Si può partire da molto distante per arrivare molto vicino? Ci pensavo rispetto al rapporto, sempre complesso, fra Giustizia e Politica: due poteri a fondamento della Democrazia, laddove c'è e funziona quell'equilibrio necessario per garantire il funzionamento dei meccanismi reciproci per evitare invasioni di campo. Nelle dittature il problema non si pone, perché il potere giudiziario non è libero e dunque al guinzaglio e dunque usato a tutelare dei forti e come punizione per gli oppositori. In Italia si è molto parlato da sempre dei reciproci confini di buon vicinato e, specie dagli anni di "Tangentopoli", la Politica ha subito rovesci veri e propri a causa dell'intervento della magistratura e spesso si è discusso del rischio di eccessi negli interventi dei giudici, diventati autentici regolatori della vita pubblica. Questo è avvenuto, ma certo la Politica non ha dato buoni esempi, vista la ripetitività di certe storiacce all'italiana.
Per cui, non a caso, l'Onestà è diventata un mantra a beneficio degli elettori, naturalmente per chi può farlo e non tutti la possono sbandierare, perché la loro biancheria non è linda. Ma ci sono due aspetti che mi colpiscono sempre, oltre alla facilità che c'è in Italia e anche in Valle d'Aosta di riabilitarsi agli occhi degli elettori: il primo riguarda, per chi è inquisito, il ritenere la presunzione di innocenza non un sacrosanto diritto, ma soprattutto una possibilità per prendere tempo, confidando nei tempi lenti della Giustizia. Questo in Paesi civili non capita, perché chi sbaglia nell'attività politica paga non solo per ragioni giudiziarie, ma anche per un idem sentire di tipo morale, che va al di là degli aspetti penalistici. L'altro malvezzo evidente, oltre alla storia del vittimismo e del complottismo, è l'idea che ci sia una sorta di lavatrice - il voto popolare - che restituisce un aspetto pulito e presentabile. Ma vado al lontano di cui parlavo all'inizio e che riguarda il caso di Lula, il Presidente brasiliano, che ha visto la mobilitazione di parte della Sinistra (verrebbe da dire ex...) italiana. Ne ha scritto ieri Paolo Mieli sul "Corriere della Sera", anzitutto ricordando la complicata vicenda del suo arresto. Scrive Mieli: «Adesso che si è consegnato alla giustizia del proprio Paese, nella sede di polizia di Curitiba, vale la pena di soffermarci a riflettere sulle modalità con le quali il settantaduenne Luiz Inacio Lula da Silva, ex operaio, sindacalista e infine Presidente del Brasile dal 2003 al 2011, si è reso disponibile a scontare la condanna a dodici anni di carcere (per corruzione e riciclaggio) inflittagli da due sentenze. Per cominciare, però, vanno messe in chiaro due o tre cose. La prima: non è venuta alla luce una prova definitiva e incontrovertibile del fatto che all'ex presidente sia stato regalato un superattico su tre piani con piscina, terrazza e strepitosa vista sul mare come vorrebbe il capo d'imputazione di Sergio Moro, titolare dell'inchiesta "Lava Jato" ("autolavaggio"), una "Mani pulite" in versione brasiliana. Esistono, però, un contratto d'acquisto firmato nel 2005 dalla moglie di Lula, Marisa Leticia, e ritrovato nella loro casa; fotografie che documentano sue ispezioni ai lavori di ristrutturazione dell'appartamento; testimonianze unanimi del portiere dello stabile, dei vicini, degli operai secondo i quali Lula e la moglie si comportavano, in tutto e per tutto, come se fossero i "padroni di casa". Ed esistono altresì molteplici indizi che, stando alle sentenze, dimostrano come anche i lavori di ristrutturazione del favoloso appartamento fossero a carico dei corruttori, riconducibili alla compagnia petrolifera "Petrobras". Secondo punto: il processo, a detta dei difensori di Lula, è stato molto più veloce di altri dallo stesso impianto. Terzo punto: il prossimo ottobre si terranno in Brasile le elezioni presidenziali e Lula, stando ai sondaggi, godrebbe di un vantaggio di circa venti punti sui suoi competitori. Talché può essere presa in considerazione l'ipotesi di un complotto per impedirgli di essere eletto. Cospirazione ordita dai suoi avversari politici e da non meglio identificati poteri economici. Questo almeno è quel che affermano i suoi sostenitori, prima tra tutti Dilma Rousseff, la donna che ne ha raccolto l'eredità, ha guidato il Brasile dopo di lui (2011-2016), ha provato a sottrarre Lula alla giustizia con un escamotage (nominandolo ministro) e alla fine, due anni fa, è stata anche lei travolta dal Parlamento con l'accusa di aver truccato i dati del deficit del bilancio pubblico. Per essere poi destituita». Segue una descrizione delle folkloristiche modalità sudamericane con cui, alla fine, Lula si è consegnato alla Polizia. Mieli racconta infine - cartina di tornasole - del manifesto di sostegno a Lula firmato da esponenti politici italiani: «Il documento esprimeva poi "grande preoccupazione e un vero e proprio allarme per il rischio che la competizione elettorale in un grande Paese come il Brasile venga distorta e avvelenata da azioni giudiziarie che potrebbero impedire impropriamente a uno dei protagonisti di prendervi parte liberamente". Praticamente quei magistrati o quantomeno le loro "azioni giudiziarie" venivano accusati di aver "avvelenato" la vita politica del Brasile in combutta, si presume, con i nemici del Partido dos Trabalhadores. Firmato, tra gli altri, da Romano Prodi, Massimo D'Alema, Piero Fassino, Susanna Camusso, Pier Luigi Bersani, Lia Quartapelle, Vasco Errani, Guglielmo Epifani. Ora, a nessuno dei sottoscrittori può essere sfuggita qualche assonanza tra quel che in quella loro pagina si scrive a favore di Lula e ciò che qui in Italia negli ultimi trent'anni è stato detto e scritto da avversari della sinistra a proposito di "competizioni elettorali" distorte per effetto di azioni giudiziarie. Siamo altresì certi che ognuno dei firmatari in passato ha sostenuto che le sentenze della magistratura - a meno che non siano state emesse da tribunali speciali di un qualche regime - vanno sempre e comunque rispettate. Anche quando si nutre qualche dubbio sul merito delle decisioni e sull'operato dei giudici. Cosa peraltro non infrequente tra gli imputati. Avranno sostenuto anche, Prodi e gli altri, che la solidarietà di appartenenza non dovrebbe modificare il giudizio, neanche nel caso in cui un atto giudiziario modifichi i termini della competizione politica (ciò che qui da noi è capitato più di una volta). E cosa è cambiato adesso? Quando tocca a uno dei "nostri" valgono criteri diversi? Quel manifesto, diciamolo, sarebbe stato un atto davvero rilevante se, invece che essere stato steso a favore di una personalità della propria "famiglia", fosse stato redatto per difendere i diritti di un politico del campo avverso. In questo caso, apporre quella firma, sarebbe stato un modo per dimostrare che, per gli autorevolissimi sottoscrittori, i principi valgono più di ogni spirito familistico di appartenenza. Sarà per un'altra volta». Trovo queste considerazioni molto interessanti e dimostrano quanto mutevole possa essere il giudizio, a seconda dell'imputato e delle sue posizioni, e chiariscono anche come i giudizi debbano essere cauti. Ma da parte degli interessati, condannati e imputati, ci vorrebbe talvolta uno scatto d'orgoglio...