Posso dire di aver conosciuto un pezzo di Storia con la maiuscola e sarà sempre la ricostruzione storica a dirci, alla fine, dei pregi e dei difetti di questo grande navigatore della politica italiana. Il 30 luglio del 1989, a Montecitorio, motivavo così la mia astensione al suo sesto Governo: