Io non lo sapevo che quando cominciai la prima elementare ci fosse stata una riforma scolastica rivoluzionaria per l'epoca - datata 1963 - che prevedeva finalmente le classi miste fra maschi e femmine. Penso che questa educazione sentimentale alla convivenza abbia avuto un peso mica da ridere nell'evoluzione della mentalità rispetto alla figura femminile. Vivere assieme nella quotidianità della scuola apriva uno spaccato nuovo, aperto rispetto alla pluralità di modelli del mondo femminile tradizionale di quelle famiglie del dopoguerra in cui nuclei più numerosi degli attuali contavano su molti esempi femminili. Nella mia famiglia, parca di cugine (una su sette, ma molto più grande di me), contavano per me - oltre alla mamma ed a sua madre, sola nonna vivente - molto le zie, anche per le loro diverse personalità. Ricordo zia Eugénie, donna volitiva e impegnata, modernissima nelle letture e nel modello pedagogico d'insegnante.
Ma l'impronta per le mie generazioni è stata la convivenza scolastica e, nell'Italia degli anni Sessanta della mia infanzia, questo ha significato l'affermarsi di compagnie miste e poi l'assoluta normalità di questo stare assieme nel lavoro ed in un rapporto diverso anche all'interno della coppia. Questo penso sia giusto rimarcarlo il giorno della "Festa della Donna" con la sua ripetitività e i molti discorsi che misurano ancora oggi la distanza esistente rispetto ad una piena parità fra uomo e donna. Nella mia idea - per nulla originale e lo dico anche da papà di una giovane donna - questo significherebbe piena applicazione del principio di eguaglianza. Principio che non è uno schiacciasassi, ma contiene in sé il diritto alla differenza per riconoscere a tutti una pari dignità. Per me l'eguaglianza fra uomo e donna è essere posti sempre sullo stesso piano senza pregiudizi, ma porta anche alla necessità di essere rispettosi di quanto di diverso ogni genere esprime. Trovo odiosa l'idea meccanicistica di diritti e doveri calati dall'alto in una reciproca ricopiatura, quando esistono tratti della propria umanità che, in positivo, sono l'esito delle caratteristiche reciproche biologiche e culturali. Ha ragione, tuttavia, Rita Levi Montalcini quando scriveva: «Le donne hanno sempre dovuto lottare doppiamente. Hanno sempre dovuto portare due pesi, quello privato e quello sociale. Le donne sono la colonna vertebrale delle società». Osservo la grande Simone Veil: «Ma revendication en tant que femme c'est que ma différence soit prise en compte, que je ne sois pas contrainte de m'adapter au modèle masculin». Nel lavoro con tante collaboratrici donne e nelle amicizie intessute nel tempo con persone di differenti generazioni ho assistito al lento affermarsi di una parità reale - in cui spiccano doti e capacità di ragionamento al femminile - che non deriva da logiche legislative "rosa" - peraltro aborrite da molte donne che le ritengono offensive, bensì da competenze proprie declinabili al maschile come al femminile. So che il tema è discusso e discutibile, ma chi vive la vita quotidiana e pure sente ancora la presenza di limiti oggettivi ancora vivi, ad esempio in politica, non sempre chiede logiche di favore ma solo pari opportunità reali in cui le donne possano esprimersi senza subire sperequazioni o ingiustizie. Certo, sul mondo maschile e la sua supremazia bisogna agire contro la presenza ancora di ostacoli e impedimenti, spesso più nella testa delle persone che nelle norme giuridiche. Grave è poi il fenomeno della violenza sulle donne, che si esprime in una dimensione maschile ferma ad un'immagine della donna sottomessa e passiva che deriva da oscuri retaggi del passato e dalla paura maschile di svelamento delle proprie debolezze rispetto al modello machista. Da questo punto di vista non si può essere omissivi nel ritenere che queste ferite nella società italiana non siano per nulla accettabili. E non lo è neanche l'accettazione che ci siano in Italia "isole" culturali - penso a parti dell'immigrazione islamica - dove si possa praticare, in spregio delle norme del diritto, una mancanza di parità fra uomo e donna, giustificata da elementi tradizionali o religiosi. Ha scritto, anni fa, Marina Terragni su "Io Donna" del "Corriere della Sera": «Vero che io non posso sostituirmi a un'altra nella sua ricerca di libertà, anche quando sento tutta la sua sofferenza, ma in questo silenzio di grande parte del femminismo io vedo un problema per la mia stessa libertà. Non posso più a lungo tacere - in verità non ho mai taciuto - di fronte alla violenza misogina di una cultura con cui mi tocca convivere in modo sempre più stretto. Non posso non constatare che questa "tolleranza", questo "rispetto" e questo silenzio non stanno impedendo l'islamizzazione di aree sempre più vaste del mondo. Accanto alla sofferenza di quelle donne io ci vivo, nel mio quartiere. La prima cosa che farei, quindi, è rompere il silenzio "tollerante - indifferente", guardare in faccia la realtà, nominare la misoginia di quella cultura, riconoscere questa misoginia come costitutiva dell'islamismo e non come un fatto occasionale o collaterale. Vorrei poterlo fare senza che ciò significhi necessariamente ed automaticamente una difesa acritica e compatta dell'Occidente e delle sue magnifiche sorti e progressive: e tuttavia risposte tipo "anche noi abbiamo i nostri problemi" o "è colpa nostra se le cose stanno andando così" mi sembrano solo un modo per poter permanere indisturbate nell'ignavia». Dedicare a questa marginalizzazione interna al nostro mondo, dietro il paravento del relativismo culturale, un "8 Marzo" in tutta Europa sarebbe un passo avanti.