Mi sono goduto in questi giorni "Alla fonte delle parole. 99 etimologie che ci parlano di noi", edito da Mondadori e scritto da Andrea Marcolongo. Laureata in Lettere classiche presso l'Università degli Studi di Milano. vive oggi a Parigi, è una scrittrice italiana - dice Mondadori - attualmente tradotta in 27 Paesi. Si vede che quanto abbia una certa predilezione, per via della formazione culturale, per il mondo francese, oltre a scrivere libri e curare tradizioni, scrive per "TuttoLibri" de "La Stampa". Dico subito quanto mi sia piaciuto questo viaggio nelle parole, perché pieno della sensibilità dell'autrice, del suo garbo e di un'intelligenza assieme profonda e piena di leggerezza di chiama la propria materia e la colloca nel mondo vivo e vegeto e non in una polverosa biblioteca. L'effetto è quello del viaggio che spazia dal passato più profondo all'attualità, arricchendo il lettore ad ogni pagina. E ti viene voglia di dire: caspita io questa vorrei conoscerla, perché - sul fondo di una vena di amarezza che traspare - si erge la forza della cultura e la conferma che la conoscenza è la capacità di condividerla - dote rara - si radica solo laddove esiste un animus predisposto e fecondo.
La stessa autrice ha detto a La Stampa: «Alla fonte delle parole non sarebbe mai nato, almeno non adesso in libreria, se non avessi vissuto un momento ruvido, una colluttazione con il reale che mi ha costretta a fare ordine. Cominciando dalle parole per dirlo e per dirmi: non conosco altro modo. Ho dunque riaperto i taccuini che avevo accumulato nel corso di decenni - tutti annotati a matita nella mia calligrafia da miniaturista - e ho iniziato a cercarmi lì dentro. (...) Non si può scrivere soltanto a proposito di etimologie (a meno che non si stia compilando un dizionario, di cui questo mio libro non ha alcuna pretesa), ma si scrive - e si vive, almeno per me - grazie alle etimologie». E al "Messaggero" ha aggiunto nel possibile legame tra etimologia e bizzarria: «Bizzarro non significa strano o peggio, folle. Bizzarro significa punto, pizzicato. Ovvero recuperare un significato smarrito, colmare il baratro con il linguaggio reale e stupirsi, sentirsi pungere da un significato riscoperto, inedito. Non scrivo di etimologie, altrimenti avrei composto un dizionario vero e proprio. Le etimologie sono un metodo per narrare, una via che al giorno d'oggi può apparire strana per pungolare il lettore e soprattutto me stessa, usando le parole esatte contro la sciatteria». Quanto mi piace quest'ultima spiegazione e, sapendo che un libro si legge più che raccontarlo, aggiungo un passaggio sulla Libertà che andrebbe fatto leggere a tutti per la sua forza e l'impegno civile che trasuda: «Libertas in latino, ἐλευθερία (eleuthería) in greco, sono parole che risalgono a un'antichissima radice indoeuropea *leudhero-, ovvero "colui che ha il diritto di appartenere a un popolo". La libertà è, da sempre, la condizione dell'uomo libero fin dalla nascita, contrapposta a quella del servus, lo schiavo, o alla mezza via del libertus, lo schiavo affrancato (per una manciata di monete). Solo l'uomo libero può scegliere di appartenere a un'entità superiore al di sopra del singolo individuo, uno Stato, una fede, una famiglia, un amore, una professione, un'ideologia. Il servo invece appartiene a qualcuno, al pari di un oggetto. Il suo pensiero non è adesione ma possesso; la sua parola non è volontà di compiere un'azione, è esecuzione di un ordine. L'anelito a essere liberi e non più servi, schiavi, è il motore di ogni storia, da quella con la lettera maiuscola, la Storia del mondo, a quella più piccola, la storia personale di ogni uomo. E la libertà è il più antico bisogno dell'essere umano: in suo nome si sono organizzate rivolte, proteste, guerre, rivoluzioni capaci di cambiare i confini geografici di interi popoli e quelli temporali di intere epoche. E' per la pretesa di libertà che, in ogni momento della storia e in ogni luogo della terra, l'uomo ha smesso per tempi, più o meno lunghi, di essere singolo e si è unito. Per potersi dire non più uno, ma uno di uno di coloro che la storia l'hanno cambiata. Si è liberi solo insieme a qualcuno o qualcosa più grande di noi. La solitudine è invece la strada maestra verso la piccolezza della schiavitù, relegati in una stanzetta in attesa di nuovi ordini. Della libertà facciamo giustamente un punto d'onore, lottiamo contro chi ci impedisce di scegliere cosa fare, dove andare, come pensare, in chi credere, chi amare. Senza dubbio alcuno la libertà è il sentimento più nobile dell'uomo, per cui vale la pena alzare la testa, la voce, le mani al cielo. E per cui vale la pena di andare a liberare gli altri. Spesso, troppo spesso ci dimentichiamo però che essere liberi significa sì avere un diritto da esercitare, ma allo stesso tempo anche un dovere da assolvere: quello di scegliere. Di decidere da chi o cosa liberarci e di che farne, poi, della libertà ottenuta. Viceversa, a cosa serve essere liberi? Il senso greco della libertà era così profondamente umano da saper diventare politico, universale. Era sì la possibilità di dirsi liberi da un tiranno, da uno straniero, da un padrone, ma era soprattutto il diritto-dovere di esercitare quella libertà per mezzo di parole e gesti concreti. Tutti vogliamo essere liberi da, ma nel momento esatto in cui lo diventiamo siamo tenuti a scegliere di. E scegliere qualcuno o qualcosa significa, sempre per logica necessità, rinunciare a qualcun altro o qualcos'altro. Tornando alla citazione di Nelson Mandela in apertura, e a ciò che quest'etimologia reclama, due sono le possibilità date. Una è la grettezza; l'altra è la libertà. Quando qualcuno ci chiede di chinare il capo o le ginocchia. Quando qualcuno ci impone di rinunciare alla facoltà di parola, ai nostri diritti civili e politici. Se ci minacciano, se ci ricattano, se ci insultano. Se pretendono di comprarci per un tozzo di pane, con in omaggio un quintale d'ignoranza. Pure se ci sparano. Se scegliamo, liberi, di cedere, di abbassare la voce fino a spegnerla, diventeremo immediatamente schiavi. La libertà di umiliarci passerà direttamente a "loro", la cui forza sarà la nostra debolezza. Insieme al nostro silenzio. Se invece decidiamo di pronunciare una parola di sole due lettere, NO, non importa poi cos'accadrà. Prigionieri, reclusi in una verbale e psicologica cella saranno loro». Applausi e grazie di cuore.