Sono cresciuto, da figlio di veterinario, osservando con curiosità e interesse quel mondo dell'allevamento di bestiame di montagna che ci dava da mangiare, visto che papà era professionista per animali di grossa taglia. Era un ambiente in cui ci sguazzava con la sua simpatia naturale, passando da una stalla all'altra con una vita davvero a disposizione dei suoi clienti a qualunque ora del giorno e della notte. Trovo ancora oggi dei bambini di allora che ricordano la bonomia e il battutismo del veterinéro, che era a suo agio con tutti i diversi patois della sua condotta. Posso dire di avere visto da vicino la vita del tempo che fu: una miriade di piccole stalle in un ambiente rurale ben diverso da quello di oggi e che era fatto di straordinarie tradizioni ma anche di una vita grama che sarebbe ingiusto dipingere solo di rosa. La diminuzione dei piccoli allevamenti sparsi si è accompagnata a stalle molto grandi ed è stata evidente la progressiva riduzione nel "pil" valdostano di questo comparto che connotava non solo l'economia ma anche la nostra cultura dalle solide radici contadine. E lo era ancora con quella figura dell'operaio-agricoltore che metteva assieme due settori produttivi che si sono dati la mano nel secondo dopoguerra.
Aggiungerei solo che l'agricoltura, per le ragioni legate alle dinamiche dell'integrazione europea, è stata la prima in cui Bruxelles ha inciso sulla competenza primaria della Valle d'Aosta in questo settore e lo ha fatto di certo dettando regole non sempre facili da armonizzare con la realtà alpina, ma anche con iniezioni di denaro mica da ridere per un settore "protetto" dall'Unione europea contro i rischi di un mercato globale sempre più spietato. Oggi pende la "spada di Damocle" di riduzioni di finanziamenti europei in un futuro ormai vicino ed in Italia si sta lavorando verso una ri-nazionalizzazione degli aiuti che potrebbe avere effetti letali in zona alpina. Per questo seguo con partecipazione la protesta dei pastori sardi (andai come testimone ad un processo a Nuoro e mai vidi, nell'attraversare il centro dell'isola, tante pecore come quella volta!), impoveriti come non mai dal prezzo del latte, che sversano il latte ovino per strada come segno di protesta con scelta dei tempi non casuale, visto che la Regione Sardegna - che ha analogie statutarie molto forti con la Valle - andrà al voto il 24 febbraio prossimo. Su "Linkiesta" ho letto un interessante approfondimento di Francesca Matta (che ho sentito poi a "Radio24"), che spiega come mai immaginare che lo Stato o comunque il "pubblico" si sostituisca al mercato sia un'illusione, su cui bisogna ragionare in Sardegna come in Valle d'Aosta. Spiega all'inizio la giornalista: «Una protesta più che legittima, se si pensa che il prezzo del latte è scivolato da una media di 79 centesimi/litro (Iva inclusa) del luglio 2018 ad una media di 63 centesimo/litro (Iva inclusa) a gennaio 2019. Una cifra che va al di sotto dei costi di produzione - 70 centesimi/litro (Iva esclusa) -, segnando un margine negativo per le aziende produttrici di 14 centesimi/litro. Ma se alle manifestazioni di rabbia e sconforto si vuol trovare una via d'uscita, a poco serviranno le passerelle dei politici di turno in vista di un tavolo di risoluzione del problema. Perché, molto semplicemente, il problema non è politico, ma di mercato». Si passa alla spiegazione del legame fra latte e formaggio: «Se si sfoglia l'ultimo rapporto Istat "Qualivita", subito salta all'occhio la perdita di cento milioni di euro della "pecora nera" tra i primi quindici prodotti di origine in Italia: il Pecorino Romano. E' l'unico nella lista, infatti, ad aver subito una perdita del 38 per cento, passando da 251 milioni del 2016 ai 155 milioni del 2017. Questo ha comportato un inevitabile abbassamento dei prezzi, per cui se a gennaio 2018 si poteva acquistare un chilo di prodotto a 7,50 euro, a dicembre dello stesso anno il prezzo scendeva a 5,40 euro al chilo. Da qui l'effetto domino devastante sul prezzo del latte ovino sardo, che viene trasformato per il sessanta per cento in Pecorino Romano. E proprio per questo motivo la maggior parte delle aziende sarde che se ne occupano (dodicimila in totale) sono strettamente dipendenti di un'unica produzione. Finché il prezzo del Pecorino Romano sale, va tutto bene. Se scende, crolla tutto». Dunque la situazione è questa e bisogna intervenire sul sistema, come si spiega nell'articolo: «Non è una novità che negli ultimi quindici anni il prezzo sia oscillato tra i 70 e gli 80 centesimi/litro. Ciò che è mancato - e continua a mancare - è la ristrutturazione dell'intero sistema di produzione e trasformazione. E' innegabile che cifre del genere siano un danno, oltre che per le famiglie degli allevatori coinvolte, anche per l'intera industria lattiero-casearia italiana, dato che in Sardegna si produce il 67 per cento del latte ovino destinato alla trasformazione in Italia (15 per cento in Toscana, 6 per cento in Sicilia, 5 per cento nel Lazio). In più il Pecorino Romano DOP rappresenta l'81,54 per cento dei formaggi di pecora DOP in Italia e il 52 per cento in Ue, prima del francese Roquefort (28 per cento) e lo spagnolo Queso Manchego (20 per cento). E a dispetto di quel che si è letto in questi giorni, non è vero che il mercato dei formaggi è in crisi. Tutt'altro: nel 2016 il consumo pro capite di formaggi in Europa è arrivato al +1,97 per cento (+7 per cento dal 2012 al 2016), e negli Usa ha raggiunto il +1,55 per cento (+11 per cento dal 2012 al 2016). Come si è arrivati allora a questo punto di non ritorno? Semplicemente, per reiterazione. Le proteste dell'ultima settimana non sono altro che lo sfogo di un settore che affronta ciclicamente lo stesso problema: l'aumento e poi il forte calo del prezzo del latte. Non è una novità, infatti, che negli ultimi quindici anni il prezzo sia oscillato tra i 70 e gli 80 centesimi/litro, poco più o poco meno. Ciò che è mancato - e continua a mancare - è la ristrutturazione dell'intero sistema di produzione e trasformazione. Per quanto riguarda il Pecorino Romano, la produzione (al 95 per cento in Sardegna) è affidata a sedici aziende private - di cui tredici soci del Consorzio di tutela - e dodici cooperative di allevatori socie del Consorzio. Se il 61 per cento della produzione del prodotto è affidata alle cooperative e il 39 per cento agli industriali, è evidente che la responsabilità dell'andamento dell'industria di riferimento siano condivise tra gli allevatori e le aziende». Eccoci al "nodo politico": «Da una parte c'è un continuo sforamento delle "quote latte", stabilite per ciascun caseificio dal Consorzio per la tutela del formaggio Pecorino Romano. Ciò significa che quando il prezzo del formaggio scende per via della sovrapproduzione, c'è la corsa delle stesse cooperative di allevatori che fanno a gara a chi "svende" prima il latte alle aziende di trasformazione. Questo genera un sistema vizioso, per cui le industrie, che conoscono benissimo questo meccanismo, si aspettano puntualmente un prezzo a ribasso. Nel 2018 è successo esattamente questo: la produzione di pecorini è stata di 550 quintali, 60mila in più rispetto a quelli richiesti dal mercato (rapporto Oilos). Oggi si pensa che la soluzione immediata sia dare altri sussidi ai produttori per tamponare la crisi. Si parla di un "fondo latte ovino da 25 milioni". Ma non funzionerà. Come se ne esce? Intanto, come suggerito da un'analisi sui costi di produzione e trasformazione del latte ovino in Sardegna condotta dal professor Antonello Cannas (Dipartimento di Agraria, Università di Sassari), che si occupato a lungo su questi temi, servirebbe una maggiore coesione delle cooperative, che al contrario si fanno la guerra tra loro. Manca del tutto personale direttivo, tecnico, finanziario e commerciale adeguato: molti presidenti e consiglieri, ad esempio, fanno i direttori e i commerciali. Le reti di vendita sono inesistenti, si aspetta che i clienti bussino alla porta, mentre si continua a dipendere da pochi grossisti. E finché non saranno i produttori ad avere potere contrattuale, il prezzo da fare sul mercato continuerà ad essere deciso dai soliti noti sulla pelle degli allevatori. Si fanno i formaggi "per abitudine", non c'è alcuna ricerca di mercato, innovazione e promozione dei prodotti. E' un caso la "Cooperativa 3A" di Arborea, che oggi vanta 226 aziende agricole dislocate in tutta la Sardegna ed è il principale polo produttivo lattiero-vaccino nell'isola con circa il 90 per cento del latte di vacca prodotto nell'isola. A ciò si aggiunge l'inefficienza del sistema di trasformazione, per cui sarebbe opportuno chiudere un po' di caseifici: sono troppi, molti sono sovradimensionati e hanno costi fissi troppo alti, una miriade di formaggi con marchi e nomi diversi. Razionalizzare i sistemi di raccolta del latte; pagare il latte a qualità per fare formaggi migliori; produrre in estate - si pensi al premio in Toscana al +0,1 euro/litro. Fare formaggi richiesti dai consumatori. E non da ultimo, migliorare l'immagine dei formaggi ovini seguendo una buona strategia di marketing. Si potrebbe guardare, ad esempio, al "modello Emilia Romagna", dove esistono aziende forti che si confrontano con cooperative di allevatori altrettanto forti, dando vita a un sistema d'equilibrio tra i due attori principali della filiera». Morale della storia e fonte di riflessione nelle considerazioni finali della giornalista: «Oggi si pensa - e ovviamente il primo a ribadirlo a gran voce è Matteo Salvini - che la soluzione immediata sia dare altri sussidi ai produttori per tamponare la crisi e fissare prezzi minimi arbitrariamente stabiliti dallo "Stato che torna a fare lo Stato". A lui si aggiunge il segretario PD Maurizio Martina, già ministro delle politiche agricole, che parla già di un fondo per il settore del latte ovino da 25 milioni. Ma non funzionerà. Sarebbe un aiuto nel brevissimo termine, sì, ma che non risolverebbe il problema di fondo. Se c'è una cosa che avrebbe potuto - e dovuto - fare la Regione Sardegna, nel corso degli ultimi trent'anni, è forzare le cooperative ad aggregarsi e sviluppare la loro capacità di vendita autonoma. Solo in questo modo sarebbe possibile far rialzare la testa ai produttori locali per metter su un sistema realmente competitivo. Nel frattempo, però, si aspetta un altro tavolo politico in vista delle prossime elezioni. E si continua a strumentalizzare una protesta per qualche voto in più». Triste storia istruttiva non solo sull'isola, che ieri si è arenata a Roma, quando il tavolo governativo ha partorito il misero aumento di dieci centesimi, dopo aver promesso mari e monti, fissando il risultato dell'euro al litro per poi scendere a 70 centesimi. Ma il problema, come illustrato, è ben più complesso.