Scrivere in queste ore è un'impresa. Bastava già guardare ore fa i carrelli stracolmi di cibo negli ipermercati per dubitare o che una sciagura epocale in avvicinamento obbligasse a scorte per sopravvivere per dei mesi oppure, più realisticamente, che in queste ore ci si trovasse quasi costretti a "mangiare ai quattro palmenti". Ricorda Eleuterio Rossi sulla "Treccani": "il Grande dizionario della lingua italiana del Battaglia documenta la prima attestazione nella lingua scritta nel 1921, data di pubblicazione della "Vita operosa dello scrittore Massimo Bontempelli" (Como 1878 - Roma 1960): "Le signore mangiavano a quattro palmenti pasticcini, marron-glaces, tartine col prosciutto". Con lo stesso significato, risultano attestate in precedenza le espressioni consimili macinare a due palmenti (Ludovico Domenichi, Piacenza 1515 - Pisa 1564) e mangiare a due palmenti (Giuseppe Giusti, Monsummano Terme, Pistoia 1809 - Firenze 1850). L'esempio tratto dal Domenichi riporta l'espressione figurata al suo materialissimo ambito d'origine. "Palmento" era, in origine, la "macina mediante la quale si riducono in frammenti più o meno fini i chicchi di grano", cioè uno dei due elementi fondamentali del mulino ad acqua. Facile immaginare l'estensione figurata e iperbolica dei palmenti fino alle mandibole umane, viste come operose macine trituranti il cibo".
Scrivere in queste condizioni così estreme, con digestioni lente e faticose, ci pone nelle stesse condizioni stremate delle povere oche ingollate - so di fare orrore a vegani e vegetariani - per il sublime e assai natalizio pâté de foie. Per altro - analogamente - come non compatire il povero cappone che mi ha donato un bel brodo fumante con sacrificio dei suoi zebedei. Questa storia dei pasti fastosi e festosi è un problema serio: tra festicciole e cene con i colleghi, aperitivi e inquietanti "apericena" con gli amici, brindisi e pasti luculliani con i familiari si arriva al traguardo sazi e sovrappeso. "Luculliano", per la cronaca, si riferisce a Lucio Licinio Lucullo, uomo politico romano dell'ultima età repubblicana, soprattutto con allusione al suo fasto, che rimase proverbiale. Ma in realtà ogni tanto, in queste ore, ho temuto di essere sul set cinematografico del terribile film "La Grande Abbuffata" di Marco Ferreri in cui quattro uomini, stanchi della vita noiosa e inappagante che conducono, decidono di suicidarsi, chiudendosi in una casa nei dintorni di Parigi, e mangiando fino alla morte. Uno degli interpreti fu il rimpianto Ugo Tognazzi, esempio mirabile di gourmet-gourmand che amava il cibo come elemento ben al di là del nutrimento. Lo faceva con piatti semplici e popolari senza troppi fronzoli. L'altra sera sono stato a vedere lo spettacolo del grande attore Antonio Albanese, comico ma anche drammatico quando vuole, e con una tecnica straordinaria e una fisicità unica sul palco. Fra gli ultimi personaggi lo straordinario sommelier che degusta il vino con espressioni grottesche che ridicolizzano certe esagerazioni e anche la recita di una ricetta grottesca da nouvelle cuisine con definizioni roboanti di piatti roboanti. Mi è venuto in mente un suo libro spassoso intitolato "Lenticchie alla julienne", che è già tutto un programma. Ne traggo il pezzo della controcopertina per capire il tono e inquadrare il protagonista: «Molti sono i cuochi, ma c'è un solo Alain Tonné. Io l'ho conosciuto una notte sul molo di Marsiglia, sedeva nell'ombra, accarezzava distratto un polipo e osservando un cormorano mormorava: "Arrosto? Scottato al sale dell'Himalaya? Emulsionato con vellutata di alghe?". Mi ha subito fatto pensare a un uomo tormentato da qualcosa: un rimpianto amoroso, un traguardo non raggiunto, parole non dette, droghe avariate. Scusandomi con il polipo, mi sono seduto accanto a lui e gli ho chiesto di raccontarmi la sua storia. Lui mi ha squadrato per lunghi minuti, poi ha detto: "Non ti parlerò del torero". Ho annuito. Ha raccontato. Così, senza un perché, ho colto il segreto delle sue grandi ricette, delle "Alghe sferificate all'alito di cernia" e del "Riso tatuato all'incenso", dei "Vicini al sale" e del "Pollo Pollock", creazioni con cui lo Chef si è proiettato ben oltre i confini dell'alta cucina, della sperimentazione gastronomica e del buonsenso, entrando nel mito. E ho ascoltato le storie dei suoi trionfi planetari, dal "Fuorissimo Salone di Sondrio" allo show cooking al Forum di Davos, dal rinfresco fatale per un nobile scozzese fino a una memorabile sfilata di moda sulla cupola di San Pietro». Ci sono, come contrappunto nel libro, ricette inventate che sembrano purtroppo proposte vere lette in qualche menu. Tipo: "Mousse di cervo albino", "Purea di radici quadrate", "Polpette di licheni con corteccia al pesto". Temo che alcuni di questi titoli di piatti possano risultare davvero realistici in qualche proposta di chef che ormai volano molto più alto del dovuto ed Albanese avrà creato qualche acidità di stomaco in certi divi che si prendono ormai troppo sul serio. Imbattibili certi ingredienti di fantasia: "tabacco aromatizzato al cardo essiccato in una malga trentina", "zolla di muschio calpestato", "guanciale di opossum", "farina di eucalipto", "stecche di Gitanes senza filtro", "mandorle depilate da una filippina bipolare". Anche io trovo certo eccessi davvero risibili e cerco, nella mia vita, di godermi ogni cucina possibile: dallo "street-food" agli stellati, dalle osterie al cibo etnico, dalle pizzerie alle paninerie. Ma sugli eccessi divistici di certi chef meglio stendere un velo pietoso.