Era il gennaio del 2018, quando scrissi per la prima volta di Liliana Segre, divenuta Senatrice a vita su scelta nobile del Presidente Sergio Mattarella. Raccontai di come quella nomina di una ebrea italiana scampata al lager mi ricordasse mio papà, che ad Auschwitz ci passò nel 1944 un certo periodo come militare internato in lavori come l'installazione di linee telegrafiche. Con altri suoi coetanei era stato preso prigioniero e caricato su di una tradotta ad Aosta nel mese di maggio e spedito in Germania, da dove tornò un anno dopo con sulle spalle un'esperienza terribile che rimase sempre nel suo animo. Uomo spiritoso e vivace, ma che nascondeva un peso doloroso e non cancellabile dietro questa sua maschera. Allora aveva vent'anni, quando scoprì in poco tempo - grazie ad un prete polacco che in francese gli descrisse la macchina di sterminio - cosa fosse quel gran campo ricolmo di prigionieri con una divisa bianca e nera. Erano prevalentemente ebrei che vivevano lì segregati in attesa di essere "gassati", perché Adolf Hitler ed il suo nazismo volevano cancellare quel popolo dalla faccia della Terra ed ebbero con le leggi razziali la piena complicità del fascismo.
Io più di una volta sono stato in quel campo, oggi in territorio polacco, all'epoca zona occupata dalla Germania, e ci ho portato i miei figli «per non dimenticare» e ci porterò anche il bambino più piccolo come vaccino contro i totalitarismi. Raccontai all'epoca la storia della Segre, che da bambina (non aveva ancora quattordici anni) venne internata nel campo di sterminio di Birkenau-Auschwitz, posto che ancora oggi trasuda orrore. Le venne imposto un numero di matricola tatuato sul braccio ("75190"). Il padre venne ucciso il 27 aprile del 1944. Nel 1945 i nazisti, in fuga dall'avanzata dell'Armata Rossa, sgombrano il campo, trasferendo in Germania Liliana ed altri 56mila prigionieri nella terribile "marcia della morte". Internata prima nel campo femminile di Ravensbruck e poi in quello di Malchow, nel nord della Germania, la ragazza italiana venne liberata dai sovietici il 30 aprile del 1945. Dei 776 bambini italiani di età inferiore ai quattordici anni deportati ad Auschwitz, la Segre risultò tra i soli venticinque sopravvissuti. Rientra a Milano nell'agosto del 1945. L'altro giorno in Senato si è votata, su sua proposta la nascita, della Commissione per il contrasto dei fenomeni d'intolleranza, razzismo, antisemitismo, istigazione ad odio e violenza senza i voti di Lega, Forza Italia e Fratelli d'Italia che si sono astenuti (151 "sì", 98 astensioni, nessun "no"). Quando l'aula ha tributato alla Segre un riconoscimento applaudendo ed alzandosi in piedi il centrodestra non l'ha fatto. Il figlio maggiore della Segre, Alberto Belli Paci, ha scritto una lettera al "Corriere della Sera", meritevole di essere letta senza commenti: «Caro direttore, sono allibito da quello che leggo in questi giorni, dalle dichiarazioni dei politici, da questo travisare intenzionalmente concetti come censura, libertà di opinione, difesa della famiglia, antisemitismo, in bocca a chi vorrebbe chiuderci dentro in una Italia sempre più isolata, lontana dai valori liberali nei quali siamo cresciuti e nei quali mi riconosco profondamente. Dove gli uni scrutano con sospetto gli altri, dove ognuno si tiene stretto il proprio tornaconto, la bandiera di partito, la propaganda, le dichiarazioni roboanti. A voi che non vi alzate in piedi davanti a una donna di 89 anni, che non è venuta lì per ottenere privilegi o per farsi vedere più brava ma è venuta da sola (lei sì) per proporre un concetto libero dalla politica, un concetto morale, un invito che chiunque avrebbe dovuto accogliere in un mondo normale, senza sospettosamente invece cercare contenuti sovversivi che potevano avvantaggiare gli avversari politici. A voi dico: io credo che non vi meritiate Liliana Segre! Guardatevi dentro alla vostra coscienza. Ma voi credete davvero che mia madre sia una che si fa strumentalizzare? Con quel numero sul braccio, 75190, impresso nella carne di una bambina? Credete davvero che lei si lasci usare da qualcuno per vantaggi politici di una parte politica in particolare? Siete fuori strada. Tutti. Talmente abituati a spaccare il capello in quattro da non essere nemmeno più capaci di guardarvi dentro. Lei si aspettava accoglienza solidarietà, umanità, etica, un concetto ecumenico senza steccati, invece ha trovato indifferenza al suo desiderio di giustizia». La Segre stessa ha poi mandato al "Corriere" questo suo scritto di tanti anni fa in cui non descrive cose terribile, ma la tragedia della quotidianità in un posto inumano: «La stanza era grande, lunga e stretta e vuota completamente. C'erano due porte e una finestra piccola, vicino alla finestra la stufa. La stufa era di ferro, era appena tiepida ma quel leggero tepore era annullato dalla corrente gelida che veniva dalla finestra. Stavo attaccata alla stufa e guardavo fuori la distesa di neve e le macchie indistinte delle prigioniere in fila, lontano verso i fili spinati. Avevo una consapevolezza nuova della mia nudità e del mio cranio rasato. La rasatura era stata crudele, la macchinetta passava duramente sulla povera testa quasi ormai pelata. I miei capelli neri lunghi, ricci, ribelli erano per terra e non avevo potuto tenere per me neanche il nastrino verde che li legava nella mia vita precedente. Non ero mai stata così sola e così infelice. Le ore passavano e ogni tanto entravano dei soldati, mi guardavano, ridevano, scambiavano una battuta di spregio. Avevo fame, sete e freddo. Nessuno mi diede nulla né da bere né da mangiare né da asciugarmi, dopo la doccia rimasi bagnata mentre aspettavo che i miei stracci venissero disinfestati. La scoperta di un pidocchio sulla mia faccia e il mio gesto di ribrezzo disperato avevano attratto l'attenzione della kapò che mi aveva mandato subito alla disinfestazione e alla rasatura: io, la fortunata alla quale un mese prima all'arrivo a Birkenau non erano stati tagliati i capelli per un capriccio della sorvegliante, nell'invidia delle altre prigioniere. La mia faccia era terribile riflessa nel vetro. Mi facevo paura, volevo gridare, volevo piangere, volevo urlare la mia disperazione a quel cielo grigio: era inutile. Dopo ore entrò una ragazza. Avrà avuto forse due o tre anni più di me, anche lei nuda e disperata. Si avvicinò alla stufa e ci guardammo con pietà fraterna, già amiche, già sorelle, con occhi adulti. Tentammo in tutti i modi di parlare ma non ci capivamo assolutamente (forse era cecoslovacca o ucraina) e allora non so più a chi delle due venne in mente di tentare con il latino scolastico delle nostre prime frasi delle scuole medie, così lontane da lì. E fu fantastico poterci scambiare dolci brevissime frasi: "Patria mea pulchra est" ("La mia patria è bella"), "Familia mea dulcis est" ("La mia famiglia è dolce"), "Cor meum et anima mea tristes sunt" ("Il mio cuore e la mia anima sono tristi"). Fu molto importante quel momento e anche se non ho mai saputo il nome di quella ragazza, con lei ho vissuto un'altissima affinità spirituale e la massima condivisione in una condizione umana bestiale. Grazie amica ignota, spero che tu sia tornata a raccontare di quel giorno di marzo 1944 nella "Sauna" di Birkenau».