Quest'estate, in una sagra popolare, mia moglie va in bagno. Nell'attesa, davanti alla toilette, socializza con una signora che le spiega di essere venuta in Valle d'Aosta a lavorare, perché trasferita dalla sua azienda. Le spiega, convinta, che «i valdostani non esistono più!». Seduti a sorseggiare una birra con amici, commentiamo ridendo l'affermazione perentoria, oltretutto immersi com'eravamo in un paesino alpino con prodotti tipici, gruppi folkloristici e - attorno a noi - un nugolo di altri segnali di una "valdostanità" ben presente. Chissà che cosa di diverso vedeva quella persona e quale idea culturale ed antropologica si fosse fatta dei valdostani. Ci riflettevo su questa identità valdostana, che ha caratteristiche plurime e per fortuna dinamiche, perché tutto cambia nel tempo e se ci sono radici e caratteristiche persistenti sono sempre inquadrabili in un continuo movimento. Ridicolo pensare ad un idealtipo di valdostano standard che sarebbe solo una macchietta, mentre esistono - per ogni epoca - caratteristiche culturali di una comunità che non vive congelata in un freezer.
Ma i valdostani esistono e sono il frutto di secoli di storia, di flussi di genti transitate o fermatesi, di migrazioni importanti avvenute e in atto, ma il perimetro geografico della Valle è il contenitore naturale di questo laboratorio che nel tempo cristallizza le caratteristiche salienti di un idem sentire di un popolo che qui vive. Chi non si riconosce in queste foto d'insieme, nella corrente della storia, non ha obblighi e può anche pensare che i valdostani siano come i trofei impagliati degli animali. Mentre, per fortuna, sono esseri viventi che ogni giorno, nella vita sociale, esprimono il loro modo di vivere e lavorano assieme su un patrimonio di idee, usi, costumi e modi di essere e comportarsi. Ero ieri alla "Croix Noire", l'arena all'ingresso di Aosta, in vista della finalissima delle "Batailles de reines" di oggi (sarò in onda su "RaiVd'A" dalle ore 10.20 alle 11.30) ed osservavo con interesse come una manifestazione che viene dal passato più remoto, il Neolitico con l'addomesticamento del bestiame, abbia saputo cambiare nella modernità, restando per molti un momento di aggregazione ben al di là dell'ormai piccolo mondo contadino rispetto al ruolo dell'agricoltura nella Valle d'Aosta rurale di un secolo fa o del secondo dopoguerra. Lo stesso vale per la "Fiera di Sant'Orso" del 30 e 31 gennaio. Sarebbe ridicolo il solo pensare che la grande kermesse popolare abbia, nel suo respiro millenario, una medesima ripetizione secolo dopo secolo. Se un valdostano di mille anni fa, di 500 anni fa o di 150 anni fa venisse a raccontarci la "Foire" dei suoi tempi saremmo colpiti dalle differenze enormi rispetto a quanto avviene oggi, esattamente come quel milieu dell'allevamento che è il cuore delle "Batailles". Questo perché ogni identità è una costruzione culturale e come tale fatta di condivisione di pensieri, miti ed invenzioni che modellano comportamenti collettivi che sono elementi aggreganti che si tramandano e che ogni generazione attualizza, mettendoci la propria mentalità, i propri gusti e la marea di influenze che agiscono sulla nostra identità personale, tassello di quella più grande che condividiamo con gli altri. Per questo non si può essere passatisti e pensare ad una valdostanità fasulla e artificiale, perché compartecipi ed investiti da tanti cambiamenti siamo naturalmente portati a stare a galla, cambiando per adeguarci alle circostanze per vivere bene nell'epoca in cui ci troviamo che non è quella dei nostri avi. Bisogna farlo senza farsi travolgere. Ci vuole resilienza, come si dice oggi è cioè, come spiegato da Simona Cresti della redazione consulenza linguistica della "Accademia della Crusca": «Con il significato di "capacità di sostenere gli urti senza spezzarsi", la parola "resilienza" ha guadagnato, negli ultimi anni, una sorprendente popolarità, tanto improvvisa da favorirne la percezione come di un calco dall'inglese. Il termine, in realtà, era già presente nel vocabolario italiano, anche se il suo uso e il suo significato - prettamente tecnici - si celavano ai non specialisti. In fisica e in ingegneria resilienza indica la capacità di un materiale di resistere a un urto, assorbendo l'energia che può essere rilasciata in misura variabile dopo la deformazione. E' probabile, tuttavia, che la lingua inglese abbia effettivamente giocato un ruolo nel rilancio della parola negli usi correnti, in virtù di un processo che ha come tramiti la ricerca e la divulgazione scientifica, e sfrutta la rete come cassa di risonanza (ambiti, entrambi, in cui l'inglese è la lingua franca)». Poi si scava nel passato e nell'evoluzione della parola: «Come molti vocaboli scientifici, resilienza ha un'origine latina: il verbo "resilire" si forma dall'aggiunta del prefisso "re-" al verbo "salire - saltare, fare balzi, zampillare", col significato immediato di "saltare indietro, ritornare in fretta, di colpo, rimbalzare, ripercuotersi", ma anche quello, traslato, di "ritirarsi, restringersi, contrarsi". "Resilientia, resiliens" restituiscono dunque inizialmente il senso di un'esperienza quotidiana non specialistica, e si dicono di oggetti che rimbalzano, o, in senso esteso, di chi batte in ritirata o si ritrae d'improvviso. Nel corso dei secoli e del progredire del pensiero scientifico occidentale - che, ricordiamo, è stato prevalentemente espresso in latino fin oltre il Seicento - l'aggettivo "resiliens" ha indicato sia il rimbalzare di un oggetto, sia alcune caratteristiche interne legate all'elasticità dei corpi, come quella di assorbire l'energia di un urto contraendosi, o di riassumere la forma originaria una volta sottoposto a una deformazione». Poi esplode la modernità dell'uso: «Tutto questo vale fino a qualche anno fa. L'esplodere di un uso più disinvolto di resilienza si data intorno al 2011: da allora il sostantivo - insieme al corrispondente aggettivo "resiliente" - circola sui media cartacei e digitali, cavalcando la particolare attrattiva "metaforica" che è in grado di esercitare. In fisica "resilienza" è la capacità di un materiale di assorbire energia se sottoposto a deformazione elastica; l'esempio più semplice è quello delle corde della racchetta da tennis che si deformano sotto l'urto della pallina, accumulando una quantità di energia che restituiscono subito nel colpo di rimando. Il contrario della "resilienza" è la "fragilità", che caratterizza invece materiali dotati di carico di elasticità molto prossimo alla rottura. "Resilienza" non è quindi un sinonimo di "resistenza": il materiale "resiliente" non si oppone o contrasta l'urto finché non si spezza, ma lo ammortizza e lo assorbe, in virtù delle proprietà elastiche della propria struttura. Da qui, una relativa stabilizzazione del significato e il proliferare delle estensioni: in ecologia, "resiliente" è una comunità (o un sistema ecologico) capace di tornare velocemente al suo stato iniziale, dopo essere stata sottoposta a una perturbazione; nell'ambito tecnico della produzione dei tessili, "resiliente" indica un tessuto capace di riprendere la forma originale dopo una deformazione, senza strapparsi; in psicologia, la capacità di recuperare l'equilibrio psicologico a seguito di un trauma, l'adattabilità». Infine l'affermazione sui giornali, che stabilizza l'uso della parola: «Stefano Bartezzaghi la definisce "parola-chiave di un'epoca", sottraendola al rapido declino cui sarebbe destinata in quanto semplice "parola alla moda". "Resilienza" assume un valore simbolico forte in un periodo in cui l'accesso interpretativo più frequente alla condizione economica, politica, ecologica mondiale è fornito da un'altra parola, "crisi": lo "spirito di resilienza" rappresenta la capacità di sopravvivere al trauma senza soccombervi e anzi di reagire a esso con spirito di adattamento, ironia ed elasticità mentale». Chissà se la comunità valdostana saprà mantenere queste caratteristiche che permettono quella resilienza che l'ha condotta sino a qui attraverso mille passaggi insidiosi e certi ostacoli oggi di fronte a noi sono piuttosto alti.