Leggendo un giornale delle montagne venete trovo una notizia così: "Si chiama "Stone Balancing", ed è una disciplina mentale grazie alla quale si pongono in equilibrio pietre e massi di varie forme, senza alcun supporto ulteriore a quello delle stesse forze di gravità". Ohibò! Questa non la sapevo e scopro che la definizione più o meno suona cosi: "E' una disciplina praticamente sconosciuta ma è affonda le sue radici nella nella storia millenaria dell'umanità e fu usata da sempre come tecnica di meditazione Zen". Uno dei guru della disciplina è il fotografo canadese Michael Grab, che ne ha fatto una pratica meditativa quotidiana e non è insolito trovarlo all'opera attorniato da piccole folle di spettatori incuriositi, mentre si diletta a creare le sue opere.
Nel suo sito "Gravity Glue" colleziona tutti gli scatti delle sue pietre in equilibrio, Grab spiega come questa arte simboleggi la capacità, che ciascuno di noi possiede, di mantenere un punto saldo nel mezzo delle numerose sfide e dei tanti cambiamenti che ogni giorno affrontiamo nella nostra vita. In effetti viviamo tutti i nostri quotidiani equilibrismi... Guardo delle sue foto e scopro degli equilibrismi mica male e direi che è uno forma un pochino più sofisticata di una pratica antica su tutte le montagne e che mi è piaciuto usare - scusate l'autocitazione - quando presentai il primo studio organico di Luca Mercalli sull'impatto dei cambiamenti climatici sulle nostre montagne, il cui titolo era "Le Alpi come cairn per ritrovare in Europa la via di un'intesa con la natura": «Sui vasti pascoli alpini o tra le pietraie, è frequente essere sorpresi dalla nebbia. Improvvisamente, il sentiero scompare e ci si ritrova completamente disorientati. Per non rischiare di camminare inutilmente consumando tempo ed energia o - peggio - precipitare in un burrone, talvolta è meglio attendere una schiarita. Ma poi ecco che - inatteso - arriva un aiuto: in lontananza, appena percepibile tra il grigio, appaiono ora piccoli, ora grandi mucchi di pietre accatastate in modo ordinato. Sono gli "ometti", o - se vogliamo chiamarli con l'arcaico termine di origine scozzese in uso fino alle Alpi francesi - i "cairn", antica radice per "culmine, sommità, rilievo". Allora la nebbia non fa più paura, i "cairn" sono diventati la guida, uno dopo l'altro infondono sicurezza e segnano la via da seguire e in ogni civiltà montanara esiste qualche cosa di analogo. La semplicità, la durevolezza e l'efficacia di questo antico segnale sono assoluti: nasce sul posto, con materiali immediatamente disponibili, semplicemente organizzati dalla mano e dalla mente dell'uomo. Un cartello in legno nasce altrove e deperisce in fretta alle intemperie. Un ometto di pietre integra anche la solidarietà dell'anonimo viaggiatore: chiunque passi può aggiungere la sua pietra e mantenerlo in servizio nei millenni». Ovvio l'uso metaforiche di queste pietre accatastate con logiche piramidali, senza gli equilibrismi citati all'inizio, ma segno antico di accoglienza e di vigilanza. Sono "bonhomme" (Francia), "inuksuk" (Artide), "steinmann" (Germania), "moledro" (Portogallo), "ovoo" (Mongolia), "kummel" (Svezia), "mongioie" (Piemonte). Trovo che siano un caso interessante che dimostra come le montagne, luogo in cui - specie alle quote più alte - si avverte un passaggio fra una Natura coltivata sino al limitare delle praterie più alte a quella più selvaggia, esiste questo rito degli "ometti" (o nelle multiformi varianti linguistiche) che segnano il territorio in modo "naturale" rispetto alla segnaletica succedutasi nel tempo e forse, aggiungerei, ai sofisticati sistemi di geolocalizzazione che rendono davvero difficile perdersi e ci accompagnano con traccia digitale lungo i sentieri. Enrico Testa ha dedicato ai "cairn" una sua raccolta di poesie (Einaudi) e spiega nella copertina questo passaggio assai suggestivo: «"Cairn" è una parola di origine gaelica che significa "mucchio di pietre" in due diverse accezioni: da una parte mucchi di pietre come monumenti sepolcrali preistorici, arcaiche tombe; dall'altra, in epoca moderna, i segnavia sui tragitti montani per indicare la prosecuzione di un sentiero». Ecco, nell'ovvia passerella fra significati, una sua intensa poesia.
«Cairn altrove li chiamano Steinmänner, uomini di pietra. Da queste parti invece, un po' maldestramente, ometti. Sono le piramidali montagnole di sassi che sull'altopiano invaso dalla nebbia amichevolmente indicano la traccia: quella da seguire senza cadere nei crepacci o scivolare giù in ghiaioni ignoti e improvvisi. In tempi remoti, monumenti: sepolture o santuari di pietra lavica o calcare eretti, sotto le male nuvole e i corvi in pattuglia ritornanti, in forma di pegno o rispetto per i morti o forse (ambigue le sragionevoli ragioni dei viventi) per impedir loro di svegliarsi. Ora però ci dicono, in tanto affannarsi, qual è il sentiero irriconoscibile. Segnavia e segnavita. Talvolta, tra fossati asciutti dove abitano neri millepiedi e qualche lucertola passa sul mezzogiorno, vi crescono attorno cespugli di rovi pungenti: more mature e amare. Assaggiale. Sanno di sangue».