Capisco come il rischio di occuparsi di diversi argomenti possa sfociare nella trappola di un generalismo pericoloso, a fronte di un mondo nel quale le specializzazioni si fanno terribilmente minute e, come in una "matrioska", c'è chi arriva, su certi temi, alla bambolina più piccina. Se capita di farlo non è, però, una presunzione da parte mia, ma semmai curiosità intellettuale, che trovo resti una molla interessante nella propria vita, a condizione di sapersi correggere di fronte a chi ne sappia più di te. Il caso di oggi è significativo: Damien Charrence, mio giovane amico cognein - presidente degli agrotecnici valdostani - è un montanaro "doc", che ha il privilegio di abitare a Gimillian, straordinaria e soleggiata balconata che dà su di una vista mozzafiato del Gran Paradiso. Riporto qui delle sue osservazioni, che trovo molto utili, perché partono da prati in fiore, per altro eccezionali come la vasta area, cinquanta ettari, nota come "Prati di Sant'Orso", che sono un esempio eminente di come la stessa cosa possa essere vista in due modi diversi con occhio "montanaro" e con quello occhio "cittadino".
Ciò giustifica - se ampliamo il discorso e l'esempio diventa solo un pretesto - quel principio federalista di un governo locale, perché in grado di interpretare le cose per il verso giusto. Scrive Damien con la sua prosa asciutta: «Colgo con piacere lo stimolo che mi proviene da Enrico Cavagnet, ex albergatore di Cogne e ora conduttore dell'alpeggio del Grand Lauson, che alcuni giorni fa pubblicò un video sul suo profilo "Facebook" che riprende nella sua maestosità i Prati di Sant'Orso, chiedendosi: "Siamo convinti di essere di fronte a una meraviglia, e non a un ecosistema profondamente malato?". Da professionista del settore agricolo colgo un chiaro riferimento a quella miriade di fiori e colori che popolano le praterie montane cosiddette "polifite" nel periodo tardo-primaverile ed estivo. Perché, dunque, chiedersi se a questo spettacolo della natura corrisponda una "malattia"? Purtroppo, le ragioni per farlo sono ben fondate, e la questione meriterebbe un approfondimento scientifico che purtroppo non è possibile fare su un blog. Proverò comunque a esprimere qualche concetto che credo possa servire a inquadrare il problema». In effetti la scelta di Charrance di abbandonare eccessivi tecnicismi consente anche al profano di ricostruire l'evidente rischio, per chi non conosca la materia, di prendere un abbaglio: «Fino agli anni '50 la zootecnia valdostana era costituita quasi esclusivamente da quelle che oggi chiameremmo micro-aziende, cioè da allevamenti famigliari i cui prodotti erano destinati per la gran parte all'autoconsumo interno. Questa forma di agricoltura di sussistenza si basava sul concetto del ciclo chiuso, vale a dire che l'intero sistema funzionava senza input esterni e quindi senza concimi chimici, mangimi concentrati e fieno acquistato. Il sistema era sostanzialmente in equilibrio, perché i prati e i pascoli ricevevano concimazioni costituite esclusivamente dalle deiezioni zootecniche prodotte dal bestiame locale, restituendo in cambio il foraggio necessario per l'alimentazione invernale dei capi allevati. Da trent'anni a questa parte, complice il miglioramento dei collegamenti stradali con l'esterno, si è assistito a una progressiva immissione nel territorio valdostano di fieno extra-aziendale. Gli allevatori, infatti, per doversi adattare alle economie di scala che il sistema aziendale impone, hanno optato per l'approvvigionamento esterno di foraggio nel momento in cui le risorse aziendali non fossero sufficienti. Al fieno aggiuntivo corrisponde però un aumento di reflui zootecnici derivanti da questo foraggio "straniero", che sono comunque distribuiti sulla superficie aziendale, finendo inevitabilmente per causare un eccesso di elementi nutritivi, in particolare di azoto, portando a quella che si chiama "eutrofia" (ricchezza di nutrienti, intesa come grande disponibilità) o, nel peggiore dei casi, alla "nitrofilia" (un vero e proprio eccesso di azoto). Non bisogna dimenticare che quando ci troviamo davanti a un prato stabile abbiamo a che fare con un insieme di specie vegetali spontanee che si è selezionato in decenni e in cui l'influenza dell'uomo è stata preponderante nel determinarne la composizione floristica e le qualità pascolive e foraggere. Per questo motivo, all'aumento della quantità di nutrienti distribuita, vi sarà un aumento di piante che trovano in questa abbondanza il loro habitat ideale. Ecco quindi il proliferare delle ombrellifere, specie di pessima qualità foraggera generalmente rifiutate dal bestiame, di lunghissima durata di essiccazione dopo lo sfalcio, che colonizzano i prati con il bianco delle loro infiorescenze. I sistemi per combatterle ci sono ma - ahimè, perché è un argomento di grande fascino tecnico e scientifico - per motivi di tempo e di spazio non posso parlarne nel dettaglio qui. Si tratta comunque di operazioni di difficile attuazione, sia perché molto lunghe sia perché per essere efficaci dovrebbero essere ripetute costantemente nel tempo. Se si pensasse di intervenire su una buona parte della superficie foraggera valdostana servirebbe un servizio tecnico apposito che coordini gli interventi in accordo con allevatori e Comuni. Fatto che, in un momento delicato come questo, è praticamente impossibile. Visto il generale disinteresse verso la problematica, credo che un'operazione del genere verrebbe abbandonata quasi subito, sia perché manca la volontà politica di affrontare il problema da parte delle Istituzioni stesse, sia perché per molti è più comodo acquistare il foraggio dall'esterno piuttosto che migliorare la qualità del proprio. Se torniamo a Cogne, in questi giorni si vedono turisti alzare gli smartphone e immortalare i fiori di Sant'Orso, immaginando che dietro a questo paesaggio ci sia l'idillio della natura incontaminata della montagna. Purtroppo non è così, ma continuiamo a vivere nell'illusione che ogni cosa dipenda dall'apparenza di ciò che abbiamo davanti, convinti che soddisfare un tipo di turista opulento sia lo scopo ultimo di ogni nostra azione. Il drammaturgo norvegese Henrik Ibsen diceva "Strappa all'uomo medio le illusioni di cui vive e con lo stesso colpo gli strappi la felicità". Di sicuro con questo tipo di illusioni non si strappano le ombrellifere, che rimangono e proliferano sempre di più, a testimonianza della nostra malattia più grave: un sordido benaltrismo». Potrei citare - ad abundantiam - altri esempi: come gli sguardi ben diversi fra pianura e montagna sull'allargarsi a dismisura dei boschi, sul ritorno dei predatori come lupo ed orso o la ridicola storia delle Olimpiadi invernali italiane non pilotate dalle vallate che potrebbero ospitarle ma, anche nel caso italiano, da città come Torino, Milano e Venezia.