Si avvicinano i quarant'anni dalla nascita di "Rai3" e del Telegionale regionale e mi è capitato di annotare, per una rivista torinese, qualche pensiero. Tutto parte dalla memoria, che è la miglior macchina del tempo in circolazione e, se la fisso sul 15 dicembre del 1979, la risposta è immediata, ma in una situazione che in quel momento era quella che mi appresto a descrivere. Un gruppo di giovani giornalisti quasi tutti in erba (Massimo Boccarella, Dario Cresto Dina, Beatrice Mosca ed altri ancora) aspettavano l'ora canonica del primo Telegiornale regionale della sede "Rai" seduti nella regia della televisione privata valdostana che allora era sulla cresta dell'onda, "Rta - RadioTeleAosta", situata in cima al "Palazzo Fiat". Comparve sul video Daniele Amedeo - allora voce conosciuta della "Voix de La Vallée", gazzettino regionale - di cui in molti non conoscevano il volto ed fu per noi - io c'ero! - un sospiro di sollievo, che diventò placida tranquillità alla fine del Tg del servizio pubblico. L'insieme ci era parsa poca cosa ed eravamo pronti a reggere il confronto.
Naturalmente non ci avevamo per nulla preso ed il Telegiornale regionale prospera ancora oggi, mentre le televisioni private via etere in Valle d'Aosta sono scomparse.
Per altro - e per quel che mi riguarda - solo due mesi dopo quella serata mi trovai felicemente dall'altra parte della barricata, diventando conduttore del Telegiornale della "Rai"!
Un evento del tutto imprevisto, che fu frutto del "Caso": venni licenziato da "Rta" proprio qualche ora dopo aver visto il primo Tg dell'emittente pubblica. Avevo dato fastidio con qualche mio servizio e la mia testa era stata chiesta da politici locali, che l'avevano facilmente ottenuta dal proprietario di "Rta", l'imprenditore Giuliano Follioley. Ed invece, con una capriola fortunata, ventenne ero riuscito a diventare praticante in "Rai" grazie alla stima del Caporedattore dell'epoca, Mario Pogliotti, cui dedicherò questo doveroso ricordo, ma senza dimenticare l'allora Direttore di Sede, Roberto Costa, grande giornalista lombardo, che ci fece anche lui da chioccia con il suo tono burbero e l'eterna sigaretta.
Ma il mio mentore fu Pogliotti, che mi testò in poche settimane come collaboratore esterno e poi mi aiutò ad entrare, dopo che il prescelto per l'assunzione era Armido Chiattone, purtroppo scomparso tempo fa, esponente democristiano che rifiutò per via dello stipendio troppo basso rispetto a quanto guadagnava come assicuratore! Per cui, alla fine, fu fatta una scelta - come dire? - professionale, contando - immagino, sulla mia passione.
Piccolo di statura, voce pastosa, occhi azzurri come il cielo, Mario aveva scelto lui - dopo una lunga carriera d'inviato cominciata a Torino e continuata a Roma - di andare ad Aosta, cercando in sostanza un "buen retiro" e questo per noi della Redazione fu una fortuna. Era un Capo per nulla asfissiante, divertito dalle mattane di noi più giovani, trasmettendoci la sua umanità e la sua ironia irresistibile, che era forgiata in uno strano miscuglio fra spessore professionale e una vena artistica di musicista, compositore e autore che scoprì molti talenti e innovò anche quel genere italiano chiamato "varietà". Anche se in sostanza - a dimostrazione della sua poliedricità - restava un uomo del dopoguerra con quell'esperienza impegnata di una canzone "alternativa" dei "Cantacronaca" che, come diceva Umberto Eco: «Se non ci fossero stati i Cantacronache la storia della canzone italiana sarebbe stata diversa” e con quella passione del jazz che ci trasmetteva con qualche piccolo spettacolo in redazione con una voce alla Louis Amstrong».
Mentre la macchina della Radio, nata per la Valle agli inizi degli anni Sessanta e trasferita alla fine da Torino ad Aosta nel 1968, era ben oliata, a Mario toccò far partire la Televisione e quel Telegiornale che divenne, com'è ancora, un appuntamento immancabile per i valdostani.
Si fidava dei suoi redattori, dava consigli più che sgridate quando sbagliavamo, aveva in mente un modello di giornalismo efficace e indipendente che ci trasmetteva. Era attento a quella necessità di avere in Valle d'Aosta una compresenza di italiano, francese e anche del patois francoprovenzale. Quando lasciai la "Rai" per una lunga esperienza politica - e lui aveva lasciato per andare in pensione - rimpiansi questo uomo affettuoso. Ci sono incontri importanti nella propria vita: contano più queste persone che ti permettono di svoltare rispetto ai molti volti grigi che sono destinati a sparire dai ricordi per la loro intrinseca inutilità.
Quando morì nell'autunno del 2006 a 79 anni, nella cerimonia laica al cimitero di Aosta, prima della cremazione, fu Piero Angela - suo fraterno amico - a pronunciare un'orazione funebre che sarebbe piaciuta a Mario. «Vi farò ridere»: disse con il suo tono pacato Angela. E lo fece davvero, in modo intelligente e spiritoso, togliendo la morte di torno, ma raccontandoci quell'uomo che aveva vissuto momenti straordinari fatti di musica, arte, inventiva in una corsa sfrenata com'era stato quel periodo del boom del dopoguerra pieno di speranze, sogni e avventure. Io, che allora ero presidente della Regione, non feci altro che ricordare quanto Pogliotti avesse fatto per la Valle d'Aosta, di cui era diventato cittadino, sempre animato da quello spirito di profondo civismo progressista che faceva parte di lui. Aggiungo, con riconoscenza, che mi seguì con grande affetto nella mia carriera politica.
Certo, quando mi guardo indietro, avendo avuto una vita sospesa fra radio, televisione e politica (anche nei 22 anni di aspettativa ho continuato a fare rubriche radio ed a scrivere per tenermi in allenamento), ogni tanto mi chiedo - essendo stato il più giovane giornalista dell'epoca e vicino ad essere il decano - che cosa avrei fatto se la mia carriera fosse stata solo quella.
Mi rispondo facilmente, guardandomi allo specchio, che non sarei quello che sono oggi.